All’inferno e ritorno. Passando per dipendenze di vario genere ed esperienze nelle più disparate comunità d’Italia. La storia di Francesco è forte, come migliaia di altre simili alla sua. Ma si differenzia per la modalità della rinascita di quest’uomo di 65 anni, nato in una cittadina dell’area metropolitana di Cagliari, che ha conosciuto la droga per la prima volta a 17 anni. Come tanti suoi coetanei degli anni Settanta. «Ho iniziato con l’hashish perché lo facevano i miei amici. Poi sono passato agli acidi e all’eroina. Più avanti ho fatto uso di cocaina. E non sono più riuscito a controllarmi», spiega lui.
Lo incontriamo allo Spazio ArteS di Cagliari, una struttura del Comune gestita dalla cooperativa sociale “Panta Rei Sardegna” e destinata ad accogliere persone con fragilità mentali. In che cosa consiste la metodologia innovativa che sta dando tanti risultati positivi? «Un aspetto fondamentale per lavorare in questo servizio è la formazione clinica, pur non essendo un contesto prettamente clinico, in quanto il lavoro quotidiano con le persone con diagnosi differenti prevede di “indossare degli occhiali sistemici” in grado di leggere la complessità del caso e del sistema in cui la persona è inserita», spiega Melania Cabras, coordinatrice e psicologa di Spazio ArteS. «Uno strumento importante che utilizziamo all’interno del centro è la costruzione dei Piani educativi individualizzati – Pei, attraverso i quali l’équipe multidisciplinare (psicoterapeuta, psicologi, pedagogisti ed educatori) crea insieme alla persona che frequenta il servizio, alla famiglia, ai caregiver, al servizio sociale, al Centro di salute mentale di riferimento, una serie di obiettivi sul quale lavorare per raggiugere obiettivi in differenti ambiti. L’équipe è attenta a convertire gli obiettivi dai bisogni individuali a quelli del gruppo e viceversa, avendo sempre uno zoom dal singolo al gruppo e dal gruppo all’individuo. L’osservazione e l’intervento applicato ad ArteS prevede che tutte le figure professionali siano allenate e specificamente formate ad accompagnare gli artesiani e le artesiane (come ci piace chiamare le persone che frequentano il centro) nei loro percorsi. Pertanto, questo vale per lo psicologo e lo psicoterapeuta, per il pedagogista e per l’educatore, ma anche per gli atelieristi (gli artisti che conducono i laboratori, ndr) che, attraverso varie forme d’arte, sfruttano la creatività per avvicinarsi delicatamente a queste persone. Poi occorrono passione, amore, dedizione».
Francesco ha tentato a più riprese di uscire dall’incubo in cui si era cacciato. «Avevo qualche disagio in famiglia, ma anche altri lo avevano e non sono caduti nella trappola. Ho trascorso 7-8 anni di calvario, tra ospedali e carcere. Dopo ho cercato di risollevarmi andando in Lombardia. Sono entrato in una comune di Bergamo. Mi sono disintossicato ma, pur avendo terminato la terapia con il metadone, mi sono accorto improvvisamente che qualcosa nella mia testa non funzionava. Non sapevo che cosa fosse, però non ero più me stesso. Sono finito all’albergo dei poveri: per mantenermi mi alzavo la mattina alle 5, andavo sino a Milano per lavorare con una ditta di traslochi. Era però una situazione precaria. In comunità non mi trovavo bene, avevo bisogno dei miei spazi, perciò continuai nel mio peregrinare per l’Italia. Cominciai a bere, così dovetti rivolgermi per la prima volta a un centro di salute mentale, a Roma. Nella capitale fui accolto dalla rete Caritas, che mi fece fare dei lavoretti da badante. Ma non mi sentivo bene, fui ricoverato più volte nelle cliniche psichiatriche. Non riuscivo ad uscire dal tunnel, persi tutto un’altra volta. Per colpa dell’alcol, ebbi due incidenti stradali gravissimi, ma ancora non era arrivata la mia ora. La mia vita era diventata uno squallore. Per mia fortuna, arrivato al fondo, nel 2013 tornai in Sardegna. Ero irriconoscibile: barba lunga e una busta con i miei pochi effetti personali. Non avevo altro. Mi accolse la mia famiglia d’origine. Con affetto. Ma non avevo più voglia di combattere, non ci credevo più. Riuscirono a convincermi ad andare al Centro alcologico. Iniziai un percorso nella comunità “L’Aquilone”, ma ebbi una ricaduta. E i miei familiari a quel punto persero la pazienza. Troncai il rapporto con loro, tornai in comunità ma non riuscii a smettere di bere. Un giorno, la direttrice della comunità L’Aquilone convinse don Carlo Follesa, il direttore della comunità, a riprendermi nonostante la Asl avesse detto che non avrebbe più pagato perché mi reputava irrecuperabile. Non so che cosa successe, ma fu allora che iniziai a scrivere una nuova pagina della mia vita. Scoprii una nuova motivazione che lasciò tutti a bocca aperta. Mi prese in carico un amministratore di sostegno, che mi ha accompagnato per sette anni. Allo Spazio Artes sono arrivato per caso quattro anni fa, attraverso degli amici che mi hanno accompagnato qua per l’inaugurazione del centro. E da quel giorno non ho smesso di frequentarlo».
