Parto, vado in vacanza. Ci vado a giugno, prima degli altri, prima della maggior parte degli italiani. Quest'anno ci sono i campionati europei e il destino ha voluto che si giochino nel cuore dell'Europa, in Francia, perchè siamo stati tutti un po' francesi da poco, tutti vignettisti satirici, tutti parigini, tutti stretti a difendere il nostro stile di vita, i nostri diritti faticosamente acquisiti, la nostra libertà che non ce la facciamo mica togliere da quattro terroristi.
Siamo tutti europei, democratici, diversi ma uniti sotto un'unica bandiera, la stiamo facendo questa Europa, nella disperata inconfessabile speranza che questo ci permetterà di non soccombere alle nuove economie emergenti, che il nostro tempo di padroni del mondo non volga al termine.
Celebriamo la nostra unione attorno ad un campo di calcio, il gioco più bello del mondo, mai come quest'anno tante squadre alla fase finale, ci vogliamo essere tutti, tutti insieme a dare un calcio alla palla e alle nostre paure di non essere capaci di sentirci veramente tutti uguali nelle nostre diversità, di saperci accettare per quello che siamo.
Poi ci guardiamo intorno, leggiamo le formazioni delle squadre, le vediamo schierate al centro del campo e sembra che il più sia già stato fatto, siamo già tutti fratelli anche se di colore, di lineamenti e di lingua diversi.
Non siamo tra i favoriti alla vittoria finale, ci manca il talento, siamo una squadra operaia, il talento c'è lo avevamo ma non c'è lo siamo portato, troppo discontinuo, troppo fuori dalle righe, troppo nero.
Talento sprecato, ragazzo difficile, e poi quei Buuuu che gli gridiamo dagli spalti e lui che perde le staffe e vuole andarsene e lasciarci così, con tutti i soldi che guadagna. Così ci portiamo un oriundo, brasiliano, però coi nonni italiani, quasi italiano, adesso italiano, adesso che ci ha dimostrato che e' bravo coi piedi può essere uno di noi. Finalmente in aeroporto, non vedevo l'ora, imbarco il mio bagaglio e mi dirigo ai controlli.
Mi sono vestito da vacanza, con i vestiti che mi fanno sentire in vacanza, un vecchio paio di pantaloni un po' rattoppati, una camicia di lino color sabbia, un cappello di paglia, un bracciale comprato in Marocco ed un paio di occhiali da sole. Decolliamo, e, neanche il tempo di leggere poche pagine del libro che mi sono portato, stiamo già atterrando.
Scendo dall'aereo e anche qui è una bellissima giornata, un po' più calda e ventosa di quella che ho lasciato.
Esco dall'aeroporto e mi guardo intorno, cerco di capire, dall'odore dell'aria, in che direzione è il mare più vicino ma qui il mare è dappertutto, sono a Lampedusa, sono su uno scoglio, un sasso, un pezzo d'Africa che se ne scappato dall'Africa e si è fermato in mezzo al mare, c'era quasi, era quasi arrivato a toccare l'Europa ed è diventato Europa ma senza arrivarci, mai, diventandone solo la porta, una porta che dopo c'è di nuovo il mare, che la passi e sembra che sei arrivato ma stai ancora in mezzo al mare.
Ho sentito degli sbarchi, di tutta questa gente che arriva dal sud, dai posti dove non si può più stare, da dove sei costretto a fuggire. Ho sempre pensato che se te ne vai via da casa e parti per un posto lontano magari lo fai per scoprire il mondo o per curiosità ma se lo fanno milioni di persone è un'altra cosa, allora mi sembra che assomigliano a noi quando c'è ne andavamo, pure noi dal sud, lontano, nelle navi o nei treni e non era per curiosità o per noia. Giro per l'isola e non so se aspettarmi di incontrarne migliaia di questi disperati sopravvissuti che l'isola è talmente piccola ed il paese lo è ancora di più e dicono che ne arrivano a milioni e che tutto sta esplodendo.
Poi ne vedo qualcuno di questi alieni, scuri, belli e tremendamente giovani e non capisco dove si possa trovare il coraggio, a quell'età, per essere arrivati fin qui, su questo scoglio di mare e neanche voglio sapere quanto è durato quel viaggio e cosa hanno visto quegli occhi di bambino, cosa hanno sopportato quei corpi ancora troppo giovani per essere dei sopravvissuti, per essere quelli che ce l'hanno fatta mentre tanti altri come loro si sono fermati prima, fermati per sempre.
