Il gender gap economico, lavorativo e di opportunità è un fardello per la democrazia, i diritti e la crescita economica del paese. Inoltre, c’è il concreto rischio di creare un mondo web ancora peggiore di quello fisico, dove le discriminazioni sono amplificate e cristallizzate, prima di essere restituite nel qui ed ora. Tale minaccia dell’intelligenza artificiale può essere scongiurata proprio risolvendo il gender digital divide, divario digitale tra uomini e donne, promuovendo una maggior partecipazione femminile e garantendo alle donne l’accesso a quello che rimane comunque un potente strumento di equità. Ne abbiamo parlato con l’imprenditrice digitale e attivista Darya Majidi, ceo di Daxo Group, società di consulenza strategica e di formazione, che si è guadagnata la copertina di Fortune Italia, tra le 50 most powerful women del mondo.
Nel 2018, lei ha scritto un libro “Donne 4.0” e, a seguire, “Sorellanza Digitale – Femminismo 4.0 tecnologico e inclusivo per una nuova alleanza tra donne e uomini”. Questo movimento è diventato una comunità, la “Community donne 4.0” associazione non profit, che in poco tempo ha raggiunto un centinaio di socie. Una crescita esplosiva. Di cosa si tratta?
La quarta rivoluzione industriale ormai è una realtà, di industria 4.0 si parla già da dieci anni. Sta creando delle opportunità di lavoro ma, al contempo, sta facendo scomparire occupazioni che erano tipicamente svolti dalle donne, le quali devono saper approfittare dei benefici che questi cambiamenti portano con sé. “Donne 4.0” lavora per questo, su più fronti, con 14 gruppi di lavoro (e tutte le donne sono invitate a unirsi a noi). Ad esempio, si stima che il 90% dei lavori avranno una componente digitale più o meno rilevante: in questo scenario, conoscere le tecnologie è importante e un mindset digitale è fondamentale per tutte le donne, anche quelle con una formazione umanistica.
Perché è così importante una diffusa alfabetizzazione informatica?
In quest’ambito, le donne devono essere presenti per scongiurare i rischi ben noti che consistono nel perpetuare gli stereotipi di genere, che influenzano le scelte e le opportunità delle donne nella società. Mi riferisco ai sistemi di intelligenza artificiale che vengono allenati su dataset e su insiemi di conoscenze che riflettono il mondo reale, quindi con i suoi bias, senza che vengano riconosciuti e scartati. Negli algoritmi tradizionali è il programmatore che decide cosa insegnare alla macchina. Oggi, invece, i sistemi di machine learning più usati, quelli con approccio generativo non supervisionato, estraggono conoscenza da grandi moli di dati in modo automatico. Se questi dataset riflettono i bias del mondo, invece di correggerli li incorporeranno, con il rischio di amplificarli.
In che modo?
Se restituiti da una macchina, dei semplici pregiudizi potrebbero sembrare dati di fatto oggettivi. Il livello di discriminazione può quindi aumentare. Ma si pensi alle conseguenze di tutto ciò. Faccio l’esempio della selezione del personale: se il sistema è stato addestrato sui passati curricula, può avere appreso che in alcuni ruoli non le figure femminili sono assenti e, quindi, potrebbe scartare i cv delle donne per quei ruoli, perpetuando e amplificando la discriminazione. È, quindi, fondamentale che le donne siano coinvolte nella scelta dei dati e nella scelta del modello di apprendimento. In questo momento, a decidere è un sottogruppo non certo rappresentativo della popolazione del mondo, ovvero bianchi maschi americani o cinesi. La diversità porta nuove prospettive e percezioni, porta arricchimento. Il femminismo 4.0 è globale, crede nella parità, uguaglianza e equità per tutti.
Eppure, ancora poche donne studiano l’informatica o l’ingegneria informatica. Perché?
Si è fatto un gran parlare delle materie Stem, acronimo che sta per scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, trascurando però l’informatica, corso di laurea dove le donne sono al 14%, una percentuale identica a quella di quando ho iniziato io trent’anni fa. Credo che lo scarso interesse verso questa disciplina dipenda da una narrazione sbagliata, anche da parte delle stesse università, per cui la si ritiene una scelta per futuri programmatori. Mentre noi sappiamo che un informatico è in realtà un problem solving, un analista e un creativo e che l’informatica è tutt’altro che arida.
L’intelligenza artificiale è un’arma potentissima che va regolata, me è anche uno strumento per accelerare il superamento del gender gap, non è così?
Prima di tutto, ricordo che il nostro paese, secondo il Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum, è sceso di 13 posizioni al 79esimo posto su 146 Paesi e, guardando alla partecipazione al mondo del lavoro e alle opportunità economiche delle donne, siamo al 104esimo posto. Una catastrofe per la nostra società e la nostra economia. Ripeto, e sottolineo, che siamo 79esimi, l’Italia è un paese del G7 e a fare meglio di noi non sono solo gli stati virtuosi come l’Islanda, la Norvegia o la Finlandia, ma anche alcuni stati dell’Africa.
