È in atto una frattura sempre più evidente fra il Paese rappresentato dai media, spesso a uso e consumo dei media stessi, e il Paese raccontato, tra banalità conformiste e retoriche violente, da una classe politica sempre più distante dalla vita quotidiana, che ha finito per essere l'unica a credere alle proprie narrazioni.
Eppure, come ha scritto Nicola Lagioia in un'importante riflessione pubblicata sulle pagine di Repubblica il 13 luglio scorso, dopo la tragedia sulla ferrovia pugliese in cui hanno perso la vita 23 persone (e alla vigilia di un'altra tragedia, a Nizza), «è sufficiente scendere da un Frecciarossa, da un Frecciargento, da un Italo e salire su un regionale per ritrovarsi in un mondo molto distante da quello che viene fuori dal racconto ufficiale del Paese». Ci si accorgerebbe di altri volti, altre donne, altri uomini e di un'Italia precipitata in un altro tempo, differente e resistente – nonostante tutto – alle banalità e all'omologazione.
Nato a Bari nel 1973, Lagioia è un osservatore attento della realtà e delle nostre derive. Nel suo ultimo romanzo, La ferocia (Einaudi, 2014), vincitore del Premio Strega nel 2015, la realtà è inscritta nella periferia barese, nella storia di una caduta famigliare e in quel reticolato di poteri, politica, finanza e malaffare che impastano il nostro tempo. Abbiamo incontrato Lagioia, convinti che il suo articolo meriti una seria riflessione e un dibattito attento.
Lo storytelling e il reale
Il disastro ferroviario in Puglia ha costretto tutti a rapportarsi con una divisione che credevamo un caso di scuola, tra il Paese reale e la rappresentazione ufficiale che di questo Paese, nel bene o nel male, viene offerta ogni giorno dai media...
La questione del “Paese reale” è ovviamente svincolata dal dato tragico, contingente dell’incidente sulla linea ferroviaria Corato-Andria. Poteva succedere anche sulla linea superveloce di un Frecciarossa, ma è successo lì, in Puglia, tra Andria e Corato, e questo dato di realtà ha illuminato tutto il resto e ci ha consegnato l’immagine di un Paese molto diverso, quasi sconnesso rispetto all'ologramma dei discorsi e delle cartoline ufficiali.
Eppure, in politica non si fa che parlare della necessità di "raccontare il Paese", magari attraverso lo strumento dello storytelling. Che cosa ne pensa?
Questa faccenda dello storytelling mi è sempre risultata sospetta. Lo storytelling è un concetto che va benissimo se riguarda la fiction, il cinema, l’arte. Crea una sospensione di incredulità e, grazie allo storytelling, ad esempio, il lettore crede – e sente – che Gregor Samsa si è davvero trasformato in uno scarafaggio. L’arte della letteratura, del cinema, della finzione è quella di dare all’uomo una maschera affinché si possa dire la verità. Se, però, utilizzi lo storytelling fuori dal proprio contesto la verità scompare, resta solo la maschera. Allora stai ingannando le persone, perché non vai alla ricerca di una qualche verità, ma stai puntando alla persuasione.
