In un passaggio particolarmente illuminante del suo corso sugli «anormali» tenuto al Collège de France nel 1974-1975, Michel Foucault parlava di una connotazione grottesca della sovranità. Il potere politico, sosteneva allora Foucault, può arrivare a concedersi la possibilità di trasmettere i propri effetti in un «recesso» che è manifestamente, esplicitamente, volontariamente squalificato dall'odioso, dall'infame o dal ridicolo.
Questa «meccanica grottesca o questo ingranaggio del grottesco nella meccanica del potere», è molto antica nelle strutture e nel funzionamento politico delle nostre società. Esempi si ritrovano nella storia romana, con la «qualificazione quasi teatrale» del potere nella persona dell'imperatore, qualificazione che fa sì che «il detentore della maiestas, cioè del di più di potere rispetto a qualsiasi altro potere, sia allo stesso tempo, nella sua persona, nella sua realtà fisica, nel suo abito, nel suo gesto, nel suo corpo, nella sua sessualità, nel suo essere un personaggio infame, grottesco, ridicolo».
Nei suoi lavori, , Michel Maffesoli, sociologo alla Sorbona e direttore del Ceaq (Centro studi sull'attuale e l'immaginario) si concentra sulle «mutazioni e i sussulti» che marcano la postmodernità, portando al tempo stesso l'attenzione sui riti profani e le meccaniche grottesche che descrivono, sul terreno reale e su quello dell'immaginario, questi passaggi. Segni di un mondo e di un'etica di cui, nel bene o nel male, la democrazia rischia di non essere più la matrice.
Apocalissi del consenso
Si può fondare o quanto meno legittimare a posteriori un potere istituzionale sul «ridicolo»? Crede che si stia assistendo a forme nuove di «saturazione» del discorso politico attraverso un gioco al ribasso dove non si comprende più dove sia il medium e dove il messaggio, quale il mezzo e quale il fine?
Ritengo che non si possano comprendere adeguatamente le grandi caratteristiche della postmodernità se non considerando e ricorrendo alla comparazione con le manifestazioni premoderne. La teatralizzazione del politico è, infatti, qualcosa che attiene in particolar modo alla sensibilità mediterranea e fa regolarmente ritorno nella storia e nelle vicende umane: pensiamo a Caligola, a Eliogabalo, alla festa della dea Ragione durante la Rivoluzione francese, alle migliaia di inutili cerimonie e di riti profani che hanno circondato o circondano la nostra vita. Potremmo ricordarci, a tale proposito, la formula del buon vecchio Marx, secondo cui ogni cosa che si presenta nella nobile forma della tragedia è destinata, prima o poi, a ripresentarsi ma trasfigurata in farsa o in volgare commedia. Solo collocandoci a questo livello – il livello della farsa – possiamo capire che cosa è la «transfiguration du politique». Trasfigurazione che si regge su uno spostamento fondamentale del nostro asse politico: il passaggio dalla convinzione alla seduzione. La seduzione non è tanto un'attitudine programmatica, un contenuto preciso, quanto una tonalità emotiva che ha assunto come punto privilegiato il «sentire», attraverso la messa all'opera di strass e paillettes e altre parades all'americana. Per citare solo alcuni tra i seduttori postmoderni, possiamo ricordare Obama, Sarkozy, Berlusconi…
Obama al fianco di Sarkozy e Berlusconi non le pare una forzatura?
Non proprio perché, da questo punto di vista, anche lui si è impegnato più a sedurre che a convincere. Ma si tratta di una tendenza che ha travolto il politico in quanto tale e va inteso astraendo – se possibile – dalle singole personalità. Questa tendenza alla seduzione corrisponde anche alla saturazione di tutti i canali emotivi, fatto che ci costringe a chiederci, per il futuro, quali saranno le nuove forme del vivere, del sentire e dello stare insieme. È per questa ragione che la «sovranità» può assumere forme grottesche, presentarsi attraverso le gradazioni (o le degradazioni, dipende dai punti di vista) dell'infamia e dell'osceno. Un clown al potere può sedurre tanto, se non di più di un ex attore di b-movies palestrato o di un alto funzionario dedito alla corsa o al test di Cooper. La seduzione opera a livelli che la tradizionale critica politica non ha ancora compreso. A dispetto di tutto, però, oltre le seduzioni e i detriti di un razionalismo che non funziona più, oltre le derive irrazionali, nella confusione generale avanzano nuovi stili vita comunitaria. In una prospettiva un po' libertaria un po' anarchizzante, ritengo che questo stare insieme ci avvicinerà sempre più a una federazione di micro-entità autonome, legate traversalmente dai nuovi mezzi di comunicazione interattiva. Qui si gioca la sinergia dell'arcaico e dello sviluppo tecnologico: si formano tribù postmoderne.