Che cosa ha funzionato rispetto alle comunità in cui è stato in precedenza Francesco? «La rete che si è creata e rafforzata attorno a lui», è il parere di Melania Cabras. «Questo non è un centro riabilitativo e neppure un centro diurno. Abbiamo l’obiettivo di creare rete perché accogliamo tutte le fragilità mentali, con capacità e livelli differenti. Tutti ne traggono giovamento. Il canale attraverso il quale facciamo questo è l’arte. La forza dell’equipe è quella di essere multidisciplinare. Non è una ricetta magica, solo un differente approccio rispetto a queste problematiche».
«Francesco è una persona che qua ha avuto un ruolo fondamentale, di accoglienza», prosegue la psicologa. «Si è integrato subito e si è sempre speso per far sentire tutti a proprio agio. È stato uno dei primi a entrare in questo servizio e ha vissuto tutti i cambiamenti. Ogni giorno lavoriamo con queste persone su piccoli step, sia in ambito individuale che a livello di gruppo. Tutto quello che viene fatto con il singolo si ripercuote sugli altri, ed è questo che ha creato nel gruppo un senso di appartenenza. Si creano delle connessioni, questa sì è una sorta di magia: perché l’energia che si crea qui dentro, stando in ascolto, consente una crescita. È fondamentale fare rete. Nel caso di Francesco, lui è arrivato avendo alle spalle già una rete di assistenza: un centro di salute mentale, una cooperativa che organizza e cura incontri di gruppo che Francesco continua a seguire, gli amministratori di sostegno che lo hanno seguito per un lungo periodo. Noi abbiamo fatto in modo che questa rete continuasse a esistere. Uno dei traguardi importanti raggiunti da Francesco lo scorso gennaio è stato quello di non aver più bisogno di un amministratore di sostegno. In generale, abbiamo cercato di coinvolgere tutte le persone che in qualche modo per lui hanno un ruolo importante. Là dove invece ci sono delle diagnosi che prevedono anche una ciclicità dell’umore, interveniamo in un modo ben preciso: nel momento in cui vediamo che una persona ha un momento di crisi, le offriamo uno spazio d’ascolto. Poi attiviamo immediatamente la sua rete, lo psicologo piuttosto che lo psichiatra di riferimento ma anche la famiglia. Ascoltiamo la stessa persona, quando c’è bisogno. E poi c’è il gruppo che quotidianamente svolge le attività laboratoriali. Attraverso l’arte si crea una sorta di sostegno in maniera naturale. C’è una sofferenza molto marcata, nella nostra società, che non riusciamo a contenere. Non ci si ascolta più, quindi il senso di solitudine è quello che poi non permette di condividere il malessere, il dolore o un senso di vergogna, magari perché non c’è accoglienza o uno spazio di attenzione. Uno dei progetti ai quali stiamo lavorando prevede di aprirci alla comunità per rompere lo stigma sulla sofferenza e sulla fragilità mentali. C’è ancora tanta ignoranza rispetto a questa materia, si ha paura di entrare a contatto con persone che hanno sofferto e provato un forte dolore, che in certi momenti hanno avuto un cedimento, dimenticando che siamo tutti anime appese a un filo e quindi un momento di difficoltà può accadere a tutti noi».
«Dopo 40 anni di abusi, ero davvero arrivato al capolinea della mia esistenza», commenta Francesco. «Ora sono passati otto anni di sobrietà. Anni difficili, pieni di ostacoli, di tentazioni e di depressione, di crisi di diversa natura e di solitudine. Ma ho scoperto una forza che non avevo mai avuto prima. Qui non ho trovato soltanto accoglienza, bensì un clima di uguaglianza. Non quella falsa, ipocrita. E poi, ero più pronto rispetto alle precedenti esperienze, avevo finalmente la testa sulle spalle e ho colto l’attimo. Tutto questo mi ha aiutato a risolvere tanti disagi che avvertivo dentro di me. Ma non è stata una passeggiata, ci sono stati momenti di solitudine terribili. È la relazione che cura, dicono, ma l’arte-terapia mi ha aiutato ad aprirmi, ad avere empatia e aiutare gli altri. Ci sono arrivato col tempo, ho ritrovato la premura nei confronti delle persone. E oggi non ho più bisogno di fare psicoterapia».
