Luciana Delle Donne

La supermanager bancaria che fece del carcere un atelier

di Ilaria Dioguardi

Made in Carcere, attivo nei penitenziari di Lecce, Trani, Taranto, Matera e nel carcere minorile di Bari, permette di avviare un percorso di riabilitazione e reinserimento sociale. Lo si deve a una manager che, dopo un’esperienza bancaria ventennale, ha deciso di dedicarsi a diffondere la filosofia della seconda opportunità (per le persone) e della doppia vita (per i tessuti)

Ha da poco ricevuto il Premio Madre Maria Teresa Fasce, istituito dalle religiose agostiniane del Monastero Santa Rita da Cascia. Questo riconoscimento, alla prima edizione, «rappresenta per me un momento importante perché la figura di Santa Rita, santa degli impossibili, legittima il nostro operato, che è stato sempre difficile, in un contesto scomodo, dimostrando che invece si può fare, grazie alla cura e alla passione», ha detto Luciana delle Donne, ceo e fondatrice Made in Carcere e cooperativa sociale Officina Creativa.

Delle Donne, dopo tanti successi e grandi soddisfazioni professionali, lei ha fatto un’inversione di rotta. Perché ha deciso di passare da una vita nel pezzo di mondo comodo ad occuparsi del mondo scomodo?

Una donna, nel mondo della finanza, che decide di fare la prima banca online (la Banca 121, ndr), a 38 anni diventa dirigente in un mondo tutto maschile, non era un risultato scontato, provavo tantissima soddisfazione per i risultati ottenuti. Ma questi risultati, la notorietà, i premi non mi esaltano. Mi fa più felice quando una persona raggiunge un obiettivo che si mette in testa di raggiungere. Volevo creare degli strumenti di lavoro utili per le persone che vanno in banca perché quella era la mia esperienza: 22 anni in banca mi hanno portato a cercare soluzioni innovative, la tecnologia era limitata a quei tempi. Nel 2000 ho dato vita alla prima banca online, ho avuto tanti successi, soprattutto economici e di visibilità: la prima banca totalmente automatizzata era un caso di studio. Io vivevo in un pezzo di mondo comodo, di quello scomodo non se ne occupava nessuno. Ho pensato di occuparmi delle persone dimenticate, di dare la mia forza, la mia energia ad altri settori, quelli del disagio e dell’emarginazione. Sempre con uno sguardo proattivo, costruttivo. Mi è sempre piaciuto vedere la gioia delle persone che incontravano le mie soluzioni tecniche e professionali.

Perché ha scelto di dare vita a un progetto per (e con) le donne detenute?

Prima ho pensato di dedicarmi agli ultimi, poi ho pensato di dedicarmi agli ultimi degli ultimi. All’inizio ho pensato ai bambini, a mettere in piedi un asilo, ma era complicato e ho lasciato perdere. Poi mi sono dedicata alle mamme di ragazzi che non avevano uno o entrambi i genitori ed erano affidati ai loro parenti. Ho sempre pensato che, aiutando le mamme poi, indirettamente, si aiutano i figli: grazie allo stipendio che percepiscono riescono a portare avanti i progetti anche per i figli. Una vita senza lavoro è impensabile, una vita in carcere senza potersi muovere, da una cella tre passi per due, è altrettanto impensabile. Vedevo anomala questa situazione, mi sono sempre chiesta perché le persone in carcere non debbano vivere nella bellezza, perché non possano essere trattate come persone normali invece di stare in gabbia. Ho creato il primo laboratorio in carcere che amiamo chiamare maison perché gli abbiamo dato un arredo insolito: mobili antichi, tappeti, divani, biblioteca, sala lettura, sala palestra, sala riunioni (dove si siedono attorno a un tavolo ovale, che era la mia scrivania). Le donne sono libere in quelle ore di lavoro. La cosa interessante è che, oltre ad un lavoro classico, con un orario, ruoli, responsabilità, date di consegna, le donne che lavorano con Made in carcere hanno la libertà di essere creative. Quando tornano in cella sono stanche e felici di aver lavorato.
Vogliamo diffondere la filosofia della seconda opportunità per le persone, ricostruendo le loro vite, e della doppia vita per i tessuti. Il mio desiderio è sempre stato, con consapevolezza crescente, di essere al servizio degli altri, in un’ottica imprenditoriale ma sempre soccorrevole e con un approccio altruista e creativo. Dare e darsi è la nuova frontiera della ricchezza. Volevamo far risalire un gradino di benessere alle persone, con un modello di impresa con cui ci si prendesse cura degli altri, con i malati psichiatrici o con le persone dipendenti ci vuole un expertise particolare, competenze che non avevo e non ho. Allora mi sono dedicata ai detenuti. Quando abbiamo iniziato nel 2006 le fasi migratorie erano più deboli, altrimenti mi sarei occupata anche delle persone che vengono in Italia, trovo assurdo come l’individualismo delle persone non tenga conto di chi sta meno bene.

