Proteste

La rottura generazionale africana

di Joshua Massarenti

Y'en a marre, Balai citoyen, Filimbi, Inyina. Sono solo alcuni dei movimenti di protesta giovanile che stanno divampando sul continente africano. La loro rabbia pacifica simboleggia una rottura generazionale con una leadership che non ne vuole sapere di lasciare il potere ai giovani. Vita.it ha incontrato i leader di questi movimenti a Bruxelles, nell'ambito dell'Africa Week, un evento organizzato dal Gruppo dei Socialisti e Democratici europei.

È la storia di una rivoluzione africana che sballa i giovani e manda al diavolo una leadership all’agonia. Lo fa a ritmo di rap, reggae e R&B, ma anche attraverso whatsapp e tutti i social media messi a disposizione sulla rete, spesso sussurando nelle orecchie di chi ha rabbia dentro che la cosa migliore da fare non è bruciare macchine o pneumatici ma scendere prima in strada, braccia e mani in alto, bene in vista, per dire basta a dei dinosauri della politica che si attaccano alla poltrona del potere per non mollarla più, e poi cacciarli attraverso le urne. L’esilio di chi martirizza il proprio popolo è un viaggio di sola andata. Il ritorno nell’arena politica non è consentito. E se uno ci prova, dovrà fare i conti con un esercito di ragazzi e ragazze che hanno fatto della non violenza un principio, ma che non sono più disposti a prendere schiaffi.

Questi ragazzi e ragazze sono il futuro del continente africano. Le statistiche onusiane ci dicono che nel 2050 circa un miliardo di giovani con un età inferiore ai 18 anni saranno africani. Il futuro è già domani e per alcuni cittadini africani inizia oggi. Con un corrollario da tener presente: una rabbia giovanile che in Africa si sta espandendo a macchia d’olio.

Tra di loro, qualcuno ha pensato che fosse giunta l’ora di canalizzare questa rabbia per orientarla verso una contestazione all’insegna della coscientizzazione politica e del desiderio di fare politica per cambiare il mondo. In Senegal, tutto nasce con l’ennesimo taglio di elettricità a Dakar. Al ritorno della luce, gli studenti dell’Università Cheick Anta Diop si mettono a ballare come se la squadra nazionale avesse vinto la Coppa d’Africa, nei quartieri popolari a prevalere è invece una rassegnazione inframezzata da scatti d’ira dal respiro corto. Gli anni delle indipendenze sono ormai sepolti, e assieme a loro un processo di democratizzazione che dagli anni ’90 in poi ha generato delusioni e frustrazione culminate con una “rinascita economica del continente africano” nell’ultimo decennio che aspettano ancora come se fosse Godot.

In Senegal, il sistema politico-economico era totalmente corrotto che il cittadino senegalese lambda non contava più nulla. Evidentemente, i nostri leader stavano su un altro pianeta

Aliou Sane, membro fondatore del movimento Y’en a marre (Senegal)

Un’ondata di proteste giovanili senza precedenti
Ma quel giorno, quattro senegalesi si sono guardati negli occhi e hanno detto “Basta!”. Qui non si può più festeggiare o rimanere indifferente a un servizio che lo Stato dovrebbe garantire 24 ore su 24. Il tempo di mettere a tappetto tutte le ombre, e sono tante, che hanno segnato decenni di malaffare politico, i rivoluzionari iniziano a disegnare le prime mosse da compiere per mobilitare i giovani. Aliou Sane, giornalista, racconta la nascita del movimento di cui è fondatore come se fosse ieri. Y’en a marre (“Siamo stufi”, in lingua wolof) viene alla luce nel 2011, anche se in realtà «è il frutto di una lunga sedimentazione di lotte sociali senegalesi. Non cadiamo dal cielo». Nei media, divampano gli scandali del Presidente Abdoulaye Wade, un istrione del liberismo africano che ha promesso sogni e meraviglie ai suoi cittadini per poi passare gran parte del suo tempo a rimpinguare i conti bancari di familiari, amici, religiosi e professionisti della politica a cui regalare prebende. «Un sistema politico-economico totalmente corrotto in cui il cittadino senegalese lambda non contava più nulla. Evidentemente, stavano su un altro pianeta. Ma invece di vedere i giovani bruciare pneumatici e bus, li abbiamo convinti che il miglior modo per cambiare le cose è registrarsi sulle liste elettorali». Il movimento prende forma, fa campagna nei bus cittadini e nei quartieri, dove nascono dei club Y’en a marre, i social media e quelli di massa fanno il resto. «Canalizzare questa rabbia è la cosa più difficile per un movimento come il nostro. La situazione può sfuggirti di mano in un soffio», spiega Sane. Assieme a lui ci sono tre compagni di strada africani: Floribert Anzulini, fondatore del movimento Filimbi (“colpo di fischietto”, in kiswahili) e coordinatore di Front citoyen 2016, la più vasta piattaforma di difesa della Costituzione congolese che il Presidente Kabila considera un bigino per principianti della politica con l’obiettivo di candidarsi alla propria successione, la terza dal 2005; al suo fianco c’è Didier Lalaye, artista e scrittore ciadiano che di recente ha lanciato con successo un nuovo movimento, Iyina; infine il più carismatico di tutti, Serge Bambara, in arte Smockey, fondatore di Le Balai citoyen, che tra un disco e l’altro ha deciso di porre fine al regime autoritario del presidente Burkinabé Blaise Campaoré. I quattro leader sono stati gli ospiti d’onore dell'Africa Week (la Settimana dell’Africa) organizzata dal 5 all’11 aprile al Parlamento UE dal Gruppo dei Socialisti e Democratici europei, che ha deciso di fare del continente africano una priorità assoluta della sua politica estera. “In tutte le nostre risoluzioni, denunciamo sempre e continuamente le violazione dei diritti umani e della libertà di espressione”, ricorda Cecile Kyenge, deputata del gruppo S&D e molto attiva sulle questioni africane. «In Africa, c’è chi dice che questi movimenti sono violenti, ma non lo sono. Ecco perché il Parlamento europeo, a partire dal nostro gruppo politico, ha deciso di sostenerli e difenderli».

