Alex Giordano

La via meridiana alla trasformazione digitale

di Anna Spena

Alex Giordano, fondatore di Ninjamarketing e docente di Marketing e Trasformazione Digitale all’Università degli Studi di Napoli Federico II, firma un saggio con una tesi controcorrente. Dopo il virus la locomotiva dell’innovazione tecnologica e sociale si è spostata a Sud: «Il Mediterraneo è un metodo di lavoro. È fondamentale quindi fare attenzione ora a vivere la complessità del presente uscendo dalle mura dell’individualismo. Comunità e sistemi aperti possono produrre intelligenza collettiva utile per immaginare e realizzare nuove soluzioni, con impatti sociali, ambientali e anche economici positivi»

Una sostenibilità che sia insieme economica, sociale ed ambientale non solo è possibile ma ha già la strada tracciata per diventare concreta: basta guardare al Sud. Ne è convinto Alex Giordano, docente di Marketing e Trasformazione Digitale al Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università de- gli Studi di Napoli Federico II. È da questa convinzione che è nato il libro Societing 4.0 — Oltre il marketing. Una via mediterranea per la trasformazione digitale al tempo della pandemia (Egea – pp. 116). Nel libro viene presentato un nuovo paradigma di sviluppo e di convivenza socio-e- conomica che si ispira proprio alle caratteristiche stori- che, geografiche e simboliche del Mediterraneo. «Il nostro problema più grande non è una scarsità di idee né di proposte concrete e neanche di persone disposte a impegnarsi per un cambiamento concreto: quello che manca è un nuovo modello organizzativo, che sia capace di ca- pitalizzare queste risorse e di dar loro una nuova direzione», dice l’autore.

Com’è nato il libro? Perchè?
Inizialmente doveva essere un paper con una riflessione critica sull’evoluzione del marketing in questa nostra società complessa ed è diventato, alla fine, il racconto del mio ultimo percorso curricolare. Nel senso che da anni lavoro sul concetto di Societing e con il mio amico e mentore Adam Arvidsson, che ha collaborato con me all’idea di questo lavoro, qualche anno fa abbiamo pubblicato insieme sempre per EGEA il libro Societing Reloaded. Innovazione sociale e pubblici produttivi. Proprio dal confronto con Adam Arvidsson si sono sviluppate varie piste di riflessione e per me è stato imprescindibile, in questo discorso sull’evoluzione del sistema economico e sociale, introdurre il concetto sul quale sono concentrato in questi anni, quello del Societing 4.0, che è un approccio all’innovazione tecnologica e sociale votato ad un’idea olistica di sostenibilità insieme economica, sociale ed ambientale. E così è nato questo pamphlet che è una quaderno di appunti, scritti sulla base delle riflessioni che emergono dal lavoro di ricerca/azione e di sperimentazione che stiamo facendo sul campo con diversi progetti e task force che si occupano, in particolare, di digitalizzazione delle imprese e di agritech.

Come il marketing è diventato societing?
Questo non è merito mio. Ormai sono passati 25 anni dalla comparsa del concetto di Societing: è stato Bernard Cova con Olivier Badot a concepire questa parola all’inizio degli anni ’90 come un’insegna sotto la quale chiamare a raccolta tutti quelli che non si riconoscevano nel marketing così come teorizzato e praticato allora. A partire dal 2003 le giornate di studio sul consumo e sul marketing mediterraneo, svoltesi regolarmente tra Marsiglia e Milano, hanno permesso di favorire le discussioni intorno al concetto di Societing. Questa iniziativa ha riunito un gruppo di numerosi studiosi e professionisti francesi e italiani operanti nel marketing e nella sociologia, ottenendo inoltre l’attenzione del compianto Giampaolo Fabris. Quest’ultimo, nel suo bellissimo libro Societing. Marketing nella società postmoderna, pubblicato nel 2008, ha rilavorato il concetto di Societing facendolo evolvere dallo status di idea a quello di proposta alternativa del marketing. Fino ad allora il Societing era un concetto molto vicino alla responsabilità sociale d’impresa. Da oltre 10 anni ormai, io insieme ad Adam Arvidsson lavoriamo su questi concetti allargando lo spettro della riflessione all’innovazione sociale. Con la pubblicazione del libro Societing Reloaded abbiamo cominciato a parlare di startup, di stampanti 3d e di impresa 4.0, intendendo l’innovazione sociale non come l’innovazione “per il sociale” ma come socializzazione dei processi produttivi. Oggi, nell’era dell’Antropocene (o del Capitalocene come dicono alcuni) e di fronte ad una pandemia come quella da Covid-19, serve un Societing 4.0 cioè un nuovo modello di sviluppo all’interno di un diverso paradigma che si può riassumere in ciò che abbiamo scritto nel Manifesto: Societing 4.0 considera i cambiamenti e le innovazioni come processi insieme sociali, economici e rispettosi dell’ambiente, che vanno progettati, sperimentati e adottati nelle specialità delle realtà locali, a partire dagli aspetti di contesto globali che ne sono inevitabili condizioni e necessario confine. I cambiamenti in corso, compreso lo sviluppo delle tecnologie, sono da ideare, sperimentare, discutere, osservare, condividere, rendere trasparenti, … per favorirne ampia conoscenza, evitando di farne subire acriticamente le conseguenze, gli effetti e gli impatti.

