A pochi giorni dalla fiaccolata per la pace in Medio Oriente che ha visto a Firenze camminare insieme l’abate di San Miniato al Monte, padre Bernardo Gianni; il rabbino capo Gadi Piperno e l’imam Izzedin Elzir, il sentimento che resta è di grande meraviglia per come sia stato possibile far convergere oltre 10mila persone in una marcia che è stata una liturgia collettiva del silenzio dove l’appartenenza politica, sociale o ideologica non aveva nessun valore ma l’unica cosa che contava era questo unico popolo che chieda in maniera corale la pace.
«Desideravo che la fiaccolata fosse un momento di meditazione, condivisione e speranza. Un grido trasversale per la pace», spiega padre Bernardo, «non si può chiedere al Signore qualcosa se il nostro cuore è diviso. Se non siamo in accordo, in comunione gli uni con gli altri. Il nostro grido di pace non poteva venire da una cittadinanza ferita e contrapposta perché avrebbe perso intensità e qualità. Per questo doveva essere un momento aperto a tutti senza nessuna distinzione. A ispirarmi, anche, la figura di Giorgio La Pira, storico sindaco di Firenze, che vedeva la sua città come una nuova Gerusalemme, attrattiva di tutta l’umanità, di tutti i popoli. La Pira credeva che la bellezza di Firenze fosse frutto di un dono speciale del Signore, che fosse chiamata al servizio della convergenza dei popoli, delle culture e delle idee diverse. Ecco, ho pensato che dovevamo tutti farci ispirare da questa sua convinzione per invocare il delicatissimo dono della pace».
Padre Bernardo una liturgia collettiva può essere capace di superare i limiti delle azioni terrene dell’uomo?
«Sì, una liturgia collettiva che ha nel silenzio la manifestazione di quanto sia difficile trovare parole adeguate alla sofferenza, alla paura ma, anche, alla speranza. Il silenzio come spazio di accoglienza. Gravidanza di futuro. Come accaduto a Firenze, il vero vessillo da mostrare deve essere il nostro volto che è bandiera di umanità. Nessun altro stendardo».
Dunque al di là dell’appartenenza politica, sociale e ideologica ogni singolo individuo può essere testimone di una richiesta di pace. Come dire la connessione spirituale delle singole anime può avere la forza di far cambiare prospettiva a chi ha in mano le sorti dei popoli?
«La storia di Firenze testimonia che ci può essere un protagonismo del popolo capace di opporsi a destini che sembrano ineluttabili. Penso a come è nato il calcio storico, qui in città, durante l’assedio del 1529, quando l’esercito più importante della terra capeggiato da Carlo V per più di un anno ha assediato la città. Il popolo rispose organizzando una partita di calcio per dare l’impressione di non prendere sul serio quello che accadeva fuori le mura. Questo episodio fa capire che il popolo ha un suo dono profetico. Una sua capacità di avvertire prima degli altri le priorità e indicare le uniche soluzioni per uscire dalle difficoltà».
Papa Francesco ha indetto per venerdì 27 ottobre una giornata mondiale di preghiera, digiuno e penitenza a sottolineare ancora una volta l’importanza rivoluzionaria della preghiera.
«Siamo tutti molto affamati di pace e di speranza. Siamo precari in una situazione di limite non celebrare ma esistenziale. Nella preghiera consegniamo tutto al Padre. Questa prospettiva rafforza la consapevolezza che il nostro momento di digiuno e preghiera non è separabile da quello che, da ogni parte del mondo, stanno facendo popoli di religioni e tradizioni diverse. È un unico grido corale per la pace. Durante la nostra fiaccolata, per esempio, erano presenti, anche, comunità che praticano meditazione buddista e i loro mantra, in alcuni, momenti si sono avvicinati a chi recitava il rosario. Questa preghiera collettiva segnala che rimettendo tutto all’amore del Padre e confidando nella Pasqua di Gesù possiamo veramente sperare che, quello che a noi sembra impossibile, con il suo amore, la sua pazienza e la sua misericordia possa trasformarsi in bene».
Il Patriarca di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, nella sua lettera a tutte le diocesi scrive che «avere il coraggio dell’amore e della pace qui, oggi, significa non permettere che odio, vendetta, rabbia e dolore occupino tutto lo spazio del nostro cuore, dei nostri discorsi, del nostro pensare. Significa impegnarsi personalmente per la giustizia, essere capaci di affermare e denunciare la verità dolorosa delle ingiustizie e del male che ci circonda, senza però che questo inquini le nostre relazioni. Significa impegnarsi, essere convinti che valga ancora la pena di fare tutto il possibile per la pace, la giustizia, l’uguaglianza e la riconciliazione». Condivide questo pensiero?
«Sì, credo sia necessario imparare a trasfigurare le nostre emozioni, reazioni e rivendicazioni. È importante comprendere che di odio si muore. Con la compassione, invece, si può sopravvivere. Le comunità palestinesi e israeliane sono sicuramente profondamente ferite ma è importante che tutti noi comprendiamo che c’è un altro linguaggio che ci accomuna: quello del dolore, della sofferenza e il nostro cuore non può ignorarlo. Quando si soffre la prima tentazione è quella di rinchiudersi in se stessi e di trovare le “colpe” negli altri. Ma, invece, è proprio quello il momento in cui ci si deve aprire all’aiuto che viene dall’altro. L’aver assistito all’esperienza di reciproca consolazione tra il rabbino capo Gadi Piperno e l’imam Izzedin Elzir, che stanno vivendo lo stesso immenso dolore, è la testimonianza che aprirsi all’altro nel dolore è possibile».
La foto in apertura, che mostra padre Gianni in un momento degli esercizi spirituali di Ariccia (Roma) nel 2019, è di Vatican Media/LaPresse.
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