Nel contesto dei media italiani lo storytelling ha sostituito il reportage, anche per ragioni di economicità non solo di efficacia: permette di "raccontare storie" senza narrarle, ovvero senza alcun appiglio a fatti, contesti, atmosfere viste, sentite, in qualche misura patite e esperite da chi scrive…
Lo storytelling ha offerto spesso gli strumenti e i mezzi per trasformare una cattiva notizia in una notizia orientata ai fini di chi la maneggiava, e questo è possibile quando si slegano, isolandoli, alcuni fatti dal loro contesto. Pensiamo al caso recente dei dati di crescita del Pil che, in realtà, fotografavano un’Italia per nulla in crescita se comparata ad altri Paesi dell’area europea. Eppure, il governo ha avuto buon gioco a utilizzare la classica “arte di indorare la pillola” per presentare positivamente un dato tutt’altro che positivo. Anche le opposizioni politiche, però, si servono di uno storytelling, magari semplicemente invertendone il segno. Le opposizioni – dalla Lega a Grillo – dovendo contrastare una finzione la contrastano con un’altra finzione. Parlano dei problemi degli italiani, ma poiché strumentalizzano ai propri fini questi problemi finiscono per usarli come mero appiglio e non come dato di realtà. La Lega soffia sul razzismo latente presente in qualunque comunità, dicendo stupidaggini sugli immigrati. Poi arrivano le statistiche dell’Inps e smentiscono la retorica dell’immigrato che ci ruba il lavoro, perché scopriamo che molti lavoratori immigrati versano contributi nelle casse pensionistiche che non recupereranno mai perché spesso non si fermano in Italia, ma nel frattempo ci arricchiscono…
Così, mentre “gli italiani in difficoltà” di cui parlano i politici sono spesso un’astrazione, questi viaggiatori lenti rappresentano al contrario il “ritorno delle facce”. Sono la realtà al quadrato. Sono la testimonianza che Pier Paolo Pasolini aveva torto. La pialla dello sviluppo, che avrebbe dovuto rendere tutti uguali, ha avuto il più imprevedibile (e per certi sensi disastroso) degli arresti. Le facce che credevamo estinte con la modernità avanzata stanno tornando, restituite ai nostri sguardi dai disagi, dalle sofferenze e dalle difficoltà a cui il secondo decennio del XXI secolo — questo nuovo, durissimo paradigma — sta sottoponendo milioni di individui e di famiglie. Se volete un bagno di realtà, veniteli a incontrare sui treni che viaggiano lenti.
Nicola Lagioia
È quasi un gioco delle parti…
Sia che tu offra un “racconto felice” della realtà, sia che tu induca un raccolto catastrofico del Paese il dato di realtà non viene nemmeno sfiorato, perché si tratta di una lotta tra bande. La stessa cosa accade dal punto di vista dei media, non solo perché i media non di rado diventano (a volta persino proprio malgrado) i ripetitori degli uffici stampa della politica (o magari gli interpreti, i critici di questi uffici stampa, il che è diverso che confrontarsi direttamente col dato di realtà), ma anche perché i giornali, avendo sempre meno soldi, non investono sulla ricerca di notizie, sui reportage e sulle inchieste sociali vere. Oggi un giornalista o uno scrittore che voglia fare un reportage serio quasi sempre lo fa a sue spese o quasi. Diventa sempre più complicato osservare la realtà, non solo viverla.
Morti senza tomba, drammi senza lutto
Casi umani, vittimizzazione, sovraesposizione di immagini violente e brutali… Anche la reazione sui dati di realtà, quando la realtà ci esplode davanti, è però indicativa: si reagisce in chiave umorale, l’indignazione non porta a nessuna azione ma, a sua volta, a una narrazione scombinata e rancorosa…
C’è lo storytelling e poi c’è la reazione che, proprio perché "ancorara" a basi di terza mano, è sempre umorale, sempre istintiva. Temo che, in questo, i social network e il mondo della comunicazione non stiano sempre facendo un buon servizio. Poiché si ragiona sull’immediatezza e sull’istantaneità – notizie in tempo reale, azzerate dalla notizia che arriva pochi istanti dopo – anche la reazione diventa immediata.