Che significa andare oltre il marketing?
L’impresa è un attore-chiave nell’ecosistema sociale, culturale, economico e ha avuto spesso un ruolo rilevante nei processi di innovazione tecnologica e nei processi di innovazione sociale. La domanda che mi faccio è: le imprese sono -possono essere- innovatori sociali? Cioè possono essere attori rilevanti per lo sviluppo sostenibile dei territori e soggetti generativi per gli ecosistemi locali? Tra le realtà del nostro paese ci sono piccole e piccolissime imprese, magari di matrice artigiana e agricola, che resistono in territori rurali e montani e che consentono alle persone di avere un lavoro e quindi di rimanere in quei territori. In realtà nella nostra storia, anche recente, ci sono imprese note, come Barilla o Ferrero ma anche Fiat o Olivetti, che sono state imprese a forte impatto sociale nei loro territori. Tutti erano -e sono- impegnati in quello che oggi si chiama secondo welfare, soprattutto a supporto delle famiglie: Barilla pagava il corredo alle sue dipendenti quando decidevano di sposarsi, Ferrero continuava a seguire ognuno dei suoi dipendenti anche dopo la pensione, Olivetti organizzava mostre attività culturali per i proprio operai e tutti avevano ottime colonie estive per i figli dei loro operai e circoli per i loro dipendenti. Il passaggio più evidente per queste realtà è stata la trasformazione da imprese familiari a imprese industriali internazionali. La loro capacità di adattarsi all’evoluzione economica degli ultimi 50 anni le ha trasformate e ora il loro rapporto tra la dimensione locale e quella globale è decisamente cambiato. Il paradosso è che oggi varrebbe la pena tornare al DNA di quel tipo di imprenditoria sociale e spesso le pmi, invece, fanno il verso a forme di management progettate lontano dalla dimensione familiare delle nostre imprese, dalla tipologia dei nostri mercati, dalla forma della nostra società. Adottando la logica del Societing (Marketing + Society), quindi considerando il mercato parte della società, possiamo espandere l’idea del consumatore come cittadino e le imprese le possiamo vedere come attori sociali, parte attiva di un’ecosistema che è il territorio nel quale si muovono: i luoghi e gli spazi fisici e non fisici in cui ci si incontra, ci si confronta e si impara insieme a definire nuove forme di futuro. In questa interazione tra istituzioni, cittadini, imprese, … la tecnologia può essere strumento abilitante anche per favorire l’invenzione di nuove soluzioni utili al bene comune, valorizzando intelligenza collettive e intelligenze artificiali. Ecco, più o meno, cosa significa andare oltre il marketing. Ed è un’idea che si propone come alternativa a quella del marketing spinto delle corporation che ormai “vendono” anche lo sfruttamento dei lavoratori non solo come una cosa normale ma anche come un’esperienza cool e penso, mentre dico questo, ad Amazon e ai suoi sistemi di reclutamento come il turco meccanico (che è un’iniziativa per acquisire a poco prezzo quell’intelligenza umana che non può ancora essere sostituita dall’intelligenza artificiale) o il programma Camper Force (che recluta anziani costretti a vivere in van, a causa della crisi economica, per lavoro occasionale stagionale, soprattutto intorno a Natale, mettendo a disposizione piazzole attrezzate per i camper e, anche in questo caso, sfruttando il lavoro mal pagato di persone che non hanno tante altre alternative). In questo modo il marketing dismette la sua funzione originale e diventa un fondamentalismo che sta orientando il nuovo all’interno di un paradigma ormai vecchio e inadeguato per dar spazio alle innovazioni. Così, per esempio, quella che viene chiamata Quarta Rivoluzione Industriale non è affatto una rivoluzione visto che non sta producendo un nuovo modello sociale, com’è accaduto, invece, per quei processi di innovazione che abbiamo storicamente riconosciuto come rivoluzioni. Quello che stiamo dicendo incontra e va oltre le riflessioni fatte da Porter con il concetto di shared value e da Kotler con il brand activism.

