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La lezione di Borgna: fare comunità nella crisi

di Riccardo Bonacina e Marco Dotti

Lo psichiatra novarese, promotore di una psichiatria dell'interiorità, è mancato oggi all'età di 94 anni. Pubblichiamo un dialogo inedito avuto con lui dieci anni fa in cui racconta le sue scelte e le sue letture. Da leggere

«Studiare la mente è stata la missione della mia vita». Lo ripeteva sempre Eugenio Borgna, psichiatra, docente e psicoterapeuta, saggista e punto di riferimento, con Basaglia, della Riforma della psichiatria. È mancato oggi nella abitazione di Borgomanero, in provincia di Novara, all’età di 94 anni.  

Lo psichiatra è stato per tutta la vita grande sostenitore di un approccio che si concentra sulla cura dell’uomo e non del sintomo, nel rispetto della persona. Fin dai primi anni ’60 ha adottato metodi all’insegna del dialogo e dell’ascolto empatico del paziente psichiatrico, non soggetto ad alcuna forma di coercizione, contenzione o imposizione, sperimentando così, per la prima volta in Italia, una nuova maniera di accostarsi alla malattia psichiatrica, più umana, rispettosa e comprensiva del dolore del paziente. L’enciclopedia Treccani, definisce giustamente Borgna “il promotore di una psichiatria dell’interiorità“.

Per noi di VITA è sempre stato un maestro, un fratello maggiore a cui rivolgerci quando avevamo bisogno di capire.

Nel dicembre 2013 con Marco Dotti lo raggiungemmo nel suo studio di Novara per un lungo e bellissimo dialogo sul “Fare comunità nella crisi” come progetto di un libro che poi non vide la luce. Un dialogo prezioso, che ripercorre le tappe della sua vita e le sue letture, e che oggi pubblichiamo anche come suo lascito ai costruttori di comunità.

Comunità di destino

Nella crisi che sta travolgendo il nostro mondo, irrigidendolo in forme sempre più lontane dalla vita, il pericolo corre su superfici lisce e globali. Al tempo stesso, però, questo pericolo ha ricadute verticali, profonde. Che cosa resta da fare? Forse nient’altro che rompere quelle forme, facendo comunità, andando verso ciò che il sociologo Ulrich Beck ha chiamato una «comunità esistenziale di destino»? È in questa comunità che dobbiamo sperare?

Eugenio Borgna: Se soffri, se stai male, se hai bisogno, istintivamente sceglierai chi ha conosciuto il dolore e convissuto con la sofferenza, forse con la tua stessa sofferenza. Questo andare verso l’altro, facendosi accogliere e al tempo stesso accogliendolo, questo sfiorare l’altro in uno sfiorarsi di destini, questa scelta istintiva, con tutta la sua carica di docile potenza, deriva dal fatto che solo una persona che ha attraversato il territorio oscuro dell’anima potrà comprenderci e aiutarci nei momenti di caduta. Come ha scritto lo psichiatra tedesco, Kurt Schneider, non dovremmo spaventarci «dell’ansia, dell’angoscia, della tristezza, che in determinati momenti nascono e non possono non nascere in noi, spaventiamoci, piuttosto, quando questa angoscia, questa disperazione non l’abbiamo mai conosciuta». È in questa condivisione che nasce il senso della cura. Ma non c’è cura, senza utopia, più propriamente senza apertura al mistero. Il grande scrittore e poeta tedesco Robert Musil ha scritto che l’utopia è la vera realtà perché racchiude la dimensione dell’indicibile che vive in noi. Una dimensione che entra prepotentemente in scena, quando abbiamo a che fare con quelle esperienze di pericolo che toccano il cuore stesso del nostro destino. Ecco perché ciò che spesso denominiamo “comunità di cura” si può comprendere e acquista un senso proprio nella misura in cui diventi una comunità di destino, per cui il destino di chi soffre è in qualche modo il nostro destino.

Molti versi di Emily Dickinson esprimono questo concetto, in un’incredibile risonanza tra pensieri e aperture poetiche sulla comunità, la cura, la fratellanza e, appunto, il destino. «Forse sarei più sola, senza la mia solitudine», scriveva Emily Dickinson. Eppure, proprio lei, la solitaria che trascorse gli anni migliori dell’esistenza a Amherst, senza mai uscire dalla propria stanza, ha perimetrato con forza mistica altezze e abissi di quella comune paura che sa volgersi in umanissima speranza. La Dickinson ha scrutato la solitudine – la Loneliness, così la chiama –  attraversandola in tutte le sue polarità esistenziali e emotive. La solitudine come apertura al mistero, come ricchezza, e salvezza certamente. Ma anche la solitudine come abisso, come pericolo. La solitudine – scrive – è qualcosa «che non si osa sondare e che si vuole indovinare per stabilirne la misura». La solitudine. «la cui peggiore paura è vedere se stessa».