Li vedo la sera girare per il centro e li vedo fermi, in piedi, in gruppo, in piedi davanti alle televisioni fuori dai bar a seguire le partite delle squadre europee, a tifare per i paesi che, forse, vogliono raggiungere o che credono vicini ora che hanno toccato terra, ora che hanno varcato quella porta, la porta più a sud d'Europa.
Ce l'hanno fatta, sono arrivati, la loro odissea è quasi finita, tornano a casa , una nuova casa che si edificheranno in questo paradiso di diritti e tutele che è l'Europa, lontano da quell'inferno che hanno dovuto lasciare e che era casa, più casa di qui, finchè non ne è restato niente e si è dovuti fuggire e correre veloci per non essere raggiunti dalla fame, dalla guerra, dal nulla che è diventato quel posto che era casa.
Guardano le partite ed io guardo loro, sono vestiti quasi tutti con pantaloncini, tute, magliette, sembrano tanti giovani calciatori, poi abbasso lo sguardo e ai piedi hanno ciabatte colorate. C'è un grande campo di calcio al porto, terra o forse solo polvere, circondato da una rete ma non chiuso, a fare da tribuna un paio di vecchi barconi abbandonati dietro le porte.
Adesso è un pò di giorni che sono qui, mi capita di passarci vicino e non ho mai visto giocarci nessuno di loro eppure sono tanti, che ci puoi fare più di un paio di squadre e c'è il calcio in tv ed io quando ero piccolo, ma pure ora, se vedo rotolare una palla devo, quasi per forza, dargli un paio di calci. Allora perchè loro no? Cos'è che hanno di diverso da me bambino che ci avrei giocato finchè non avesse fatto buio in mezzo a quella polvere.
Poi l'ho capito. Li abbiamo vestiti da calciatori, gli abbiamo dato l'illusione asciutta che avrebbero potuto giocare anche loro la loro partita, ma non gli abbiamo dato le scarpe e la palla per giocare. Li abbiamo accolti perchè non potevamo fare altrimenti ma questo non significa che potranno giocare al nostro gioco.
Li abbiamo raccattati per mare perchè gli uomini e soprattutto i bambini non si lasciano morire, non in diretta tv, ma poi, giunti a terra, non vogliamo dargli quegli stessi diritti che abbiamo conquistato per noi perchè, anche se non ci piace dircelo, il diritto spesso è un privilegio che ti devi poter permettere e se te li concedo anche a te i miei diritti magari finisce che io non me li posso permettere più.
Quei diritti di uguaglianza sui quali stavamo fondando l'Europa unita sembrano sgretolarsi appena a chiederceli sono altri che non siamo noi, altri che non sono quelli che noi avevamo deciso che potessero essere della partita, perchè la partita è la nostra, lo è anche il campo e la palla, è tutto nostro.
Ho cercato di capire dove stessero questi invasori delle nostre libertà, questi usurpatori dei nostri diritti, dove li avevamo messi perchè ci ricordassero di loro solo poche ore al giorno, mentre cercavamo di scordarci che esistono, mentre trascorrevamo i nostri pochi giorni di vacanze timorosi che qualcuno ce li guastasse con la sua sola presenza.
Li ho seguiti, li ho braccati, preda della mia oscena curiosità, li ho visti rientrare non da una porta ma da un buco in un anfratto, in un complesso prefabbricato e militarizzato nascosto in una gola su un'isola piatta in cui è impossibile nascondere alcunchè.
Ragazzini che solo per la giovane età dovrebbero essere accolti come figli nostri, i figli che non facciamo più, troppo pieni di un egoismo individuale ed individualista che ci fa chiudere dentro le nostre case timorosi di tutto, terrorizzati che ci sbattano in faccia la loro povertà, che ci ricordino come eravamo e come, prima o poi, torneremo ad essere, gente in movimento verso qualcosa di più dignitoso di un'effimera sopravvivenza.
Sono tornato alla mia comoda casa da villeggiante e ho sentito che un pezzo d'Europa se ne era volata via, si era stufata di essere Europa, preferiva essere quello che era prima, prima che ci illudessimo di essere abbastanza adulti da riconoscerci pari, prima che cominciassimo a credere che si poteva stare insieme, tutti insieme, che il mondo si è fatto talmente piccolo e noi talmente tanti che sembra impossibile poterci stare se non in un modo buono per tutti.