Preservare l’indipendenza e costruire la leadership di domani
Nella serata di chiusura dell’evento che si è svolta ieri all’Université Libre de Bruxelles hanno ribadito fino allo sfinimento che i movimenti da loro fondati sono “cittadini”, appartengono a tutti, di sicuro a nessun partito politico, nessun donatore internazionale, e neanche alla società civile, «che rispettiamo, ma a cui non vogliamo essere associati». Ma il vero punto di rottura è un altro. Lo racconta con un verbo tutto suo Smockey: «Ci siamo rotti dei leader corrotti e incompetenti che calpestano i nostri diritti. Tra di noi ci sono tantissimi giovani iperconnessi, che sanno bene cosa accade nel mondo, e altrettanto bene che nel loro paese non c’è futuro». Grazie a lui e i suoi compagni, il Burkina Faso può vantare una rivoluzione pacifica che, ad eccezione della Tunisia, accade di rado in Africa. Ci è voluto poco perché tutto finisse in un bagno di sangue. «All’inizio nessuno credeva in noi. Nelle sedi diplomatiche in cui ci siamo recati per presentare il nostro progetto politico, ci guardavano come se fossimo marziani. Al massimo ci dicevano che per motivi diplomatici non potevano esporsi troppo. L’unico ad aver detto pubblicamente quello che pensava del regime di Campaoré è stato l’ambasciatore statunitense. E infatti oggi tutti si ricordano di lui, gli altri ce li siamo dimenticati. Anche perché non abbiamo bisogno di loro. La svolta può arrivare solo da noi, i Burkinabé in Burkina, i senegalesi in Senegal, gli africani in Africa. Facciamo a meno, se possibile, degli appoggi internazionali».

Ci siamo rotti dei leader corrotti e incompetenti che calpestano i nostri diritti. Tra di noi ci sono tantissimi giovani iperconnessi, che sanno bene cosa accade nel mondo, e altrettanto bene che nel loro paese non c’è futuro

Serge Bambara, alias Smockey, fondatore del movimento Balai citoyen (Burkina Faso)

In Burkina Faso, i dittatori si spazzano via con la scopa
Quando il Balai citoyen (“la scopa cittadina”) nasce nel 2013, Serge Bambara e il suo compare reggaeman Sams’K Le Jah si pongono come obiettivo di spazzare via coloro che vogliono mantenersi a vita al potere, tra cui l’ex presidente Blaise Campaoré che all’epoca dirigeva il paese con un pugno di ferro sfoderando a piacimento guanti di velluto. La cosa è andata avanti per quasi 30 anni, finché nel 2014 non commette l’ennesimo peccato veniale dei suoi omologhi: modificare la Costituzione per ricandidarsi all’ennessima farsa elettorale. Ma la strada, e decine di migliaia di giovani, gli dicono di no e lo mandano in esilio. La scopa ha ragione sul fucile, e assieme a Campaoré viene spazzato via tutto il suo entourage. «Siamo andati avanti tappa per tappa. La prima è stata quella di cacciarlo. Ci ridevano in faccia, ma ce l’abbiamo fatta», sottolinea Smockey. I ricordi delle pallottole che fischiano sopra la sua testa mentre in piazza affronta militari e poliziotti sono ancora freschi. «I miei amici mi davano del pazzo, ma non volevo fermarmi». Una follia? «Forse, ma non puoi spacciarti per un capo se mentre mandi in prima linea i cittadini te ne stai seduto comodo comodo sulla tua poltrona. Sono un leader e volevo dimostrarlo, cercando di preservare la vita dei miei compagni. La frontiera tra i rischi che prendi e che fai prendere agli altri con la necessità di risparmiare vite umane dalla macchina repressiva dello Stato è molto sottile». E non sempre le strategie elaborate a tavolino vanno a buon fine. O meglio sì, ma in modo inatteso. «Ricordo un giorno durante il tentativo di putsch militare in cui ero convinto che dovevamo lottare fino in fondo. Mi sembrava un momento clou della nostra rivoluzione». Nel bel mezzo delle manifestazioni, le forze dell’ordine fedeli a Campaoré decidono di caricare. «Con altri leader ci siamo riuniti sotto un albero per capire cosa fare. C’era poco tempo a disposizione, al massimo cinque minuti. Ma quando abbiamo deciso che non potevamo arretrare, ci siamo voltati le spalle e abbiamo visto tutti i manifestanti andare in ritirata. Quel giorno ho capito che correre ai ripari era un modo per tornare più forti di prima. E così è stato».