La realtà è per sua natura complessa, ma la complessità spaventa e urta oramai…
La realtà non è univoca e per leggere la realtà servono strumenti, un bagaglio culturale e, quanto meno, un’idea di mondo. "Chi è" un mendicante in mezzo a una strada? È un uomo da aiutare o un uomo da sgomberare con la forza? In base all’idea di mondo che hai inizi a ragionare su queste due opzioni – le più semplici, le più elementari. Il problema non è avere una visione di mondo progressista o conservatrice. Oggi la visione di mondo che avanza è, proprio per il fatto che si privilegiano gli istinti, quasi barbarica. Ero rimasto molto colpito dal fatto che, qualche settimana fa, durante una trasmissione di Radio3 “Prima Pagina”, mentre il giornalista che la conduceva commentava il fatto dell’operazione di recupero della nave con settecento migranti a bordo affondata nel 2015, gli arrivassero decine di messaggi al limite del barbarico…
L’operazione di recupero – questa sì, giusta, voluta dal governo – era finalizzata al recupero dei corpi e alla loro doverosa, civile sepoltura. Operazione che, tra l’altro, costava anche poco. Molto meno di un calciatore di serie A… Ebbene in redazione – io ero là, perché sono uno dei conduttori di “PaginaTre”, la rassegna stampa culturale che va in onda dopo “Prima Pagina” – sono arrivati messaggi di gente che riteneva che il recupero di quei corpi rientrasse tra le “spese inutili”. Addirittura c’era chi citava il Vangelo in chiave cinica – «i morti seppelliscano i morti» – e chi sosteneva che «mica possiamo prendere il dna a tutta l’Africa»… Davanti a una reazione simile, hai voglia a ricordare Antigone, la restituzione del corpo di Ettore, i fondamenti della nostra civiltà… Io lì mi sono spaventato, perché in un periodo tanto complicato, da tutti i punti di vista, ho pensato che se cominciamo a cedere alle emozioni irrazionali la barbarie rischia di riaffacciarsi all’orizzonte.
Via social network o sui media si piange ogni morto, si applaude ai funerali, si fanno selfie con cadaveri: negli scorsi giorni, la polizia di Nizza ha dovuto diramare comunicati in cui chiede di non farsi ritrarre sul luogo della strage, pubblicando le proprie immagini tra i morti. Al di là di ogni discorso di indignazione, anche nostra, bisogna andare più a fondo e capire che cosa è successo all’uomo che si trova davanti a un altro uomo che soffre…
Siamo immersi in una contraddizione in termini: il discorso pubblico delle destre, oggi, pretende di difendere la nostra civiltà rinunciando ai capisaldi della nostra civiltà. Il rispetto, la sepoltura, il diritto vengono spazzati via da questa logica del “dobbiamo difendere il nostro”…
Ma che cos’è "nostro"?
Il nostro è anche una cultura che prevede la sepoltura dei morti. La nostra civiltà è anche una civiltà che guarda allo straniero non solo nemico, ma anche ospite, come ospite transitario… La nostra civiltà è questa cosa. È come quando si cerca di difendere la democrazia con leggi speciali che la sospendono. Oggi, questa negazione tocca corde e radici molto profonde, tocca ciò che chiamiamo radicamento – un positivo radicamento – nella cultura della nostra civiltà.
Lei ha definito questo tempo, il "nostro" tempo, un brutto periodo…
Qui vediamo quanto è fragile la terra che abbiamo sotto i nostri piedi. Ed è facile che, anziché evolvere, noi si involva perché siamo stretti tra paure – alcune delle quali persino legittime – e un discorso rancoroso che soffia in modo vigliacco proprio sulla fiamma della paura. In questo periodo sono molto indignato con la Lega e con i titoli che stanno facendo giornali come Libero. Dopo i fatti di Nizza, Libero ha titolato “Islamici di razza”. Se la mettiamo sul piano del razzismo e delle facili equazioni (musulmano = terrorista, per esempio) creiamo la condizioni stesse affinché le nostre pericolosissime previsioni di autoavverino. Anche questo è storytelling.
La maschera e il volto
Davanti all'esplosione dei media, all'implosione della politica, la letteratura è chiamata, quanto meno, ad offrirci la possibilità di accedere alla complessità non univoca a cui la realtà ci chiama. A offrircela in quanto umani dotati – si spera – di un'idea non disumana di mondo.
