Il rugby non è solo il Sei Nazioni in corso, con il capitano Michele Lamaro e compagni impegnati contro la Scozia in uno stadio Olimpico sold out e poi contro il Galles. È uno sport che unisce e trasforma, anche in un luogo difficile come il carcere: grazie a un progetto della Federazione italiana rugby – Fir, la palla ovale è entrata in 16 istituti di pena.
Capitan Precious e gli altri
Appassionato dello sport, Precious Orobor, 47 anni, ha conosciuto il rugby durante la sua detenzione. «Sono fiero oggi di fare quest’intervista, per me è una grande vittoria. Devo moltissimo a questo sport, che mi ha fatto diventare una persona nuova». Capitan Precious parla con emozione e gratitudine del rugby, che è stato una componente importante della sua vita dietro le sbarre.
Nato in Nigeria, vive in Italia stabilmente dal 2004, dopo cinque anni in cui è andato e venuto dal suo Paese. «Quando mi hanno arrestato, mi hanno portato in vari istituti, dopo due anni mi hanno trasferito nella Casa circondariale di Frosinone. Sono stato nell’Alta Sicurezza, una sezione in cui le pene sono molto lunghe: le persone devono scontare 30 anni di carcere, hanno due (e più) ergastoli. Io non avevo una pena così lunga, era spaventoso stare lì con loro, che non avevano la speranza di uscire. Abbiamo avuto una direttrice, Luisa Pesante, che aveva la mente aperta per quanto riguarda il carcere che oggi, purtroppo, ho l’impressione che sia guardato come un posto in cui mettere l’”immondizia sociale”, in cui buttare la gente che ha sbagliato. Chiunque può sbagliare, deve pagare ma come un essere umano. Fortunatamente questa direttrice ci teneva alla rieducazione delle persone». Tra le attività, venne avviato il progetto Rugby oltre le sbarre della Federazione Italiana Rugby, Fir.
“Vedere la luce” grazie al rugby
«Può sembrare facile portare avanti una disciplina sportiva come il rugby in carcere, ma bisogna considerare il contesto: parliamo di persone che hanno avuto sempre una tipologia di vita, che hanno sempre comandato e non hanno mai ascoltato nessuno. Questo sport in carcere mi ha fatto diventare l’uomo che sono oggi. Stare in carcere è stato doloroso, ma mi ha insegnato tanto, soprattutto grazie al rugby. Il mio compito è stato quello di far capire ai miei amici di carcere che questo sport era il contrario di quello che avevano vissuto nella loro realtà e che, tramite il rugby, potevamo “vedere la luce”, vedere un futuro e rendere la nostra detenzione vivibile e tranquilla. Essere impegnati in un’attività in carcere, è un grande aiuto, a livello fisico e mentale». All’epoca il campo sportivo nel carcere di Frosinone, per motivi di sicurezza, era chiuso. La direzione accettò, nel 2011, di riaprirlo: Precious Orobor e altri detenuti iniziarono a praticare il rugby, formarono la squadra dei Bisonti. «Senza Germana De Angelis dell’associazione Gruppo Idee, l’esperienza e la gioia che il rubgy ci hanno donato in carcere non sarebbero state possibili. Tutte le squadre avversarie ci facevano il grande regalo di giocare tutte le partite in “casa” nostra, non potevamo avere l’autorizzazione ad uscire». Visto l’ottimo risultato, la squadra venne iscritta al campionato regionale della Fir e partecipò per quattro stagioni sportive, anche con buoni risultati in classifica. Il progetto dei Bisonti a Frosinone purtroppo venne interrotto «a causa di un tentativo di evasione», dice, ma è oggi tornato attivo a Roma presso la Casa circondariale di Rebibbia, dove sono stati riscontrati gli stessi risultati per la partecipazione e l’impegno.
