Luigi Cancrini

L’adozione è una sfida, lo Stato non lasci sole le famiglie

di Luigi Alfonso

Lo psichiatra Cancrini avverte: nella maggior parte dei casi, i genitori sono lasciati un po’ a se stessi insieme ai ragazzi. Il diritto alla psicoterapia sancito dall’ingresso nei livelli minimi di assistenza non è stato realizzato e non è riconosciuto né per i bambini, né per le famiglie che li adottano. In edicola e in libreria il nuovo numero di Vita fa il punto sullo stato della tutela minori dopo due anni di pandemia

«L’adozione, nel parlare comune, viene vista ancora come un gesto di generosità. E lo è, anche. Però, secondo me, va vista pure come una scelta estremamente difficile». A parlare è Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta di lungo corso, oggi direttore scientifico della Fondazione Domus de Luna, di cui segue particolarmente Casa delle Stelle, una delle belle realtà di accoglienza minori a Cagliari. «Ho scritto un libro che ho intitolato La sfida dell’adozione (Raffaello Cortina Editore), proprio perché prendere un figlio in adozione è come partire per una scalata di sesto grado», racconta, «bisogna attrezzarsi e bisognerebbe avere assistenza, aiuto. Invece, nel modo in cui adesso è organizzata nella maggior parte dei casi e dei Paesi, l’adozione è una scelta in cui i genitori sono lasciati un po’ a se stessi insieme ai ragazzi. Il non tenere conto in maniera sufficiente delle difficoltà e della necessità della preparazione e di un aiuto in corso d’opera, è un aspetto abbastanza generale che caratterizza le adozioni nel mondo».

Ad adozione e affido, a come la tutela minori abbia attraversato questi due anni di pandemia, è dedicato il numero monografico di Vita che potete trovare in edicola.

Professore, come mai non è stato fatto alcun passo avanti nel post adozione?
«Guardi, non è stato fatto alcun passo avanti nel campo generale della psicoterapia. Il diritto alla psicoterapia sancito dall’ingresso di tale disciplina nei Lea, i Livelli essenziali d’assistenza, non è stato realizzato e non è riconosciuto né per i bambini che hanno subito dei traumi, né per le famiglie che li adottano. Questa è un’arretratezza culturale, non solo italiana. Freud diceva che la psicoterapia è perturbante, scuote gli equilibri. Politici, amministratori e anche molti giornalisti non danno alla psicoterapia il ruolo che essa meriterebbe. L’approccio psicoterapeutico al problema e alle difficoltà delle adozioni potrebbe fare molto bene alle famiglie, sia all’inizio che nel momento della difficoltà. Non ne è riconosciuta la pubblica utilità».

Lei si è occupato di politica, in passato, dunque conosce bene gli strumenti legislativi. Se per un giorno avesse i pieni poteri per poter assumere qualche decisione di rilievo, che cosa farebbe in questo ambito?
«Mi sostituirei volentieri come commissario ad acta, nelle Regioni. Credo che in ogni Azienda sanitaria locale dovrebbe esserci un servizio che si occupi di maltrattamenti all’infanzia e di cura delle adozioni, diretto e affidato a psicoterapeuti che hanno bisogno di continui aggiornamenti e sostegno. In questo momento c’è solo nel Veneto, senza però una specifica menzione alle adozioni. Un servizio di questo genere non costerebbe molto e funzionerebbe come un formidabile elemento di prevenzione nello sviluppo dei disturbi di personalità cui vanno incontro i bambini che vivono situazioni traumatiche, complesse e gravi. E potrebbe aiutare enormemente le famiglie che affrontano la sfida dell’adozione».

L’idea di rendere adottabile un bambino o di facilitarne l’affido viene vista quasi come una rapina ai danni della famiglia d’origine. Il che non è, perché ci sono tante famiglie naturali e biologiche che non ce la fanno, come dimostrano terribili casi di cronaca anche recenti. È un riflesso conservatore. L’idea un po’ pazza dell’assistente sociale che "ruba i bambini", come ha provocatoriamente detto Stefano Cirillo in un suo libro di successo, va spazzata via.