Che cos’è la via mediterranea del cambiamento?
Noi pensiamo che basare i processi di cambiamento su modelli come quello della Silicon Valley che, pur fornendo grandi ispirazioni, è basato sul principio winner takes all oppure il modello tedesco di Industry 4.0, che nasce in un contesto socio-economico riferito alla grande fabbrica robotizzata, non sia sostenibile per l’Italia dei quasi 8.000 comuni -al centro di una nuova complessità, tra Africa, Paesi Mediorientali ed Europa- in una realtà imprenditoriale fatta, soprattutto al sud, di piccole imprese frammentate. La via mediterranea è quella che parte, senza negarla, dalla realtà nella quale nasce: dalle sue vocazioni, dalle sue tradizioni, dalle sue caratteristiche culturali, … e fa leva su quelle per innovare, per trasformarsi, per creare benessere diffuso facendo attenzione al rispetto e alla tutela dell’ambiente. Basandosi su quella che chiamiamo “l’accettazione tragica del conflitto”, pensiamo si debba affrontare la complessità del presente, attraverso il dialogo, il confronto e la creazione di ponti tra punti di vista differenti, attori, saperi, metodi, territori, tradizione e innovazione generando idee, esperienze e soluzioni che possono produrre valore collettivo.

La via mediterranea parte dalla realtà nella quale nasce: dalle sue vocazioni, dalle sue tradizioni, dalle sue caratteristiche culturali. E fa leva su quelle per innovare, per trasformarsi, per creare benessere diffuso facendo attenzione al rispetto e alla tutela dell’ambiente

Alex Giordano

Come si sviluppa il modello mediterraneo?
Io, in particolare, sono molto affezionato al pensiero meridiano di Franco Cassano e per me è stato illuminante cogliere l’idea che il Sud ha una specificità e che bisogna uscire dalla visione coloniale di considerarlo come “un non ancora Nord”. Partendo da queste letture e da questi studi -a Cassano aggiungo Fernand Braudel, Ian Chambers, e tanti altri- abbiamo preso il Mediterraneo come ispirazione e come punto d’osservazione simbolico per definire un diverso modello di cambiamento. L’idea di un modello mediterraneo parte dal considerare il Mediterraneo come metafora di complessità, utilizzandolo come categoria critica per ripensare la modernità, perché ci indica una via possibile all’incontro con l’altro attraverso occasioni di collaborazione e contaminazione. È ciò che oggi può consentirci il digitale, sistema che ha cambiato il senso della prossimità, contraendo le due categorie dello Spazio e del Tempo sulle quali abbiamo fondato il nostro essere nella realtà. Per questo io dico spesso che il Mediterraneo è il primo Internet della storia: un mezzo di comunicazione che fa incontrare e scontrare culture diverse e sistemi valoriali differenti. Lo sviluppo del modello mediterraneo parte da qui, utilizzando il Mediterraneo come riferimento spaziale e geografico, come metafora e simbolo di una serie di valori e come metodo di lavoro.

