All’ingresso del centro un grande albero stilizzato si distende su un’intera parete. Le foglie sono tante formelle in ceramica colorata. È un’accoglienza vivace, variopinta, vitale. Ogni foglia è una persona ricoverata nella struttura: uomini e donne in stato vegetativo, malati di Sla, ospiti dell’hospice. Sono 71. Ognuno ha il suo posto sull’albero, ognuno è chiamato per nome.
L’istallazione si chiama “L’albero delle vite racchiuse”, porta la firma di Aldo Bottoli, docente dell’Accademia Belle Arti di Macerata e ogni nome, su quella formella, è inserito in una linea colorata che si avvolge su se stessa, prigione o sostegno, con una freccia che punta dritta al centro. Cosa ci sia al centro, ciascuno lo sa per sé: una vita racchiusa all’interno di un corpo che non si sente più come proprio o forse l’essenza stessa della vita. Quando una persona muore, la sua formella viene tolta dall’albero e appoggiata su un piccolo ripiano, sempre sul muro ma un poco distante e poi consegnata alla famiglia: alcuni la portano a casa, altri la lasciano al Centro. «I gesti sono importantissimi. Qui abbiamo scelto di voler bene alle persone fino all’ultimo, di dare importanza e dignità agli ultimi giorni dei pazienti e al momento della morte, accompagnando loro e i famigliari», spiega Roberto Mauri, il direttore.
Siamo a Monza, al Centro San Pietro della Cooperativa Sociale La Meridiana. Nel 2014 hanno aperto una sezione specializzata per la cura e accoglienza di persone in stato vegetativo e malati di Sla, che oggi accoglie 6 persone con Sla e 54 in stato vegetativo. All’interno c’è anche un hospice da 11 posti. A dispetto dei luoghi comuni, qui tutto è colorato, luminoso, sereno. In una zona appartata della struttura, ma forse in realtà al centro di essa, c’è l’«area del sacro»: le camere ardenti e un locale dove fermarsi a pensare, riflettere, per chi vuole pregare. La bellezza dell’ambiente, con le opere del designer Aldo Bottoli e le luci curate da Serena Tellini e Francesco Iannone – lighting designer che hanno lavorato fra l'altro all’evento inaugurale delle Olimpiadi di Pechino – dice tutta l’importanza che qui si dà a questo piccolo spazio.
L’attività della cooperativa La Meridiana, nata nel 1976 da un gruppo di giovani impegani nell’assistenza agli anziani, intreccia lo stato vegetativo tredici anni fa, con un ragazzo accolto nella RSA: oggi sono 54 gli ospiti in questa condizione, in una struttura realizzata ad hoc solo un paio di anni fa. «Nessuno ci ha mai chiesto di staccare la spina, sono più frequenti invece le famiglie che chiedono di fare l’ennesimo tentativo, l’ennesima rianimazione, l’ennesimo ciclo di antibiotici», dice Mauri, «mi sembra che il dibattito pubblico su questi temi vada in una direzione, la realtà in un’altra». Qui dentro da una settimana hanno avviato un nuovo servizio per la riabilitazione dei pazienti che si sono risvegliati dallo stato vegetativo, manifestando un risveglio minimale di coscienza. Si chiama "Un movimento inatteso" e coinvolgerà dieci pazienti, fra cui Saad, 23 anni, originario del Marocco (nella foto sotto insieme alla mamma), che un anno fa ha avuto un incidente stradale: era in Italia da solo, i genitori l’hanno raggiunto con le altre due figlie piccole, la mamma parla un po’ italiano e un po’ francese e non smette di ringraziare tutti. In questo centro, che si chiama Progetto SLAncio, le persone che passano dallo stato vegetativo alla minima coscienza sono il 10%, praticamente il doppio della media mondiale. Sono persone che hanno davanti 5-6-7 anni di degenza e che dopo questi segni di miglioramento hanno bisogno – o meglio diritto – a nuovi e specifici stimoli: musicoterapia, shiatsu, logopedia, realtà virtuale, pet teraphy, fisioterapia respiratoria potenziata… non è un luna park di stimoli ma un lavoro per potenziare il potenziabile, finanziato da una fondazione privata per tre anni e realizzato con la collaborazione scientifica dell’Istituto Besta, del Politecnico di Milano e dell’Università Bicocca.
«Non facciamo miracoli», continua Mauri, «semplicemente cerchiamo di fare di tutto perché i pazienti siano nelle condizioni di mettere in gioco tutte le loro risorse, abbiamo visto molte volte che quando riesci a creare un ambiente ricco di relazioni positive, anche il malato ha una risposta positiva: se osservi bene un paziente che a prima vista sembra non avere reazioni, ti accorgi in realtà che si agita o si rilassa a seconda del visitatore che gli sta accanto. Se una persona è in un ambiente sereno e accogliente, ha più voglia di reagire. Lo stesso vale per i famigliari». Non è un caso che il presepe lo abbia fatto un architetto parente di una persona ricoverata, che sia nato un gruppo teatro composto dai famigliari, proposto da una persona appassionata di teatro e che l’incontro di fisioterapia settimanale proposto ai famigliari lo tenga Fabiola, la compagna di Claudio (sotto in foto), che ha 47 anni e una diagnosi di Sla da otto. Lui ha la camera zeppa di strumenti musicali, la sua passione, e al computer crea siti web: «ciao, è un piacere conoscerti», scrive con gli occhi e fa un gran sorriso.
La grande sfida per queste persone, spiega Mauri, non è la cura. È piuttosto il «cercare insieme un motivo di vita, per cui vale la pena “alzarsi” la mattina e affrontare un’altra giornata». Luigi ad esempio (qui sotto), che ha la Sla dal 2005, dalla sua stanza tiene una rubrica sul giornale locale, Il dialogo di Monza e nel novembre 2015 ha preso il tesserino da giornalista: sulla tabella trasparente per la comunicazione, muovendo gli occhi da una lettera all’atra, scrive «sono contento e fortunato».
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