L'Europa che sembrava volessimo non la vogliamo più, ci siamo impauriti, ci siamo arroccati, ciascuno sul proprio piccolo scoglio, ci abbiamo messo attorno tutto il mare che potevamo e abbiamo smesso di credere di riuscire a pensare che un altro è solo un io nato un pò più in là.
L'Europa che abbiamo sognato l'abbiamo strozzata con la corda del nostro egoismo e della nostra viltà. Guardo questi ragazzi e sembra che gli unici che vogliono ancora essere europei siano solo loro. Noi che questa Europa la dovevamo crescere la stiamo lasciando morire e gli unici che la sognano e ci credono ancora sono i milioni di profughi per i quali un posto di pace e di diritto è ancora Itaca, la nuova casa. Ne ho visti arrivare qualche centinaio, quasi nessuno accolto con un briciolo di amore, interesse affetto che si dovrebbe dare ad ogni ragazzino che bussa alla nostra porta.
Li ho visti muoversi come fantasmi, essere ignorati come se si vivesse su due isole parallele, isola nell'isola, loro spettatori della nostra opulenta decadenza, noi spettatori del nostro cinico egoismo riflesso dalla loro effimera presenza.
Cerco, tra di loro, facce adulte e non ne trovo, sono quasi tutti minorenni, lasciati su questo scoglio in attesa di poterli parcheggiare sulla terra ferma, di trovare qualcuno che si possa occupare di loro, colpevoli di essere troppo giovani per essere ignorati o respinti.
Si aggirano come spettri sospesi tra gente che non ha voglia di guardarli, sospesi come i diritti che l'Europa riconosce ai propri figli ma non ai figli degli altri almeno non qui e non adesso.
Chi si occuperà di loro? Non mi rispondo perchè c'è troppa vergogna nella risposta ed io sono in vacanza ed è troppo doloroso ammettere che io già prima di atterrare qui conoscevo ciascuno di questi giovani spettri.
Li conosco tutti perchè ci vivo in mezzo, li incontro a centinaia, tutti i giorni della mia vita, ad ogni semaforo o parcheggio, su ogni scala ancora umida, in mezzo all'uva, ai pomodori, alle mele, nelle serre, sui marciapiedi delle strade delle nostre città durante la notte o negli angoli bui delle nostre piazze.
Sono gli stessi ragazzi, è che non li avevo subito riconosciuti perchè questi sull'isola, illuminati dal sole del sud, sono un pò diversi da quegli altri, hanno ancora un po' di luce, la speranza di avercela quasi fatta, di poter, adesso, avere un futuro migliore.
Credono ancora di essere una risorsa per se stessi e invece il nostro colpevole abbandono li farà diventare presto un'enorme risorsa per traffici e mafie.
Mi guardo intorno, l'estate è alle porte e sull'isola è quasi tutto pronto per accogliere un'altra ondata stagionale di estranei, questi però arrivano volando e si fermano solo un pò, giusto il tempo di qualche bagno in questo splendido mare di tutti gli azzurri che conosco e di qualche cena di pesce, poi ripartiranno e i loro figli non avranno bisogno di essere scortati da ingenti forze dell'ordine fino all'aereo che li riporterà in Europa, a casa.
Sono finite le mie vacanze, anche i campionati europei di calcio stanno per finire ed io non li ho quasi per niente guardati, domani mattina riprenderò l'aereo per tornare nel mio pezzettino d'Europa.
Esco per dare un' ultimo saluto a questo scoglio di mare, c'è la luna e il mare e nient'altro e vorrei scrollarmi di dosso tutta questa sofferenza e mi viene voglia di essere un pesce, uno di quelli capaci di andare profondo, dove finisce la luce. Vorrei poterci nuotare dentro questo mare di Lampedusa senza mai riemergere, nuotarci forte finchè l'acqua e il sale non mi lavino via di dosso questa sensazione di morte della nostra stessa umanità. Vorrei essere un pesce e andarli a trovare tutti quelli che ormai stanno sul fondo di questo mare che forse stanno più in pace di quelli che arrivano.
E allora vado a trovarli, mi arrampico dentro la notte e salto oltre quel piccolo muro bianco che divide i vivi dai morti e ci cammino in mezzo a tutte queste anime vestite di marmo fino in fondo al vialetto dove mi aspettano, sotto le croci di legno di pezzi di barche di tanti colori piantate per terra, e resto a guardarli di fronte a quel verso che suona beffardo “Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un'altra riva, e arriverò“.
Lampedusa ai tempi degli Europei
Testi e foto a cura di Maurizio Mirrione
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