Vogliamo diffondere la filosofia della seconda opportunità per le persone, ricostruendo le loro vite, e della doppia vita per i tessuti

Luciana Delle Donne

Ricorda il momento preciso in cui ha deciso di cambiare vita e licenziarsi?

Ogni giorno mi chiedo perché l’ho fatto. La mia prima vita era piena di agevolazioni. Quando ho scelto di rinunciare alla ricchezza è perché avevo chiaro il desiderio di fare qualcosa per chi ha bisogno. Non sapevo ancora per chi, cosa avrei fatto e come. Ma sentivo di voler fare qualcosa per le persone che avevano bisogno di me, della mia tenacia che mi permette di trascinare altre persone: da sola non potrei fare nulla. A me non interessa fatturare, fare budget, a me interessa che paghiamo gli stipendi a tutti, che cresciamo e ci facciamo copiare, che si replica il nostro modello. Vorrei che tutti usassero buonsenso nei confronti delle persone dimenticate e che si usasse quello che il pianeta già ha, per produrre. Questa è la nostra missione. Siamo costretti a vendere gadget perché se no non paghiamo gli stipendi, ma se potessi regalare tutto lo farei.

Alcuni oggetti realizzati da Made in Carcere

Come create i vostri prodotti?

Utilizziamo soprattutto materiali di scarto e di recupero, avendo sempre pezzi piccoli: il nostro progetto si concentra sul patchwork, sul recupero dei tessuti scartati dagli altri. Dal punto di vista cromatico, bisogna accostarli, scegliere come cromaticamente sono gradevoli. Quindi si ha una responsabilità importante: il successo di un oggetto, che può essere una borsa o un bikini, dipende dagli accostamenti dei vari pezzetti di questi cosiddetti “stracci”. Nella catena di negozi del gruppo Ovs quest’estate è stato venduto un nostro prodotto, un bikini che può essere indossato in 24 modi diversi, che ha un brevetto: i pezzi di sopra e sotto sono intercambiabili. La bellezza di questo risultato è data dalla creatività di queste persone, che si mettono alla prova e costruiscono insieme una soluzione. Era molto bello vedere cinque ragazze intorno a un tavolo che prendevano un tessuto tagliato e dovevano decidere vicino a quale potesse essere cucito. Ogni pezzo di questo bikini parla della loro scelta creativa, non è un’attività da trascurare. Il passaggio importante, in più rispetto al semplice lavoro di sartoria, è il fatto che chi lavora con Made in Carcere decide come realizzare un prodotto, questo potere decisionale è affascinante: è un’attitudine alla scelta. Questo le aiuta a capire che la vita è fatta sempre di scelte, di decisioni, non di occasioni. Noi abbiamo sempre le soluzioni, i problemi li lasciamo agli incapaci. È una palestra di vita fantastica, io sono affascinata dalla capacità di questo progetto nel cambiare l’identità delle persone, renderle libere in carcere. Una delle detenute una volta ha detto: “Io qua sono finalmente felice, mi sento libera”. Sono considerazioni anche un po’ da pelle d’oca, riuscire a generare tanta bellezza e tanta dignità tra le persone non è affatto facile e scontato. Mi piace molto parlare di questa parte dell’attività perché sono tutti valori intangibili, sotto traccia. Io sono felicissima che tanti replichino il nostro modello, abbiamo supportato la creazione di tante sartorie sociali di periferia di tutta Italia, da Verona a Catanzaro. La cosa importante è che nell’approccio lavorativo la persona sia messa al centro, e che sia messa al centro la capacità di cambiamento, sistemico sia dentro che fuori, delle persone.