Il “rugby della cucina”
«Questo sport ha permesso di “salvare” tante persone, che avevano una mentalità chiusa nella vita che avevano prima di entrare in carcere. Le loro famiglie, durante i colloqui, si accorgevano che erano cambiate. La mia famiglia era lontana, io non avevo la possibilità di fare colloqui. Ma non me lo facevano pesare, condividevano con me quello che i loro parenti portavano, da mangiare e da bere: eravamo una vera famiglia. Giocare a rugby portava ad avere sempre qualcosa di cui parlare: finalmente non parlavamo più solo di giudici, procuratori, pene», prosegue. «Il rugby apre la mente. E non c’è solo lo sport giocato, ma anche il “rugby della cucina”. Una “squadra”, diversa da quella che giocava in campo, cucinava per fare in modo che nel “terzo tempo”, alla fine della partita mangiassero tutti insieme. «Inoltre, era un’emozione che non si può spiegare vedere il tifo dei detenuti della Sezione Comune, dalle loro finestre, che sventolavano le lenzuola come se fossero bandiere per incitarci».
I valori del rugby sono i valori della vita
Lo sport della “palla ovale” ha dei valori importanti, che in carcere sono ancora più forti ed evidenti. «I valori del rugby sono quelli della vita. Questo sport insegna il valore di essere una squadra, a non arrendersi mai, ad andare sempre avanti. Quando si gioca, c’è una meta, bisogna portare la palla fino a lì: come nella vita si lotta fino a che non si raggiunge l’obiettivo. Si gioca andando sempre avanti, ma passando la palla indietro, come nella vita: si va avanti, ma ricordando sempre il proprio passato, non bisogna dimenticare mai da dove si è partiti», dice Precious. «Il rugby porta a non comandare, ad avere delle responsabilità: c’è un capitano e la sua figura vale più di qualsiasi dirigente della squadra. Parla solo un capitano, tutti gli altri ascoltano. Ho svolto il ruolo di capitano, io nero, con una squadra di compagni che erano al 90% italiani: è stato faticoso far comprendere a persone con un passato nella malavita che dovevano rispettare le regole. Il rugby ha più regole di ogni altro sport, sono più di 3mila. E sono sempre per tutti Capitan Precious».
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Prima regola: il rispetto
La prima regola del rugby è il rispetto, per se stesso e per l’avversario. «Ognuno aveva un ruolo da “boss” nella vita precedente, noi avevamo da seguire le regole del rugby ma anche delle regole nostre, per dimostrare che quello che molte persone pensavano di noi, ovvero che non saremmo cambiati, non era vero: si sbaglia, si impara, si cambia e si diventa una persona nuova. Ho finito di scontare la mia pena in carcere nel 2019. Oggi ho una moglie italiana, una figlia di due anni, un lavoro come autista di tir, ho una casa. Ho un’altra figlia di 18 anni, che vive in Grecia». Uscito dal carcere, Precious ha studiato e ha preso tutte le patenti. «Ho scelto un lavoro alla guida dei tir perché so i pregiudizi che ci sono, nella società che ho trovato fuori, dopo il carcere. Sono un uomo nero ed ex carcerato, non è facile trovare lavoro. Nel mondo del trasporto ci sono molte offerte e i pregiudizi non sono molti». Nel tempo libero, Precious Orobor fa parte della dirigenza dei Bisonti, come capitano storico. Ogni tanto entra in campo durante le amichevoli, «per giocare non ho più l’età, ma il mio cuore e il mio impegno sono sempre con i Bisonti».
Il progetto Rugby Oltre le sbarre
L’idea del rugby in carcere nasce a Torino, nel 2010, grazie all’ex Azzurro Walter Rista, co-fondatore de La Drola nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, squadra pioniera del progetto; Rista è stato nominato Commendatore della Repubblica dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Negli anni, tecnici e volontari hanno iniziato a sviluppare quest’esperienza in altre carceri italiane. «La Fir ha costruito un progetto unendo le esperienze di base, per strutturarle e farle crescere con reti e progettazioni», dice Daniela De Angelis, referente Responsabilità sociale e Progettazione della Federazione Italiana Rugby. Nel 2018 è stato siglato il primo protocollo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Dap, per promuovere il rugby in carcere, al quale è seguia nel 2019 una circolare sull’attività del rugby diffusa dal Dap a tutti gli istituti penitenziari italiane per diffondere il progetto. Nel 2022 il protocollo è stato rinnovato fino al 2025. Una delle caratteristiche che fa di questo progetto un caso particolare», continua Daniela De Angelis «è che due squadre, Giallo Doxa di Bologna e La Drola di Torino, partecipano al campionato di serie C e una, le Pecore Nere, al torneo regionale Old toscano».