«Il divario digitale è diventato il nuovo volto della disuguaglianza di genere» ha detto Sima Bahous la direttrice esecutiva di Un Women in occasione dell’ultima giornata internazionale della donna.
Ero al palazzo di vetro in quei giorni: tutta 67esima Commissione sulla condizione delle donne (Commission on the Status of Women) era dedicata al divario digitale. Le tecnologie sono grandi alleate delle donne. Un terzo del mondo non vi ha accesso e a essere private di questa opportunità conoscitiva, lavorativa e sociale sono soprattutto loro: nei paesi a basso reddito solo il 21% delle donne è connesso contro il 32% degli uomini. In certi paesi, dare alle donne accesso alle informazioni sulla propria salute, sul microcredito, sulle conoscenze agricole può cambiare la vita. Ma ciò è vero anche nel nostro paese, come è emerso nel periodo di lockdown. La tecnologia è liberta: non possono non citare l’Iran e la possibilità di riprendere in tempo reale le violenze. Infine, l’accessibilità deve riguardare tanto gli strumenti tecnologici quanto la capacità di usarli e la possibilità di crearli.
La sua community, cui tutte le donne possono partecipare, si basa su quattro pilastri, che sostengono anche le vostre attività. Quali sono?
Il primo è l’accessibilità e coinvolgimento. Quindi, c’è l’educazione e la formazione già dalle scuole elementari, tanto che abbiamo dato vita a dei progetti con le scuole e a un campo estivo di intelligenza artificiale, l’unico in Italia, per le ragazze di terza e terza e quarta liceo chiamato AI X Girls. Per la formazione continua delle donne adulte, c’è AI X Women corso di due giorni, attivato con La Sapienza di Roma, di introduzione all’intelligenza artificiale. Poi, come terzo pilastro, la leadership e il lavoro, soprattutto nel settore tech e infine, l’imprenditoria. Abbiamo creato StartupHER, per promuovere e rafforzare l’imprenditoria digitale al femminile nel nostro paese, con particolare attenzione alla tecnologia e all’innovazione finanziaria, e abbiamo già 6 startup femminili che stanno crescendo e che stanno andando molto bene.
Padre iraniano, madre istriana, dopo una felice infanzia a Teheran, lei è arrivata in Italia in fuga dal suo paese per la rivoluzione iraniana. Cosa le hanno insegnato quelle prime difficoltà?
Ho imparato che la libertà non va mai data per scontata. Mio papà mi diceva sempre «Tu sei un campione» e lo faceva in persiano. Ho sempre ripetuto questa frase a mia figlia e ora ce la siamo tatuata entrambe. Devo dire che non viene rivolta spesso alle ragazze italiane, cui stiamo dando dei messaggi molto contrastanti: da una parte, molto tradizionalisti come l’invito a dare la priorità a fare figli e mettere su famiglia, spesso provenienti proprio da mamme, zie e nonne che demotivano la ragazza; dall’altra, invece, le sollecitiamo a seguire i propri sogni e inclinazioni, all’affermazione professionale e all’indipendenza economica. La generazione Z è più consapevole di sé e subisce meno dei Millenials queste influenze. Ma noi adulti dobbiamo essere di supporto, di incentivo e di motivazione e smetterla stigmatizzare i fallimenti, senza vedere le potenzialità di crescita e di apprendimento che forniscono. Come dicono gli americani, “never a failure, always a lesson”. Infine, noi rispecchiamo su di loro modelli vecchi che non esistono più, in cui ad esempio si restava nello stesso luogo di lavoro per tutta la vita, e li critichiamo quando invece hanno bisogno di sostegno. Infine, un aspetto di cui pochi parlano: l’atteggiamento dei papà verso le figlie femmine è fondamentale per la fiducia che nutriranno in loro stesse.
E alle ragazze italiane, cosa vuole dire?
Nel momento di massima crescita professionale si chiede loro di arrestarsi per fare dei figli. E i dati, come i grafici appena pubblicati dall’Economist relativi a 134 paesi del mondo su donne, maternità e occupazione, mostrano l’uscita dal mondo del lavoro di una donna su 4 dopo il primo figlio, 5 anni dopo, il 17% è ancora assente. Dopo dieci anni, lo sono il 15%. Dati medi. Quando i colleghi maschi hanno ottenuto delle promozioni, i figli sono adolescenti e iniziano a invecchiare i genitori, e ancora una volta vediamo divari nelle attività di cura. Le tempistiche sono queste. Ma io chiedo alle donne di tenere bene a mente, e noi dobbiamo fare di tutto per spiegarlo ai nostri ragazzi, che tali difficoltà non sono un loro problema, ma sono un problema della coppia, della famiglia, dell’azienda e della società. Un congedo parentale di 10 giorni è ridicolo. La decisione della Francia di concedere un “congedo di nascita” di sei mesi a entrambi i genitori è da approvare e seguire. Bisogna aumentare questo tipo di consapevolezza. La partecipazione delle donne non è una questione di conquista di diritti individuali, ma è una faccenda di democrazia
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