È una palestra di vita fantastica, io sono affascinata dalla capacità di questo progetto nel cambiare l’identità delle persone, renderle libere in carcere

Luciana Delle Donne

Ha visto tante persone cambiare grazie a questo progetto?

Sì, non solo un cambiamento di status perché le persone prendono uno stipendio e quindi riescono a mantenere i figli fuori e ad avere una vita più decorosa, ma anche perché non sono un peso per le persone che sono fuori dal carcere. La capacità creativa cresce attraverso l’apprendimento sia della bellezza cromatica sia della scelta. Si sceglie nella libertà concessa. Quante persone sono ingabbiate fuori dal carcere, da tante sovrastrutture, da tanti modelli da replicare, che sono legati, al consumismo, all’ignoranza, all’individualismo? Noi siamo totalmente al servizio delle persone che hanno bisogno, cerchiamo sempre di trovare un progetto o una soluzione ad hoc per venire incontro ad ogni situazione. Lavoriamo solo all’interno del carcere, non possiamo pensare di assumere persone fuori dal carcere, ne sono passate centinaia e centinaia. Complessivamente, nelle carceri facciamo lavorare 40-50 persone. È nelle carceri la difficoltà, fuori è una passeggiata, c’è tanta autonomia. In carcere vige il principio e il linguaggio della sicurezza che supera quello dell’impresa. Fare impresa sociale in carcere è un ossimoro, o fai impresa o fai sociale, ci sono tanti momenti di interruzione, tra avvocati, telefonate, infermieri. E soprattutto, se un lavoro non è finito, comunque alle ore 16,30 suona la campana e tutti devono rientrare. Con Made in Carcere lavoriamo a Lecce, Trani, Taranto, Matera e Bari.

La Maison di Made in Carcere, laboratorio in carcere con un arredo insolito: mobili antichi, tappeti, divani, biblioteca, sala lettura, sala palestra, sala riunioni

E quando le persone finiscono la pena detentiva?

Sono così organizzate mentalmente e così orgogliose di aver acquisito dignità, di aver cambiato la loro identità con una visione diversa dello stile di vita che non le distrugge nessuno. Molte donne trovano subito lavoro perché hanno imparato a conoscere il ritmo del lavoro vero. La maggior parte delle persone coinvolte sono donne, rimango in contatto con loro per amicizia ma, una volta uscite, vanno per la loro strada.

Cosa producete?

A Lecce, Trani e Taranto produciamo vari oggetti con tessuti: braccialetti, borsette, grembiuli da cucina, portaoggetti e tanto altro. Il laboratorio di Matera lavora la pelle donata da varie attività di divani e tessuti di tappezzeria che sono nel materano. A Bari il carcere minorile produce biscotti vegani certificati biologici, lì lavorano tutti maschi. Noi facciamo gadgettistica per convegni ed eventi, il costo di ogni prodotto è molto basso. Abbiamo sempre lavorato con i nostri mezzi, senza sostegni, tranne che con il Covid perché i detenuti non sono voluti stare in cassa integrazione e perché non abbiamo creato mascherine per venderle, ma ne abbiamo donate 10mila. Siamo entrati in difficoltà, a quel punto alcune fondazioni ci hanno aiutato a superare il momento.