Al tempo stesso si radicalizza il distacco fra i produttori di opinioni, «che continuano a instillare e a mettere in pratica le idee di un mondo in declino», e il mondo di queste tribù postmoderne… In Apocalypse lei parla di intellettuali che hanno smarrito ogni senso della realtà, raggruppandoli nella categoria dei ««faux professeurs».
Gli intellettuali, gli universitari e altri esponenti del sapere costituito tendono a cedere sempre di più alle sirene mediatiche, fatto che favorisce la proliferazione di «falsi professori» e la moltiplicazione di opere «di serie B» che scompaiono al primo soffio di vento. Il problema è grande e soprattutto grave: le élites hanno perso il loro tradizionale senso di responsabilità e, quotidianamente, sono indaffarate a soddisfare un gusto o un'opinione effimera. Fatto che permette di capire ancora di più la ragione di questa sfasatura, del divario che c'è tra l'intellighenzia (coloro che hanno la possibilità e il potere di fare e di dire) e il popolo in se stesso. Negli ultimi due decenni, abbiamo visto che il sospetto colpiva e pesava soprattutto sui politici, successivamente si è rivolto nei confronti degli intellettuali. Ma, oggi, questo sospetto pesa soprattutto sui giornalisti. In quest'ottica va ricompresa e studiata la crisi dei media, perché essendo rimasti ancorati a un modello obsoleto – i grandi valori della modernità – non sono più in grado di osservare ciò che sta succedendo attorno a loro, nei microsaperi e nella vita di tutti i giorni.
Ciò che rivela il tempo
Crisi, shock economy, fallimenti personali e collettivi, esistenziali o societari, sconfitte elettorali e via discorrendo: nel discorso dei media, la parola «crisi» assume oramai la forma di un «passe-partout» attraverso cui descrivere una situazione che appare come eccezione» ma che, nella sua struttura interna, sembra più la regola delle nostre società. Marx sosteneva che il capitalismo è crisi. La sinistra sembra si sia dimenticata questa lezione, presa anch'essa in un presente totale, incapace di riflettere sulle lunghe derive della (sua) storia… Lei, però, a quello di crisi preferisce apocalisse, termine che dà il titolo a uno dei suoi ultimi lavori (Apocalisse, Ipermedium libri, 2012). Perché?
Uso il termine nella sua accezione etimologica. Apocalisse è ciò che rivela qualcosa che, fino a quel momento, era sconosciuto. Non è, pertanto, un pensiero apocalittico nel senso abituale del termine, inteso come pensiero catastrofico e catastrofista. Al contrario,
l'apocalisse è ciò che ci consente di comprendere che la fine del mondo non è la fine del mondo. Rimanendo all'idea dell'apocalisse come rivelazione, credo si debba relativizzare anche la concezione abituale di crisi. Evitando, soprattutto, di ridurla alla sua dimensione economica o finanziaria. L'apocalisse ci rivela che, in effetti, si tratta di un vero e proprio mutamento di paradigma. I grandi valori sui quali lavorava la cultura moderna – ragione, futuro – stanno lasciando spazio a un altro insieme di valori che converrà analizzare.
In questo senso, bisogna ricondurre anche il termine «crisi» all'etimologia: giudizio.
Il suo giudizio verte sul «grande scenario» dei temi mobilizzatori del nostro tempo: il presente totale, l'immanenza assoluta.
Effettivamente, credo si possa comprendere un'epoca a seconda di dove quest'epoca pone l'accento su questo o quell'altro elemento della triade temporale «presente-passato-futuro». La modernità è stata così improntata sull'idea di futuro (pensiamo soltanto alla filosofia della storia o al mito del progresso), quanto la nascente postmodernità è stata essenzialmente «presentista». Questo fatto è evidente, in particolare, per quanto concerne le giovani generazioni che, in maniera esacerbata, rifiutano qualsiasi idea di progetto, non preoccupandosi del domani e impegnandosi a «rimpatriare il godimento». Se nella tradizione giudaico-cristiana l'eternità era concepibile solo in un paradiso celeste (la Città di Sant'Agostino) o terreno (la società di Marx), ora è l'istante stesso a diventare eterno e eternamente attuale. Si è assistito a un cambiamento che fa sì che la vera vita non sia attesa, ma vissuta, bella o brutta che sia, qui e ora. Bisogna saper cogliere questo immanentismo. Coglierlo e analizzarlo, perché le conseguenze di una tale visione del mondo ci sono ancora ignote.
