Sara Petraglia

La solitudine dell’albero

di Ilaria Dioguardi

Il 20 marzo esce nelle sale "L'Albero", interpretato da Tecla Insolia e Carlotta Gamba, film d'esordio di Sara Petraglia. Una storia autobiografica, che racconta di adolescenti, amicizie e droga. «Fino al momento di scriverla, non mi ero accorta di quanto la vita sia più cinematografica del cinema», dice la regista

Una storia di amicizia, che si confonde con l’amore e inciampa nella dipendenza, di Bianca, 23 anni, e Angelica, 20 anni. L’Albero, prodotto da Bibi Film e distribuito da Fandango, è il film d’esordio di Sara Petraglia, 36 anni, romana. In concorso alla Festa del Cinema di Roma 2024, la pellicola, che ha come protagoniste le giovani Tecla Insolia e Carlotta Gamba, esce nelle sale il 20 marzo.

Petraglia, questa storia, prima di diventare una sceneggiatura, ha preso negli anni diverse forme – diari, romanzi, fanzine fotografiche, fumetti – tutte inconcluse. Come nasce la storia di Bianca e Angelica?

Mi ritrovavo sempre a prendere appunti sulla mia vita e su quello che mi succedeva intorno, nel mio gruppo di amici. Scrivevo molto, prendevo nota di tutto, poi provavo a fare dei disegni, facevo molte foto. Quando ho deciso che volevo raccontare qualcosa, scrivere magari un libro, mi sono accorta che la storia ce l’avevo già. Da anni ripensavo sempre a quegli anni che avevo vissuto e che poi racconto nel film. La storia è autobiografica. A quel punto ho provato a scrivere una sceneggiatura, è stato molto rapido come processo, nel giro di due mesi l’avevo. Fino al momento di scrivere questa storia, non mi ero accorta di quanto la vita possa essere ancora più cinematografica del cinema: era una storia molto forte e funzionava molto come sceneggiatura.

Carlotta Gamba e Tecla Insolia (foto Sara Petraglia)

In quanto tempo lo avete girato?

Quattro settimane e due giorni, molto poco. È un film piccolo, questo era il tempo che avevamo, ci è bastato per arrivare all’essenziale. Certo, ci sarebbe piaciuto avere una settimana in più per girare qualcosa che poi avrebbe potuto aiutare in fase di montaggio. Però, quando sai che hai poco tempo, togli tutto ciò che non è necessario, quindi paradossalmente il film resta scarno, però funziona perché abbiamo dovuto correre, siamo dovuti andare proprio al centro delle cose.

Bianca, interpretata da Tecla Insolia, quando va a vedere una casa da prendere in affitto insieme ad Angelica, guarda fuori dalla finestra e dice: «Ma quell’albero?». Perché quell’albero, che colpisce molto Bianca, dà il titolo al film?

L’albero del titolo si riferisce a un pino che le due ragazze vedono dalla finestra di casa loro, appena entrano a vederla, che sta in una palazzina al Pigneto, a Roma. È un albero che svetta sulla Casilina e che la protagonista, Bianca, guarda sempre e non si spiega mai perché. Ho preferito lasciarlo misterioso, non mi andava di dire troppo sull’albero.

Tecla Insolia e Carlotta Gamba (foto di Sara Petraglia)
Carlotta Gamba (foto di Sara Petraglia)
Tecla Insolia
Una scena del film “L’Albero” (foto di Margherita Panizon)
Carlotta Gamba e Tecla Insolia (foto di Sara Petraglia)
Tecla Insolia (foto di Sara Petraglia)

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Anche l’albero è autobiografico?

Sì, io ne avevo uno che guardavo tutti i giorni fuori dalla finestra della cucina, nel tessuto urbano di Roma Est. Veder svettare quel pino molto solitario era un’immagine molto forte. Quando ho iniziato a scrivere il film, ho pensato di metterlo alla finestra. Poi, piano piano, ho capito che l’albero era il centro del film, che era una specie di forza attrattiva, magnetica, per queste due ragazze. È il ricordo che più ti rimane. Quindi, alla fine, ha addirittura dato il titolo al film. Io l’avevo messo all’inizio un po’ defilato, poi mi sono chiesta: «Perché ho scritto che c’è un albero fuori dalla finestra?». Mi ci sono concentrata di più e l’ho reso centrale.

Nel film si parla anche di dipendenza da cocaina. Anche questo lo ha vissuto intorno a lei?

Sì, l’hanno vissuto i miei amici e le mie amiche, era ovunque. In generale l’uso delle sostanze, a quell’età, è stato quasi inevitabile, era molto comune. Tra l’altro, la cocaina è diventata preponderante dopo qualche anno, prima era usata soprattutto durante le feste. A un certo punto, quando ha iniziato ad essere così tanto usata, è stato anche l’allarme che qualcosa era andato troppo in là. Credo che non ci sia niente di sociale nella cocaina, anche se viene vista così inizialmente dai gruppi di amici. La cocaina perde rapidamente il suo carattere sociale, diventa una droga della solitudine, dell’ego, della mancanza di coraggio.

Bianca e Angelica, che tu racconti nel film, soffrono la solitudine?

La solitudine ci caratterizza tutti, da quando nasciamo, ma quella solitudine c’è perché dobbiamo pensare a resistere. Io credo che ci sia il contrario della solitudine nel film, credo che ci sia l’amicizia e un gruppo di appartenenza. Tra le due protagoniste c’è un legame molto forte, anche se poi diventa tossico, non si riesce a mantenere bene ma durerà per sempre, anche quando non ci si può vedere perché se no ci si fa del male. Credo che queste due ragazze non siano sole perché hanno scelto le persone da tenersi accanto, che è anche quello che aiuta a uscire da una dipendenza, cioè le reti che noi abbiamo intorno. Queste due ragazze le vedo molto unite e circondate da altri amici.

Dove è stato girato il film?

A Roma e una settimana a Napoli.

Ha in mente altre storie da raccontare?

Sì, però niente di preciso al momento, non ho iniziato ancora a scrivere perché preferisco avere un’idea bella che conquisti me per prima. Quindi, sto pensando, pensando…

In apertura, foto di Margherita Panizon. In tutto l’articolo, foto ufficio stampa Fandango (nelle didascalie i credits dei fotografi)

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