La solitudine come risonanza affettiva attraversa l’arco dell’intera vita di questa donna che per vent’anni – dal 1866 al 1886, anno della sua morte – visse in reclusione volontaria nella casa paterna, osservando il mondo da dietro la porta della sua stanza. Le sue parole ci interrogano, interrogano il nostro mondo, così come la sua solitudine e il suo destino interrogano le nostre solitudini e i nostri destini. Le sue parole ci legano a lei, come ponti gettati tra due rive.  

La Dickinson ha mostrato, con immagini potenti e delicate al tempo stesso come sia possibile perdersi anche nei pochi metri di una stanza, quando la perdita del centro e dell’io sconfina nell’angoscia di ogni punto di riferimento esistenziale.

Elias Canetti diceva che, a volte, quando «cade un nome in questo spaventoso deserto ogni granello di sabbia fiorisce». Stiamo facendo dei nomi, citando dei versi. Ma in un nome, in un’immagine, in certi versi talvolta si sente qualcosa di incredibilmente unico e, al tempo stesso, di incredibilmente comune. È come se in quei nomi annunciassero il desiderio di un ritorno a casa. La parola sembra il modo forse più diretto per unire esistenze altrimenti divise. Unirle attraverso la necessità, facendo provare agli uomini il bisogno di conoscersi reciprocamente per poter sopravvivere.

Eugenio Borgna: Quando nei primi anni della mia esperienza, da Milano arrivai a Novara, mi trovai letteralmente gettato in un ospedale psichiatrico dove le donne ospiti venivano considerate prive di ogni capacità di “comunità” e gentilezza, ma solo di implicita aggressività o esplicita aggressione. Scoprii che quelle donne coltivavano, invece, dentro di sé straordinarie attitudini ad ascoltare, a chiedere aiuto senza parlare, con linguaggi che aprivano istintivamente arcobaleni e orizzonti inattesi. Dentro la sofferenza critica si nasconde infatti la nostalgia di un passato che dava loro comprensione e accoglienza. Ma al tempo stesso, in quella sofferenza c’era una sorta di aurora muta di speranza. Speranza che si è lasciata intravvedere solo quando infermiere, suore e psichiatri hanno cambiato radicalmente il pregiudizio che avevano sulle loro “pazienti”. E il pregiudizio che avevano su una follia considerata come mancanza di senso o emblema di violenza che si trasmetteva di paziente in paziente. Solo creando nuclei di colloquio, a volte colloquio nel silenzio, questa aurora si lasciava intravvedere. Perché le parole – come ha magistralmente scritto Franco Basaglia – quando si sta davvero male, rappresentano un rischio grandissimo. Perché è quasi impossibile non entrare, attraverso le parole, in collisione con chi è sprofondato in abissi di sofferenza senza fondo. Allora soltanto il silenzio, soltanto questa comunità inespressa di volti e di destini riesce a costruire con chi sta male dei ponti che fanno di monadi completamente chiuse e con le finestre sbarrate, delle monadi con le porte aperte.

Abbiamo bisogno di parole “ponte”?

Eugenio Borgna: Ricordiamo anche altre parole, stavolta di Martin Heidegger proprio sulla figura densa e intensa del ponte:  «Il ponte si slancia “leggero e possente” al di sopra del fiume. Esso non solo collega due rive del fiume. Esso non solo collega due rive già esistenti. Il collegamento stabilito dal ponte – anzitutto – fa si che le due rive appaiano come rive. È il ponte che le oppone propriamente l’una all’altra. (…). Il vecchio e poco appariscente ponte di pietra che traversa un piccolo corso d’acqua dà il passaggio al carro del raccolto che va dalla campagna al villaggio, e conduce il carico di legname dal sentiero di campagna alla strada principale. Il ponte d’autostrada è una maglia della rete delle grandi correnti di traffico, rette dal calcolo e dal principio della massima rapidità. In ognuno di questi casi, e in modi sempre diversi, il ponte conduce su e giù gli itinerari esitanti o affrettati degli uomini, permettendo loro di giungere sempre ad altre rive. Il nostro pensiero è abituato da sempre a stimare troppo poco l’essenza della cosa. Il ponte è una cosa di tipo particolare. Il luogo non esiste già prima del ponte. Certo anche prima che il ponte ci sia, esistono lungo il fiume numerosi spazi che possono essere occupati da qualcosa. Uno di essi diventa a un certo punto un luogo, e ciò in virtù del ponte. Sicché il ponte non viene a porsi in un luogo che c’è già, ma il luogo si origina solo a partire dal ponte».

