Fundraising

La nostra raccolta fondi? +1.255%

di Sara De Carli

La Fondazione Policlinico Sant'Orsola è una realtà bolognese che ha visto letteralmente esplodere la sua raccolta fondi: dai 350mila euro del 2019 a 4,744 milioni nel 2020. Il cuore dei loro progetti? Stare vicini al personale sanitario, con spesa a domicilio e accoglienza in albergo per i neoassunti o per chi non voleva rischiare di contagiare i propri cari. Grazie a 136 volontari incredibili

Della raccolta fondi lanciata su GoFundMe da Chiara Ferragni e Fedez per il San Raffaele di Milano, con una raccolta di quasi 4,493 milioni di euro, tutti abbiamo sentito parlare. Meno nota invece è la storia della Fondazione Policlinico Sant’Orsola, che per gli ospedali di Bologna in piena emergenza ha raccolto più o meno la stessa cifra. La Fondazione – nata nel marzo 2019 per iniziativa di nove aziende locali, che ne sostengono tutti i costi di struttura – ha visto letteralmente esplodere la sua raccolta fondi: da 350mila euro del 2019 a 4,744 milioni nel 2020, di cui 4,356 per l’emergenza. «Non avendo abitudini consolidate è stato più facile aprire nuovi filoni di lavoro», dice Stefano Vezzani, il direttore. Il 9 marzo hanno aperto il progetto “Più forti insieme” dedicato a sostenere il personale del Sant’Orsola e dell’Ospedale Maggiore. «Abbiamo offerto più di 18mila pernottamenti gratuiti in albergo per medici e infermieri neoassunti che non avevano una sistemazione e per quanti non potevano o non volevano rientrare a casa per paura di contagiare i propri cari. Abbiamo garantito oltre 15mila corse di taxi a 1 euro per recarsi al lavoro in sicurezza, abbiamo consegnato 823 spese a domicilio e affittato 15 bilocali per l’isolamento del personale contagiato…», spiega Vezzani.

«Siamo una start up con alle spalle un ospedale che ha 500 anni di vita», dice Vezzani. Non per nulla a Bologna il Sant’Orsola ha una notorietà seconda soltanto ai tortellini e alla Torre degli Asinelli. A dare vita alla Fondazione sono nove aziende del territorio, da Granarolo alla FAAC: «Abbiamo vissuto il nostro primo anno facendo tutto quello che riuscivamo a fare, lavorandoci in due, abbiamo messo a segno qualche progetto e una raccolta intorno ai 350mila euro destinati al miglioramento dell’accoglienza e all’assistenza dei pazienti. Abbiamo ristrutturato il day hospital oncologico, ubicato in una struttura di 50 anni fa, cambiandone il volto: oggi è un ambiente pieno di colore, di luce e verde, l’esperienza di chi ci va è totalmente diversa», dice Vezzani. Il secondo progetto avviato nel primo anno della Fondazione è la logopedia precoce per i bambini con sindrome di Down fin da subito, mentre il SSN la inizia a 4/5 anni, un terzo messo in cantiere è la ristrutturazione del padiglione della lungodegenza, con 450 posti letto, l’unico reparto dell’ospedale che ancora non ha le docce. «Tutti questi interventi sono nati da incontri aperti al personale del policlinico, cui hanno partecipato più di 190 persone, più infermieri e OSS che medici», con l’intenzione di raccogliere da loro, non dal vertice amministrativo, che cosa serviva fare per migliorare. «Il Sant’Orsola è una città, ci sono 1.400 posti letto, 5mila dipendenti, 30 padiglioni… siamo partiti ascoltando».

L’arrivo del Covid-19 rimescola le carte e i progetti, ma per chi è nato da poco è più facile reinventersi in corsa. «Abbiamo agito in modo tempestivo, e questo è stato importante, ma con due scelte chiare fin da subito: la prima, lavorare non solo per il Sant’Orsola ma anche per il Maggiore. Vivere l’emergenza a sostegno degli ospedali di Bologna, non solo del Sant’Orsola. La seconda impegnarsi a sostegno del personale. Abbiamo anche fornito DPI e attrezzature per quasi 1 milione di euro, soprattutto ecografi, strumentazione per Terapie Intensive, sistemi di monitoraggio… ma il cuore della campagna è stato l’essere a fianco di chi era in prima linea». Vezzani racconta dei 150 infermieri arrivati a Bologna in un colpo solo, da fuori regione, con la città chiusa, che non sapevano dove andare a dormire, dei tanti medici e infermieri che hanno scelto di non tornare a casa per proteggere i propri cari, della cooperativa sociale coinvolta per mettere in piedi una rete per la spesa domicilio per medici, infermieri e Oss, mentre tutti i sistemi di spesa online erano saturi, del taxi a un euro per recarsi al lavoro… «La fondazione, per quanto così giovane, si è radicata tantissimo nel cuore del personale e questo è un valore relazionale enorme».