Luigi Cancrini

La pandemia ha rallentato le adozioni, soprattutto a livello internazionale.
«L’Italia è il secondo Paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, nel numero di adozioni internazionali. Ragionando in percentuale sulla popolazione residente, siamo i primi nelle statistiche. Probabilmente, le difficoltà nei viaggi hanno influito parecchio. Credo peraltro che stia cambiando l’atteggiamento da parte di quei Paesi che tradizionalmente permettevano ai loro bambini di andare in adozione in altri Paesi, tra cui il nostro: oggi sono un po’ meno inclini a lasciarli andare via, un po’ per orgoglio nazionale e forse perché sono cambiate le condizioni economiche. Anche in ambito nazionale c’è uno stato d’animo diffuso che non è giustificabile: pensiamo al caso Bibbiano. L’idea di rendere adottabile un bambino o di facilitarne l’affido viene vista quasi come una rapina ai danni della famiglia d’origine. Il che non è, perché ci sono tante famiglie naturali e biologiche che non ce la fanno, come dimostrano terribili casi di cronaca anche recenti. È un riflesso conservatore. L’idea un po’ pazza dell’assistente sociale che ruba i bambini, come ha provocatoriamente detto Stefano Cirillo in un suo libro di successo, va spazzata via. Sono espressioni di una complessiva stupidità. Ma combattere la stupidità è difficile».

Lei ha detto: l’Italia è un Paese che adotta. Siamo un popolo di persone più sensibili rispetto ad altre realtà?
«In Italia c’è la cultura cattolica che esalta la famiglia. E probabilmente siamo un Paese in cui una famiglia senza bambini viene vista come se fosse incompleta. Un aspetto che, per esempio nei Paesi del Nord Europa, non si avverte. È comunque una cosa bella allargare la famiglia naturale, se le condizioni economiche lo consentono».

Lei segue da vicino Casa delle Stelle, una delle belle realtà della Fondazione Domus de Luna di Cagliari. Emergono tante storie che offrono uno spaccato interessante.
«Le racconto in breve tre casi, dai quali emerge che una struttura comunitaria può preparare ad adozioni riuscite lavorando prima dell’adozione stessa, attraverso un’elaborazione del trauma vissuto dal bambino. Quando un bambino soffre in condizioni estreme, le sue reazioni alla sofferenza possono essere drammatiche, se non c’è l’aiuto di una struttura adeguata. Un bambino è arrivato da noi all’età di 7 anni. La mamma presentava una diagnosi psichiatrica importante che ha influito sulla gestione e relazione con il figlio. Il bimbo ha svolto un percorso di affido presso una famiglia di un paese limitrofo al suo, per circa un anno, ma a causa delle interferenze della mamma, la famiglia ha rinunciato alla custodia del bambino. Lui, nonostante tutto, è rimasto profondamente legato a quella famiglia tanto da pianificare anche le vacanze estive insieme a loro. Quando la mamma è stata ricoverata in una struttura terapeutica, è stata avviata la procedura di adozione e il bambino ha espresso il suo consenso. All’età di 10 anni ha conosciuto la famiglia adottiva e, attualmente, il percorso prosegue positivamente. Il secondo caso parla di un bambino arrivato da noi all’età di 5 anni, perché i genitori erano stati valutati inadeguati. Il bimbo era molto magro, non parlava, aveva un problema alla vista importante e un ritardo nello sviluppo cognitivo e del linguaggio. Quel bambino è rimasto in comunità per tre anni, durante i quali ha fatto tanti progressi da ogni punto di vista, sino a quando ha poi conosciuto la famiglia adottiva. Oggi il bambino ha 9 anni, le sue difficoltà permangono ma è in continua evoluzione e la famiglia adottiva ha affrontato da subito ogni problema, accettandolo senza pregiudizi e affetto».

Non sempre un’adozione va a buon fine.
«Purtroppo no. Una ragazza non italiana è arrivata in comunità all’età di 16 anni, dopo il fallimento del progetto di adozione. Aveva trascorso la sua infanzia in diversi istituti in quanto orfana di madre. Poi, verso i 10 anni, era stata adottata. I genitori adottivi non avevano accettato alcuni comportamenti e idee della figlia, tanto da rivolgersi al Tribunale per interrompere il percorso. Ora la ragazza ha raggiunto la maggiore età, è riuscita a diplomarsi e prosegue il suo rapporto con la comunità e i Servizi sociali, infatti è inserita in un percorso di piena autonomia. Ecco, questo è il caso di un’adozione fallita, nella quale la ragazza non era stata preparata all’adozione con l’elaborazione dei suoi traumi prima di arrivare alla sua nuova famiglia, sulla quale è stato caricato un peso eccessivo. Per fortuna, in comunità si è ritrovata».

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