“Guardare dal Sud e non al Sud”. Ma questo territorio può essere la culla dell’industria e Societing 4.0?
Come dicevo sopra, il Sud è per noi una categoria critica verso un certo modello di sviluppo. Ancora una volta sulla base del pensiero meridiano di Cassano e di tutta la tradizione degli studi post-coloniali alla quale si appoggia, ragionare di un superamento a Sud è un modo per proporre uno sguardo differente verso il futuro; è la prospettiva di un’altra modernità. Questo territorio, come sappiamo tutti, ha un potenziale enorme. Guardando da Sud, da realtà che sono state spesso distanti dai cambiamenti più forti che hanno snaturato altre parti del nostro Paese, ci rendiamo conto che quella che viene letta come “arretratezza” è oggi un grande vantaggio competitivo. Se questa originalità si trasforma in un’industria è destinato a morire, c’è poco da fare. Quello che noi auspichiamo è invece un dialogo aperto tra l’innovazione e la tradizione per creare delle infrastrutture che consentano di prendere il meglio di quello che ci offre il progresso senza distruggere il meglio di quello che ci offre la tradizione. L’olio d’oliva prodotto secondo certi sistemi è una medicina e se vuoi estrarne il meglio serve il massimo della tecnologia e ti serve sapere come coltivare in certi terreni quel prodotto, sapere che appartiene anche al lavoro quotidiano degli agricoltori del posto. Si può fare? Secondo noi si deve provare a farlo con tutte le forze! Siamo convinti che serva uno sguardo plurale per riguardare i luoghi favorendone il loro sviluppo. Riguardare nel duplice senso di aver riguardo per loro e di tornare a guardarli perché nessuno sviluppo può avvenire sulla base del disprezzo dei luoghi, della loro vendita all’incanto, dagli stupri industriali della modernità a quelli turistici della postmodernità, come dice bene (ancora) Franco Cassano. E aggiungo un ulteriore significato come guardare con sguardo rinnovato: un riguardare aumentato grazie alle possibilità offerte da una nuova alleanza tra intelligenze collettive e tecnologie digitali finalizzata a creare ponti tra la comunità locali e le comunità di intenzione di tutti gli impatti positivi generati sul Pianeta da una certa visione del mondo.

il Mediterraneo è il primo Internet della storia: un mezzo di comunicazione che fa incontrare e scontrare culture diverse e sistemi valoriali differenti

Alex Giordano

Come si struttura il modello mediterraneo dell’innovazione?
Il modello mediterraneo è un’idea di sviluppo che mette in discussione i modelli estrattivi (delle risorse, dell’ambiente, dell’energia, delle comunità, dei dati…) e intende assumere un punto di vista pluralista per leggere ed affrontare la complessità del presente. Per questo è un modello che guarda alla redistribuzione del valore per una maggiore diffusione delle opportunità e, in questo senso, ritiene che l’innovazione tecnologica o è innovazione sociale o non è. In questa idea di sviluppo le tecnologie sono strumenti che assumono un ruolo rilevante solo quando sanno parlare con i contesti nei quali devono essere applicate per poter favorire i processi di cambiamento, per abilitare le connessioni tra diversi attori e per facilitare le persone. È un modello che privilegia la condivisione e l’uso di sistemi aperti (open source) che consentono di modificare e migliorare in modo libero le tecnologie, in armonia con le conoscenze delle comunità, adattando le tecnologie alle necessità e consentendone impieghi originali. È un modello, infatti, che deve essere calato negli specifici contesti reali, che hanno le loro specificità da comprendere, analizzare e valorizzare. I processi di conoscenza sono funzionali a definire idee e soluzioni che verificano la loro utilità ed efficacia alla prova dei fatti. Nel rispetto dei valori meridiani, il modello mediterraneo attribuisce significato positivo alla lentezza intesa come la capacità di vivere il presente in una dimensione sociale e comunitaria che sappia creare i presupposti di un sistema (sociale ed economico) ecologico, non costantemente concentrato sulla necessità di una crescita e di un’accumulazione continua ma orientato al benessere dei singoli e della collettività all’interno del loro ambiente di vita (anche naturale).