La letteratura è esattamente questo. Nella letteratura, i buoni e i cattivi non esistono. Achille è buono o cattivo a seconda delle circostanze e queste circostanze segnano il passo della complessità dell’umano. Leggendo Shakespeare arriviamo a empatizzare con Macbeth, persino con Otello che, pure, è un assassino. La letteratura fa capire che non possiamo essere manichei: l’essere umano è pieno di sfumature e contraddizioni. è esattamente il contrario rispetto a chi vuole dividere il mondo in buoni e cattivi. La letteratura, in questo, è un baluardo rispetto alle ansie di purezza che stanno attraversando la nostra società. Pensiamo ai terroristi, che si autocircoscrivono in un campo di purezza. Ma il dato di realtà e la storia umana e, di conseguenza, la letteratura smentiscono questa pretesa di purezza. Potremmo pensare alla letteratura come antidoto. Un antidoto contro i veleni che, giorno per giorno, cercano di contaminarci e sempre a portata di mano, perché ce lo offrono gli anni, i decenni, i secoli. Pensiamo a Dante che ci fa empatizzare per Paolo e Francesca, che pure sono all’inferno. Questo per capire come, persino a un colpevole, la letteratura sa riconoscere un’umanità che appartiene anche a te. Questa è la grande lezione.
Nel suo articolo pubblicato il 13 luglio su Repubblica lei parla del ritorno delle facce, dei volti. Pasolini, scrive, si era sbagliato: c'è un mondo non omologato, non uniformato sotto la patina del mondo ufficiale…
C’è un aspetto singolare, perché in ombra nella realtà del nostro Paese. Nemmeno i film, le commedie, nemmeno la letteratura mainstream racconta questo aspetto della nostra realtà che sono i volti, le facce. Il neorealismo italiano era nato anche per raccontare i volti e delle facce, partendo da una situazione tragica ma dando loro visibilità e dignità. Oggi, proviamo a accendere la televisione. Che cosa accade? Accade che queste facce che incontriamo sui treni non si vedono. Pensiamo ai talent show musicali, che in teoria dovrebbero essere un punto di intersezione tra mondo “fuori” e micromondo dello spettacolo: le facce che incontri sui treni non le vedi. Vedi volti che non hanno alcuna attinenza con la vita quotidiana e minuta della gente. La cosa bizzarra è che se guardi una fotografia dei Rolling Stones quando erano ragazzi, vedi delle facce. Magari erano stralunati, ma avevano un volto. Oggi, guardi i talent e il volto non c’è. Sono volti lisci, come se la realtà dovesse scivolar loro addosso. Infatti non sono rappresentativi di nulla, quei volti, come se fossero ripuliti dalle stranezze e dalle disallineature che fanno l’umano. Sul treno, al contrario, hai degli appigli. Volti che hanno degli appigli, magari in una ruga, in un’asimmetria, ma ti offrono un punto di presa. E capisci che lì c’è realtà. Quando incrocio questi volti, capisco che ancora c’è qualcuno con cui posso rapportarmi da umano a umano.
Il ferroviere (1956) di Pietro Germi
In questo senso, anche il divario Nord-Sud, che pure esiste ed è sempre più drammatico, andrebbe proiettato su scala più grande. Noi, gente comune,ordinaria, siamo immersi in scenari che non ci prevedono: racconti ufficiali, storytelling asfittico… Ci sono migliaia di sud anche nel nord…
C’è una divisione che attraversa tutta l’Italia. Poi, oggettivamente, il Sud è molto più povero del Nord come infrastrutture, come redditi, etc. La divisione probabilmente è trasversale tra chi ha accesso a una ricchezza e a una visibilità sociale e chi viene tagliato fuori da tutto questo. Magari viene tagliato fuori per un periodo, poi ci rientra, ma questa situazione a macchia di leopardo è segno di un profondissimo disagio con il quale tutti dobbiamo iniziare a fare i conti.
L'ospite
Nicola Lagioia è nato a Bari nel 1973. Con minimum fax ha pubblicato Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (2001), e con Einaudi Occidente per principianti (2004), Riportando tutto a casa ( 2009; Premio Viareggio-Rèpaci, Premio Vittorini, Premio Volponi) e La ferocia 2014, Premio Strega 2015).
In copertina: Corato, 12 luglio 2016 (Mario Laporta/AFP/Getty Images)
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