Francesco parla in maniera forbita. «Per anni i miei soli amici sono stati i libri», confessa. «Sono arrivato appena alla seconda media ma ho cercato di rimediare nel corso degli anni, leggendo come un forsennato. Ora leggo prevalentemente la Bibbia, nella quale trovo molta ispirazione: la trovo molto attuale. Il mio rammarico più grande? Non aver saputo costruire una famiglia. Ma confido ancora di riuscire a trovare una donna da amare e che veda in me qualcosa di buono. Quella parte che mi aveva spinto a salvare la mia fidanzatina, a 18 anni. Se non fossi caduto nell’eroina, forse avrei avuto una vita come tante altre persone. Ma non posso correggere il passato, solo vivere meglio il presente e il futuro. Ringrazio gli operatori di Artes che non mi hanno impedito di continuare a frequentare questo centro. Qui mi apro senza il timore di essere giudicato, che è uno stigma che ammazza tanta gente. Se una persona non è abbandonata a sé stessa, può farcela: io l’ho sperimentato».
Allo Spazio Artes, da qualche giorno, c’è una pianta in più: un mandarino che gli operatori del centro hanno regalato a Francesco per festeggiare i suoi otto anni di disintossicazione dall’alcol. Un altro elemento di speranza per tutte le persone, giovani e anziane, che frequentano la struttura.
«La testimonianza spontanea e coraggiosa di Francesco è la dimostrazione dello straordinario lavoro svolto dagli “artesiani” e dai professionisti dello Spazio Artes», è il parere dell’assessora comunale alle Politiche sociali, Viviana Lantini. «Le parole di Francesco ci aiutano a capire che la solitudine è la peggiore nemica della nostra società, soprattutto nei momenti di difficoltà, e risorgere ci fa apprezzare ancora di più la solidarietà e le piccole cose della nostra vita. La nostra amministrazione comunale è orgogliosa dell’investimento fatto in questo progetto, che contiamo di implementare. Un grande grazie a Francesco per la sua determinazione e il coraggio della sua testimonianza. Ringrazio gli operatori della cooperativa Panta Rei Sardegna e tutti gli artesiani per quanto fanno ogni giorno».
Maria Stefania Pusceddu, referente del progetto per il Comune di Cagliari, definisce lo Spazio ArteS «il nostro fiore all’occhiello. Nasce come risposta a un bisogno manifestato dalle persone e dalle famiglie e rilevato grazie al lavoro di ascolto e confronto portato avanti quotidianamente dal Servizio sociale. Sono tante le famiglie che in città vivono l’esperienza della solitudine, nella gestione della disabilità e di quanto connesso ad essa. Per anni la risposta offerta dall’ente pubblico è stata esclusivamente il supporto domiciliare, indispensabile ma non sempre sufficiente. È sempre stata assente l’offerta di attività di gruppo strutturate, non occasionali, organizzate al di fuori delle mura domestiche. Ciò che si rileva sul territorio sardo è che, spesso, le uniche risposte di questo tipo, le uniche opportunità di “accoglienza diurna”, sono offerte dal privato sociale. ArteS nasce come progetto sperimentale, con un obiettivo che per alcuni, forse, inizialmente è parso “temerario e imprudente”: ricercare e definire un servizio innovativo di promozione della salute e di inclusione, rivolto alle persone con disagio psichico e alle loro famiglie, che superasse il concetto di “centro” inteso come “luogo fisico”. Per noi ArteS non è un “centro”, ma uno spazio relazionale all’interno del quale si creano legami “generativi”; è uno spazio dove le persone fanno esperienza di ascolto e accoglienza, dove scoprono le proprie potenzialità delle quali, spesso, non si ha consapevolezza. ArteS aiuta le persone ad esprimere e comunicare le proprie emozioni e sensazioni, i propri stati d’animo e le proprie idee, utilizzando come strumento comunicativo l’arte in tutte le sue forme. Condivido in pieno quanto detto recentemente da un operatore: “ad ArteS non si trascorre il tempo, ma si costruisce il tempo”. ArteS è un servizio interamente finanziato con fondi di bilancio. I riscontri positivi avuti durante i primi tre anni di attività hanno portato l’Amministrazione a incrementare il budget a disposizione, affidando ad ArteS il compito, anche questo “audace”, di promuovere azioni rigeneratrici sul territorio. Il nostro prossimo obiettivo è quello di costruire le basi per garantire alla comunità cittadina più spazi dislocati sul territorio, così da poter dare una risposta alle sempre più numerose richieste di accoglienza».
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