Economia e innovazione sociale possono andare davvero di pari passo?
L’economia è un’innovazione sociale: si tratta di un insieme di regole e dispositivi che consentono di regolare gli scambi. Quindi è giocoforza che vadano di pari passo. Per questo ripensare al significato di ciò che ha valore, a come condividere questo valore, ripensare a come riequilibrare le troppe disuguaglianze, a come evitare di distruggere l’ambiente, sono tutte faccende che legano a stretto giro la società, l’economia e l’ambiente. E da qualche anno tutto ciò è chiaramente formalizzato a livello mondiale in quell’esperanto culturale che sono gli SDGs cioè i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile proposti dall’ONU. Secondo noi ora serve uno sforzo creativo per riuscire ad immaginare nuove forme di futuro che non siano solo futuri possibili (nel senso che la possibilità è determinata sempre da presupposti già predefiniti) ma anche futuri desiderabili. In questo l’arte, quando è davvero libera, ci può dare una grande aiuto.

Quanto ha influito la pandemia nella trasformazione digitale?
Di sicuro, come abbiamo visto e sperimentato tutti, la pandemia ha dato un’accelerata all’uso di sistemi digitali (smartworkign, e-commerce e DAD sono tra le parole pandemiche più utilizzate). Mi pare, però, che fino a qui abbiamo usato le tecnologie come supporto al nostro modus operandi normale. Penso che non sia ancora successo molto, invece, sul fronte della riorganizzazione e dell’innovazione sociale più profonda. Intendo dire che probabilmente la didattica è a distanza ma non si è ripensata completamente per esserlo e infatti pare che stia lasciando buchi enormi nella formazione dei ragazzi; il lavoro è fatto da casa ma non ci sono grandi ripensamenti sull’organizzazione del lavoro; le piattaforme di e-commerce non hanno messo in moto nuove idee per ripensare in chiave sostenibile il foodsystem che così com’è ha gravi responsabilità sui principali problemi del mondo. Tuttavia la pandemia può liberare energie latenti che vanno nella direzione che noi indichiamo con Societing 4.0, favorendo la formazione e la crescita ecosistemica di processi di innovazione sociale e tecnologica a vantaggio di una distribuzione condivisa dei poteri e delle responsabilità delle/nelle comunità anche per evitare che intelligenze artificialifi, cioè intelligenze che agiscono in autonomia, attraverso le macchine o attraverso dispositivi sociali-economici-tecnici-politici-militari-religiosi…- condizionino in modo negativo la vita dell’uomo. Ma bisogna stare attenti: la tecnologia non risolve da sé sola tutti i problemi. Negli ultimi 25 anni abbiamo parlato tanto di Rete ma siamo caduti in un grande fraintendimento. Il grande Marshall McLuhan diceva che “il mezzo è il messaggio”, quindi Internet dovrebbe essere un messaggio di condivisione, di cooperazione, di rete appunto, invece a quanto pare non siamo riusciti a comprendere il messaggio che noi stessi abbiamo generato: l’accesso alle piattaforme digitali è totalmente autoreferenziale ed individuale; abbiamo una tecnologia planetaria ed una direzione politica (che dovrebbe governarla) fatta di sovranismi, di muri e di recinti. Abbiamo totalmente frainteso il messaggio e ci siamo accaniti a vivere il mezzo, la Rete appunto, con un approccio broadcast, trasformandola nel “più grande contenitore di immondizia del Mondo” (Cit. Gianfranco Marziano), riducendola al solo ambiente di mercato nell’illusione di poter vendere più facilmente, con meno competenze e con meno capitali, di tutto: aspirapolveri, corsi di marketing a buon mercato, i nostri corpi, i nostri pensieri…È fondamentale quindi fare attenzione ora a vivere la complessità del presente uscendo dalle mura dell’individualismo. Comunità e sistemi aperti possono produrre intelligenza collettiva utile per immaginare e realizzare nuove soluzioni, con impatti sociali, ambientali e anche economici positivi. In questo percorso complesso ci sembra che la compresenza di individuo, relazioni sociali e istituzioni diventi di fondamentale importanza. Una complessità alla quale possiamo trovare risposta paradossalmente proprio nei valori che hanno fatto grande il Mediterraneo.

Alex Giordano è stato fondatore di Ninjamarketing. È docente di Marketing e Trasformazione Digitale all’Università degli Studi di Napoli Federico II dov’è direttore scientifico del programma di ricerca/azione Societing 4.0 per lo studio e la sperimentazione di un modello mediterraneo di innovazione tecnologica e sociale. È stato fondatore di Rural Hub, il primo incubatore di comunità dedicato alle imprese rurali ed alle aree interne

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