Nadia Terranova

«La mia bisnonna minuta e silenziosa sulla soglia di un manicomio»

di Daria Capitani

La scrittrice torna in libreria con un racconto intimo, dall’album di famiglia, che attinge alle vicende personali per abbracciare l'immaginario collettivo. Un romanzo intenso che restituisce complessità alla narrazione sulla maternità e sulla follia, con il coraggio di chi si interroga sul potere della memoria

Dell’eventualità di impazzire e dell’impossibilità di farlo. Dell’essere madre e di quei giorni dopo il parto, in bilico su un filo da cui a volte si ha paura di cadere. Di quel pudore misto a riluttanza che a volte avvolge una vecchia storia di famiglia che ha a che fare con la salute mentale. Quello che so di te, il nuovo romanzo di Nadia Terranova, parla di una memoria da preservare e di un presente che non può esimersi dal guardare in profondità dentro gli abissi del passato.

L’autrice de Gli anni al contrario, Addio fantasmi e Trema la notte torna in libreria con un racconto intimo, direttamente dall’album di famiglia, che attinge alle vicende personali con una scrittura che come un filo entra ed esce dal sé per ricucire un pezzo di vita in grado di abbracciare un sentimento collettivo. Nadia alla ricerca di Venera, la nipote alla ricerca della bisnonna. Per farlo, la scrittrice siciliana che oggi vive a Roma scava nei ricordi e negli archivi della sua città natale per restituire la vera storia degli undici giorni in cui la madre di sua nonna visse oltre la soglia del Mandalari, il manicomio di Messina. Un romanzo che ti prende e ti porta, che parla alle madri e ai padri, e a tutti quelli a cui non è stato concesso tempo per rialzarsi dopo una caduta.

Il titolo ha la stessa voce del romanzo. In cinque parole, Quello che so di te, c’è tutto: un io che dialoga con qualcuno che sente vicino.

Forse il titolo coincide così tanto con la voce del romanzo perché arriva dai versi di una poetessa, Alejandra Pizarnik, che è citata all’inizio del libro e che ne ha accompagnato l’evoluzione (“So poco della notte/ ma la notte sembra sapere di me”). Mentre scrivevo, avevo l’impressione di non sapere molto della storia che stavo raccontando, la andavo scoprendo insieme a chi mi avrebbe letto e insieme alle varie anime che l’avevano vissuta. Come se la mia antenata Venera sapesse di me forse più di quello che sapevo io di lei.

«In quel momento, dentro quel preciso nulla, nell’isolamento dell’ospedale in cui ho appena partorito, capisco cosa non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire». Alla seconda pagina del romanzo, ci porta dritti dentro il cuore del libro. La maternità e la follia: perché insieme?

Sia la maternità sia la follia interrompono il racconto convenzionale della vita. È come se aprissero delle parentesi per cui si prendono tutta la scena. Ci sono altri accadimenti anche grandi che irrompono nei nostri giorni, ma quando si parla di maternità è diverso. Sembra che una donna che è madre sia soltanto quello, raccontato sempre con degli eccessi di idealizzazioni o di mistificazioni. È così anche per la follia. Volevo che invece fosse restituita una forma di complessità e di chiaroscuro alla maternità come al tema della salute mentale.

La sua lente sull’essere madre è fuori dagli schemi polarizzati: le narrazioni performanti da un lato, l’annientamento e la fatica dall’altro (al tema abbiamo dedicato il numero del magazine di novembre). Quando scrive di maternità usa parole come “cratere”, “preghiera”, “carenze”, “eccessi”.

Per me è importantissimo che si vedano questi chiaroscuri, che non si parli di maternità soltanto in termini di depressione post partum o di idealizzazione ma che si parli della quotidianità, delle spine e della bellezza, tutto insieme, in questa lingua contraddittoria che è la maternità. Altrimenti si ricade nei doveri e nelle norme, un territorio sempre estremo che non è quello reale.