Il 10 aprile è stato messo online il sito “più forti insieme” in cui la Fondazione rendiconta quotidianamente tutto quello che fa. Si è generato così un clima di fiducia molto forte. Una signora di un condominio di 4 palazzi ha fatto da personal fundraiser, mettendo nelle buche delle lettere di tutti i condomini un foglio che invitava a dare una mano: tramite questa raccolta fondi fatta nelle cassette delle lettere ha raccolto 1.350 euro a cui hanno aggiunto i fondi che avevano messo da parte per il corso di yoga, per arrivare a 1.500. «Siamo stati testimoni di tante iniziative di piccole comunità che si sono riaggregate nel sostenere il personale dell’ospedale”», sottolinea Vezzani. Come gli studenti di belle arti che hanno realizzato acquerelli e organizzato un crowdfunding o un ex paziente che si è inventato un braccialetto in silicone e ne ha venduti 2mila per sostenere quanti lo avevano curato.

I numeri sono questi: più di 4,7 milioni di euro raccolti nel 2020, di cui 4,3 per l’emergenza e 3.091 milioni di euro raccolti solo in marzo. Da due dipendenti, il personale è salito a 4. E se la Fondazione prima del Covid aveva 400 nomi di donatori in database oggi ne ha 20mila, con 4 donazioni al giorno a gennaio/febbraio 2020 e 14 donazioni al giorno a settembre/ottobre 2020, senza particolari campagne. «Non c’è più quella spinta donativa dell’emozione, ma le donazioni continuano ad arrivare, anche per altri progetti e non più solo per l’emergenza: se ad aprile le donazioni per l’emergenza erano il 100%, a settembre/ottobre erano solo il 16%», riflette Vezzani. «Cosa ci ha insegnato questa tempesta? Prima di tutto che noi Terzo Settore sbagliamo quando non ci rendiamo conto che davvero è cambiato qualcosa nelle abitudini dei donatori: per fare due esempi soltanto, il nostro mailing di Natale, dedicato a un progetto sui trapianti di cuore, ha raccolto davvero pochissimo dai bollettini postali mentre le raccolte Facebook per i compleanni hanno portato 45mila euro coinvolgendo anche molti pensionati».

Il grandissimo valore aggiunto portato da questi mesi difficili sono i volontari, ossia i donatori di tempo. «Abbiamo arruolato volontari per misurare la temperatura all’ingresso in ospedale… 12 ore al giorno, 7 giorni su 7. Ne abbiamo 136, alcuni dei quali fanno 3 o quattro turni la settimana da 3 ore l’uno, con un coinvolgimento fortissimo, tanto che abbiamo inserito nello Statuto la presenza di un rappresentante dei volontari nel CdA». Dai volontari è partito un progetto bellissimo, attivato qualche giorno prima di Natale: donare un libro ai pazienti ricoverati al Sant’Orsola, nella certezza che il libro è un compagno eccezionale contro la solitudine. Il progetto si chiama "Provo a dirlo con un libro". «I nostri volontari hanno creato un catalogo online con 365 libri recensiti e i pazienti possono chiedere gratuitamente un libro, che sia nel catalogo o no. I volontari vanno ad acquistarlo in libreria ed entro 24 ore lo portano in corsia. «In realtà quel che succede è che quando i pazienti chiedono un libro, un volontario riceve immediatamente un alert e attiva i volontari incaricati di andare a fare gli acquisti: il pomeriggio stesso il libro di solito è nelle mani del paziente», racconta Primavera Leggio, responsabile dei volontari della Fondazione. Sono 21 i volontari coinvolti, dall’ex libraio allo studente universitario alla maestra in pensione. Hanno già consegnato 47 i libri, fra cui anche un manuale per fare l’orto, «segno forte della volontà di pensare a dopo…».

Quando è possibile, i volontari portano il volume direttamente al paziente, mentre nei reparti più delicati il libro viene consegnato al coordinatore infermieristico: «Ci ha colpito la risposta degli infermieri, che sono sovraccarichi di compiti di compiti, pensavamo che chiedere una cosa in più e non indispensabile dal punto di vista sanitario potesse creare qualche difficoltà», sottolinea Leggio. «Invece c’è un entusiasmo forte, forse anche per il desiderio di qualcosa che somigli alla normalità, di essere attenti alle persone e non solo all’emergenza».

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Questa iniziativa va in parallelo a un’altra bella idea: ad ogni paziente che entra in ospedale per motivi che fanno presumere che resterà più di una settimana, al momento del ricovero verrà donata una copia di un classico – La casa in collina di Cesare Pavese, Emma di Jane Austen e Martin Eden di Jack London – grazie a un accordo con il gruppo Mondadori e a una donazione di Unipol e Biper. «Abbiamo già acquistato 24mila volumi, perché 24mila sono i pazienti che igni anno restano al Sant’Orsola per una degenza di più di una settimana», dice Leggio. La scommessa forte è quello del rilancio: «se i libri non si possono più prestare… si possono però regalare!».

L'esperienza della Fondazione Policlinico Sant’Orsola è fra quelle presentate nel 6° Italy Giving Report, scaricabile online a questo link e in distribuzione da lunedì 11 gennaio.

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