Con Made in Carcere promuovete un modello di economia rigenerativa, riparativa e trasformativa che fa bene a tutti: individuo, comunità e ambiente

A noi piace che qualcuno replichi il nostro progetto, se lo replicano avviene un cambiamento sistemico in cui tutti pensano con buonsenso al mantenimento del rispetto sia in termini di inclusione sociale sia di impatto ambientale. Abbiamo sempre lavorato perché gli altri ci copiassero, non ci dispiace se questo avviene. Nel 2021 abbiamo cominciato un progetto legato al BIL, Benessere Interno Lordo, abbiamo stimolato lo sviluppo di altre 20 sartorie sociali di periferia, e abbiamo sostenuto altri otto partner. Con questo progetto, sostenuto da Fondazione Con il Sud, siamo riusciti a sviluppare una bella rete di cooperative dove spaziamo dal cibo al tessile all’agricoltura, abbiamo coinvolto in totale circa 65 persone tra formazione e assunzione. La nostra è una missione dei casi impossibili, per questo mi hanno dato il premio. La missione vera è quella di generare un cambiamento tra le persone che stanno dentro ma anche tra quelle che stanno fuori e quelle che vogliono fare le cose come le facciamo noi. Coinvolgiamo studenti, imprenditori, università. Molti studenti universitari vengono a fare volontariato e imparano a conoscere un altro pezzo di mondo, quello scomodo. Piangono tutti i ragazzi volontari perché, quando entrano in carcere, si rendono conto che non hanno capito niente della vita.

Con Made in Carcere, a Bari i ragazzi detenuti nel carcere minorile producono biscotti vegani certificati biologici

Lei ha pianto e piange ancora?

Io piango sempre per il dolore e per la gioia che riusciamo a donare a queste persone e per i risultati ottenuti, che erano veramente impensabili. È un’emozione troppo forte vedere che le persone che lavorano grazie a Made in carcere sono felici, che i loro figli vanno all’università; è una grande felicità vedere il reinserimento delle ex detenute, che spesso sono dei numeri e non sono assolutamente considerate come persone. Io ci litigo, ci discuto, le tratto alla pari: discutere con loro significa dare rispetto al pensiero degli altri. Quando c’è un momento di debolezza e di sconforto mi tuffo nel lavoro, perso di poter essere di aiuto: la mia è una vocazione. Ogni tanto mi chiedo se sono strana io o se sono mancanti gli altri.

Ricevere il premio Madre Maria Teresa Fasce è stato una soddisfazione?

Assolutamente sì, il premio insieme al riconoscimento di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica sono due secchi d’acqua in faccia che mi sono arrivati. Io ho sempre lavorato senza pensare a quello che stessimo facendo, quindi vedevo sensato il mio sacrificio, faccio volontariato da 17 anni per questo progetto per una scelta di vita. Questi secchi d’acqua molto profumata e piacevole mi hanno fatto capire che sono sulla strada giusta. Ne ho avuti tanti di riconoscimenti, ma questi sono i più importanti e più significativi: uno da parte dello Stato e uno da parte della Chiesa, che riconosce l’umiltà, la misericordia e il lavoro al servizio degli altri, cose su cui io non mi sono mai soffermata perché ritenevo giusto e divertente fare quello che facciamo e non mi sono neanche resa conto che erano volati 17 anni. Il premio mi tocca il cuore perché mi hanno letta dentro, ripaga di tutta la fatica. Avere lo sguardo felice delle persone è una grande soddisfazione, che siano studenti, imprenditori, manager.

Luciana Delle Donne con il premio Madre Maria Teresa Fasce, istituito dalle religiose agostiniane del Monastero Santa Rita da Cascia

Fate anche formazione nelle aziende?

Sì, il nostro lavoro si occupa anche di fare formazione nelle aziende, che si occupano di Csr ma spesso non sanno neanche cosa significa, nel vero senso della parola. Di greenwashing ce n’è molto…

Come comunicate ai vostri potenziali clienti?

Noi non abbiamo bisogno di una rete commerciale di venditori, ci chiamano le migliori aziende. Non abbiamo volutamente un bel sito internet. Abbiamo la bellezza della semplicità. Ci siamo inventati il video personal shopper: una persona paga due euro e si sceglie il prodotto, ognuno è diverso per colori e combinazioni.  Nell’e-commerce abbiamo questa possibilità, che abbiamo solo noi (se qualcuno non ci ha già copiato). Esistono delle realtà che si chiamano come noi, che abbiamo un marchio depositato. Ma io penso che per fare il bene non serva l’esclusiva, non è possibile. Diventa sempre tutto più faticoso, ma a noi piace l’impossibile.

Tutte le foto sono di Made in Carcere.



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