Nel suo romanzo una via d’uscita per le donne è nelle donne. Un esercizio corale che definisce attingendo allo spagnolo co-madria.

La co-madria per me è il cerchio di donne che hanno uno sguardo l’una verso l’altra e si aiutano nel tirar su i figli senza giudicarsi, senza darsi addosso, senza proiettare l’una le proprie certezze assolute sull’altra, consapevoli del fatto che ogni legame madre-figlio è una relazione. Possono stare in questo cerchio le donne che non hanno figli? Certo che possono. Possono utilizzare uno sguardo altrettanto potente, che è uno sguardo che abbiamo tutte e tutti, quello di figlie. La co-madria non è un cerchio escludente, è un cerchio di cui fa parte chi prova un affetto verso un’altra donna che si sta prendendo cura di una piccola creatura.

A un certo punto del romanzo, scrive: «Leggo di Allegra settant’anni dopo la mia bisnonna, e penso che la pazzia delle donne cambia pelle e qualche dettaglio, non carne». La nostra società declina la follia al femminile?

Mentre scrivevo pensavo a quanto piace ad alcuni uomini la narrazione della donna pazza e schiacciata, della musa che si consuma, della donna distrutta, malata. È una narrazione di cui dobbiamo liberarci.

Io penso sempre alla crepa da cui entra la luce. Quando si tocca il fondo, da qualche parte, in mezzo a tutto quel buio, tra tante scosse si aprono delle crepe. E da una di quelle arriva la luce

Nadia Terranova

C’è una moltitudine di ieri dentro a questo romanzo. Non sempre al femminile. «Volevo credere che la mia fosse una storia di madri […] mi illudevo di lasciare i padri fuori dalla mia storia». E invece no, nel romanzo anche i padri impazziscono. Perché è importante oggi rimettere i padri al centro?

Abbiamo bisogno di capire i padri, abbiamo bisogno di raccontarli e abbiamo bisogno della loro presenza nelle nostre vite. Attenzione, però. C’è un’insidia. Occorre vigilare affinché il discorso sui padri non sminuisca il materno, che è un grande potere. Dire che i padri devono assumersi la responsabilità del paterno non significa dire che la loro funzione è uguale a quella delle madri. Le differenze mi stanno a cuore e sono anche una fortuna.

Nella vicenda che guida il racconto, il disturbo psichico appartiene alla sfera che ha chiamato “Mitologia familiare”, un certo modo di omettere o cambiare i contorni di ciò che è accaduto per renderlo più accettabile. Il marito della bisnonna «crede che tutto il mondo lo stia guardando […] pensa che non c’è niente di peggio che vivere in una casa con le pareti di vetro». La diagnosi, che negli archivi del manicomio, viene chiamata “psicosi istero-nevrastenica”, nella Mitologia familiare diventa “esaurimento nervoso”. Un tempo mancavano le parole? Oggi abbiamo un nuovo glossario o mancano ancora parole?

Io credo che le parole per raccontare la follia siano molto cambiate nella psichiatria, a partire dalla parola isteria che è scomparsa. Credo che un tempo mancassero le parole e che mancasse anche il coraggio. La legge Basaglia è stato uno spartiacque importante da cui non possiamo prescindere. Oggi le parole le abbiamo quasi tutte ma forse ci manca ancora un po’ di coraggio.

«Non posso non pensare», scrive, «che, in mezzo a un invincibile dolore, si possa per sbaglio o di nascosto essere anche felici». Qual è la strada che conduce chi cade, o soffre, verso la felicità?

Io penso sempre alla crepa da cui entra la luce. Ci ho pensato spesso in tutti i miei libri. Quando si tocca il fondo, da qualche parte, in mezzo a tutto quel buio, tra tante scosse si aprono delle crepe. E da una di quelle arriva la luce.

La foto in apertura è di Matteo Casilli

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