Tutte le partite “in casa”
e sono ammessi gli stranieri
Attraverso la normativa specifica rivolta alle società attive nei progetti sociali, sono state rimosse quelle limitazioni che hanno permesso alle squadre costituitesi all’interno di alcuni istituti di pena, di partecipare a pieno titolo ai campionati federali ufficiali o all’attività amatoriale, le cui gare si disputano sempre “in casa”.
«Un’altra deroga della Fir è di riconoscere lo status di italiani a tutti i detenuti che partecipano a questo progetto, mentre nei campionati italiani ci sono limitazioni per l’utilizzo degli atleti stranieri, o proprio non possono giocare», prosegue Daniela De Angelis. «Giocare a rugby è una scelta molto motivata da parte dei detenuti. Pensiamo che c’è chi non ha un cambio, quando i vestiti per giocare si sporcano, deve lavarli in fretta da solo; c’è chi ha paura di farsi male, in carcere l’iter per fare degli accertamenti, curarsi a attivare un recupero fisico è comunque più lungo e complesso. Ogni istituto offre lo spazio che è possibile offrire, nel rispetto degli standard della sicurezza degli atleti, ovviamente. Ci sono realtà che giocano in un campo di calcetto pitturato di verde, altre che hanno spazi limitati perché i grandi spazi sono occupati dai campi di calcio».
In&Out
Il progetto Rugby Oltre le sbarre permette anche l’attivazione di un processo virtuoso, un’ulteriore opportunità di formazione definita In&Out nell’incontro tra le squadre che disputano il campionato o i tornei amatoriali, offrendo anche una nuova rete di relazioni che può risultare preziosa in vista del loro reinserimento nella società civile. «Chi entra a giocare in carcere, si dimentica del passato dell’avversario, sia durante la partita sia nel “terzo tempo” (con bibite gassate e non con la birra, vietata in carcere). L’esperienza di chi va a giocare in carcere contro i detenuti è molto importante, facilita il reinserimento: più riusciamo a far “penetrare” il dentro e il fuori, più quando le persone usciranno dal carcere verranno accolte in modo diverso», prosegue Daniela De Angelis.«Sempre per incentivare l’incontro tra “in” e “out”, alcuni detenuti che hanno permessi o godono della semi libertà, in alcune città, sono andati nelle scuole a fare degli incontri con i ragazzi, per sollecitare l’attenzione a dei comportamenti che possono innescare reati».
Non solo atleti, anche arbitri e allenatori
Le particolarità dei valori del rugby «sono dirompenti proprio perché opposti al vissuto delle persone in carcere, i quali spesso non hanno mai conosciuto la possibilità di fidarsi e di essere sostenuti dall’altro. È questo che cambia la prospettiva della vita a chi ha deciso di praticare il rugby, uno sport i cui fondamentali per le azioni di gioco devono passare obbligatoriamente attraverso il rispetto dell’avversario, delle regole e dell’arbitro. Quest’ultimo, diversamente da sport più diffusi, è vissuto dai giocatori come la persona che tutela e permette l’espressione libera del gioco a vantaggio della competizione e del divertimento».
La Fir ha avviato diversi corsi per arbitri di rugby e, superando alcune normative che ne avrebbero negato il tesseramento, ora finalmente i primi detenuti che hanno conseguito la qualifica di arbitro hanno potuto esercitare il loro ruolo in una partita ufficiale federale fuori dal carcere. Presto inizieranno i corsi per allenatori.
Foto dell’ufficio stampa Federazione Italiana Rugby
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