Per Smockey, l’organizzazione è la chiave che determina il successo o meno di un movimento cittadino come quelli che stanno proliferando sul continente africano. Lo ha capito due anni fa in un incontro casuale nelle strade di Casablanca. «C’era un barbone che mi ha chiesto una sigaretta. Dopo avergliela offerta, mi ha detto: “Organizzarsi significa vincere”. Questa frase ha cambiato la mia vita». C’è poi un altro aspetto, altrettanto importante: la credibilità. «Sono da sempre un artista impegnato, la gente sa chi sono, da dove vengo e per chi ho combattuto in tutti questi anni». Dopo la caduta di Campaoré, Smockey e il Balai citoyen passano alla seconda tappa del cambiamento: l’organizzazione di elezioni libere e trasparenti, le prime nella storia del Burkina Faso. «Anche lì tutti a ghignare, ma li abbiamo fregati». E di fatti, nel dicembre 2015 il paese degli uomini integri si dota di un nuovo presidente, Roch Marc Kaboré, al termine di un processo elettorale difficile, ma regolare e soprattutto libero. Allora, Smockey, soddisfatto? «Niente affatto. Anzi, oggi inizia la parte più complicata. Lavoriamo su due fronti: il primo ci vede setacciare tutto quello che il nuovo governo propone e implementa, dall’Assemblea nazionale ai poteri locali. E se riteniamo che le decisioni prese non coincidono con gli interessi del popolo Burkinabé, lo denunciamo». Come? «Con gli stessi mezzi utilizzati durante la rivoluzione. I social media, il teatro, la musica, i concerti in cui associamo cantanti e nuovi leader in grado di far passare messaggi chiari e comprensibili al popolo, soprattutto alla gioventù. Il secondo fronte è ancora più importante, ed è continuare a suscitare una vocazione politica tra i giovani disillusi. Tra loro ci saranno i leader di domani». Qualcuno in Burkina sostiene che Smockey ha altri grilli per la testa: trasformare il suo movimento cittadino in un partito e conquistare il potere. «Sono cavolate. A me interessa solo che i giovani acquisiscano una coscienza politica e che prendano per mano il loro destino. Nessuno lo farà al posto loro, nessuno. Men che meno gli intellettuali. Sono parte in causa del fallimento del sistema, perché pensavano di cambiare le nostre vite dalle loro cattedre. Invece se vuoi essere credibile devi mettere le mani nel fango. E più metti le mani nel fango, meglio capisci le sofferenze immane della piccola gente».

Mentre mi trovo a Bruxelles, continuo a ricevere messaggi da villaggi remotissimi del mio paese. Il segreto è il passaparola e un uso sapiente dei social media e dei mass-media

Floribert Anzuluni, fondatore del movimento Filimbi (RDC)

https://www.youtube.com/watch?v=2Ky8hnq2F-Y

Le sfide della mobilitazione. Il caso del Congo
Dello stesso parere è Floribert Anzuluni, ma con un tono meno perentorio e con la differenza che il fondatore del movimento congolese Filimbi deve fare i conti con «un regime molto, ma molto repressivo», in un paese grande come l’Europa occidentale. E quindi come si fa a mobilitare in un territorio gigantesco come la Repubblica Democratica del Congo? «Mentre mi trovo a Bruxelles, continuo a ricevere messaggi da villaggi remotissimi del mio paese. Il segreto è il passaparola e un uso sapiente dei social media e dei mass-media. La gente è talmente stanca dei conflitti armati e della povertà estrema, che non ne può più di vedere governanti mettersi il denaro in tasca mentre nel paese c’è chi muore di fame. In RDC, il 95% del business è controllato dalle persone che stanno al potere, e cioè il clan Kabila». Rispetto a Balai citoyen, che strategia portate avanti per il cambiamento? «Lavoriamo sul breve termine e per un solo obiettivo: la difesa della Costituzione e l’alternanza politica, che passa per un ringiovamento della classe politica congolese. La legge proibisce al presidente Kabila di candidarsi per una terza volta alle presidenziali. Ma lui e il suo entourage hanno messo in piedi una macchina diabolica per ritardare le elezioni, previste a fine anno, con lo scopo di mantenersi al potere e reprimere i movimenti come il nostro. Filimbi è un collettivo cittadino non partigiano di attivisti, artisti, imprenditori, quadri, ecc. creato da giovani per i giovani».