Lei fa spesso riferimento a «miti» e immagini capaci di provocare un radicamento dinamico…
Dovremmo ricordarci che la tradizione giudaico-cristiana fu, sulla lunga durata, essenzialmente iconoclasta. Precisamente perché le icone e gli idoli non permettevano il buon funzionamento del cervello e risvegliavano i sensi. Dai profeti dell'Antico Testamento al cartesianesimo tipico della modernità osserviamo una costante condanna, una stigmatizzazione e una marginalizzazione delle immagini. Mi pare che, in effetti, le società postmoderne vadano, al contrario, verso una sorta di iconofilia: pubblicità, televisione, videogiochi… il ritorno delle immagini si potrebbe moltiplicare all'infinito. È in questo senso che parlo di idolatria postmoderna. Gli idoli (siano essi Zidane, l'Abbé Pierre o Harry Potter) sono come tanti totem attorno ai quali le tribù si aggregano e si compongono in funzione dei gusti che le costituiscono. Gusti sessuali, gusti musicali, gusti sportivi, gusti politici e via discorrendo. Le icone traducono e trasportano al presente cose molto antiche. Questo fatto conduce a una sorta di «radicamento dinamico». Sono le radici mitologiche molto antiche, archetipali che permettono di capire le forme assunte oggi da miti di antichissimima memoria.
Communitas
Un altro confronto dal quale non si è mai sottratto, è quello col «comunitarismo» e le nuove dimensioni del «comune».
Negli anni Ottanta, ho posto l'attenzione sull'esplosione delle nostre società unificate. Tutto partiva dalla constatazione che le comunità, che avevano contrassegnato società antiche o premoderne, ritrovavano oggi nuova vitalità. Tentavo quindi di «sociologizzare» la questione – che fu alla base del lavoro di uno storico come Philippe Ariès – dell'esistenza di società spontanee, vivaci, che rappresentano l'humus essenziale di tutto la vita in società. Ma la moderna intellighenzia, obnubilata dall'universalismo illuminista e dai grandi fenomeni sociali del XIX secolo, costantemente rifiuta o condanna un tale stato di cose. Ecco spiegata la valenza prettamente negativa data, in particolare in Francia, al termine «comunitarismo». Ammettiamo però, anche a titolo di ipotesi, che una forma, un modo di vita in società non sia forzatamente eterno. E che, anche se questo porta tante cose belle e tante cose buone, la Repubblica «una e indivisibile» che fu uno slogan del giacobinismo della modernità lasci posto a un'altra forma, quella del mosaico postmoderno. Questo significa che la «Respublica» può essere l'aggiustamento delle particolarità, delle specificità locali e comunitarie. Ma la sua coerenza non è a priori, bensì a posteriori, fatto che è più difficile da pensare e da gestire. Può accadere che – e lo indico qui in maniera allusiva – alcuni siti comunitari su internet, le reti elettroniche corroborino una simile asserzione e ci costringano a ripensare la strutturazione stessa della cosa pubblica. Che cosa è pubblico, oggi?
Immunizzare la vita: si può?
Dalla società delle paure, a quella del rischio zero. La violenza cresce però nel tessuto collettivo e, al tempo stesso, viene banalizzata nel teatro dei media. Si direbbe che, mentre sale di livello, il corpo sociale si immunizza dalla violenza che ne scuote la vita nervosa, proprio grazie alla sua spettacolarizzazione. A questo proposito, lei ha parlato di unì «buon uso della violenza», in che senso?
Dal XIX secolo, nelle società europee si è assistito a un'immunizzazione della vita sociale. «Pastorizzazione» attraverso la quale si è creduto possibile evacuare il virus nella sua totalità, mettendo al sicuro vita individuale e collettiva. I lavori di Foucault e della sua scuola hanno messo a nudo la logica di questa tendenza che, dalla biopolitica, oggi culmina nell'ideologia del rischio zero. Ma le sommosse urbane, le rivolte giovanili, le ribellioni di ogni ordine e grado, il desiderio di avventura sono lì a mostrarci che in qualche modo esiste un nuovo imbarbarimento dell'esistenza.
Le società equilibrate sono sempre state quelle che hanno saputo integrare al loro interno la violenza, farne per dire così buon uso o che, metaforicamente parlando, hanno saputo omeopatizzarla. Nei paesi più civilizzati che il rifiuto dell'animalità ha condotto alle bestialità peggiori (campi di sterminio nella Germania hitleriana, Gulag nell'Unione Sovietica). Questo avviene perché c'è una sfasatura molto forte tra una vita sociale (in particolare quella giovanile) che non teme il rischio e le istituzioni politiche, mediatiche, universitarie che sopravvivono grazie al fantasma della paura e lo agitano in continuazione. Possiamo pensare che la saggezza demoniaca all'opera nei rave, nei raduni sportivi, nella molteplici effervescenze del sociale trionferà e avrà la meglio sulla paura all'opera nelle istituzioni senili e mortifere di un moderno che tarda a dileguarsi.
Immagine in copertina: Theresa Thompson
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