Per lui le cose si sono messe male sin dal primo giorno del lancio di Filimbi. È il 15 marzo 2015. Chiusa l’assemblea di apertura del movimento, gli attivisti Fred Bauma (fondatore di un altro movimento, la LUCHA) e Yves Makwambala vengono arrestati e rinchiusi nel carcere di Makala con l’accusa di “attentato alla sicurezza dello Stato”. Da allora non sono mai stati liberati e rischiano dai dieci anni di reclusione fino alla pena di morte. Floribert prende la strada dell’esilio. Dall’estero, mantiene in vita Filimbi come può e coordina la piattaforma Front citoyen 2016, protagonista nel febbraio scorso di una grande mobilitazione sociale che ha costretto gran parte del paese a fermarsi durante la giornata “Villes mortes” (città morte, che consiste nella paralisi delle attività nei centri urbani). «Purtroppo molti attivisti sono stati incarcerati e processati in circostanze ubuesche», racconta Anzuluni, che nella sua vita precedente gestiva i rischi di una delle più importanti banche private del Congo (Ecobank RDC). «Il mio passaggio all’attivismo è molto simbolico. Non tutti quelli che aderiscono ai movimenti contestatari provengono da ambienti artistici e intellettuali. Ci sono tanti imprenditori che non ne possono più di questo sistema».

Per molti dirigenti e militari è un vero problema reprimerci, anche perché tra i manifestanti ci sono spesso i loro figli

Didier Lalaye, co-fondatore del movimento Iyina (Ciad)

Il becchino vs. Il presidente
Inyina è l’ultimo movimento apparso sulla mappa della protesta africana. Alla sua guida c’è Didier Lalaye, artista e scrittore pluripremiato. Oggi in Ciad tutto lo conoscono come Croque-mort (“Becchino”), è noto nel suo paese per essere stato un precursore dello slam, poesia urbana all’incrocio tra il rap e la letteratura. Anche lui è convinto «che solo i giovani possono cambiare le cose. E Inyina è l’unico movimento in Ciad che è stato in grado di parlare ai giovani». Mai in passato le proteste avevano portato così tante persone in piazza per denunciare il regime del presidente Idriss Deby. «Per molti dirigenti e militari è un vero problema reprimerci, anche perché tra i manifestanti ci sono spesso i loro figli». Detto in altre parole, si chiama rottura generazionale. E qualche esperto invoca già un sessantotto africano. Come quello che sta accadendo in Sudafrica, attraverso una protesta studentesca che non ha precedenti nella patria di Mandela. Poi ci sono le proteste di cui non si parla, semplicemente perché sono state uccise sul nascere. È il caso del Burundi, dove migliaia di giovani sono scesi in strada per protestare contro la candidatura, l’ennesima in Africa, del presidente uscente Pierre Nkurunziza per un terzo mandato inconstituzionale. Bilancio: 500 morti, tra cui molti ragazzi e ragazze.

Ma è tutta l’Africa ad essere scossa da un fenomeno che molti pensavano chiuso: la volontà di chi è eletto di ritenersi insostituibile, oppure di dover rendere conto ad vitam aeternam a chi – nei cerchi di poteri influenti – lo ha portato al potere. Ecco alcuni nomi:
Omar Al-Bashiir
, 72 anni, presidente del Sudan da 23 anni
Robert Mugabe, 92 anni, presidente dello Zimbabwe dal 1987
Idriss Deby, 63 anni, presidente del Ciad da 26 anni, il suo quinto mandato è dato per scontato
Paul Biya, 83 anni, al potere in Camerun dal 1982
Ismael Omar Guelleh, 68 anni, presidente di Gibuti dal 1999 e rieletto quest’anno per un quarto mandato
Yoweri Museveni, 71 anni, presidente dell’Uganda da 30 anni, rieletto nel 2016 per un quarto mandato

La rottura generazionale non è casuale.

Articolo realizzato in collaborazione con l'agenzia d'informazione Infos Grands Lacs.
Credito foto copertina: Seyllou/Getty Images

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