Soltanto se procediamo in un’operazione continua su noi stessi, in un continuo lavoro dentro noi stessi riusciamo ad aprire quelle porte fuori di noi. Soltanto se rimettiamo in discussione continuamente noi stessi, noi e le tradizioni che ci portiamo addosso, le memorie, i saperi filosofici, pratici e teorici che possediamo possiamo riattivare quel processo di costante cambiamento che è presupposto necessario per rompere un assedio altrimenti senza fine. Solo così un mondo apparentemente chiuso, sbarrato si può aprire. È un mondo di un dolore che può essere quello della follia, ma non solo. Può essere il mondo dell’esclusione, dell’indifferenza, della globalizzazione feroce, della crisi. Può essere anche solo il mondo di un mendicante che ti passa davanti e tu non riesci nemmeno a salutare, ad accogliere, ad ascoltare. Perso – lui – negli abissi profondi della sua speranza negata dalla – nostra – indifferenza. Una speranza negata, certo, ma pronta a risorgere se incontrasse sguardi, incrociasse destini, non solo gesti o mancanze di gesti. Queste parabole agoniche, io le ho incontrate così palpitanti di vita soltanto quando, provenendo dalla clinica psichiatrica universitaria – dove i pazienti erano vissuti come mummie senza vita e senz’anima – sono arrivato a Novara. Aiutato da suore e infermiere – che, dal punto di vista della sapienza pratica ne sapevano molto di più di noi che avevamo letto i testi di Karl Jaspers e Ludwig Biswanger – ho scoperto questa importanza dello sguardo, della pazienza, dell’attesa. Del dialogo nel silenzio. Perché in fondo si è costruttori di comunità di destino, soprattutto quando ci si libera dalle grandi costruzioni psichiatriche e filosofiche, entrando in sintonia con la frequenza d’onda del cuore. Un cuore pascaliano, un cuore dell’intuizione che, trasformando noi stessi, ci aiuta a trasformare gli altri. Un cuore che riapre questo ponte interrotto che la sofferenza ha posto attorno a sé. Ma che lo riapre soltanto quando chi sta male e in chi sta male (si) coglie soltanto qualcosa di lieve, come un sorriso o una lacrima.

Ciò che spesso denominiamo “comunità di cura” si può comprendere e acquista un senso proprio nella misura in cui diventi una comunità di destino, per cui il destino di chi soffre è in qualche modo il nostro destino

Eugenio Borgna – psichiatra

Le  lacrime ci rivelano ciò che nell’uomo tace… scrive San Francesco di Sales in Traité de l’amour de Dieu. Lui vede nelle lacrime uno stadio intermedio tra il dolore e l’amore puro. «Fra le tribolazioni e il rammarico di un vivo pentimento, Dio pone molto spesso in fondo al nostro cuore il fuoco sacro del suo amore. Questo fuoco si trasforma poi nell’acqua di molte lacrime e, attraverso una seconda metamorfosi, queste lacrime si mutano in un altro gran fuoco d’amore».

Eugenio Borgna: Soltanto quando si velano di lacrime, come scriveva Hermann Broch, gli occhi ci consentono di cogliere l’invisibile e l’indicibile dell’altro e del mondo in cui viviamo. Costruendo quindi, in qualche modo, inedite, impensate, inimmaginate e inimmaginabili comunità di destino possiamo avanzare e riaprire valichi, strade e ponti. Comunità di destino: ovvero associazioni invisibili, legami tra i cuori (cuore è del resto una grande parola biblica). Comunità che si costituiscono solo dopo che nei cuori di chi le partecipa nasca la percezione presaga delle grandezze e delle speranze che esistono nel proprio cuore e nel cuore degli altri. Comunità di destino, quindi, come infiniti modi di suscitarla, ma anche come moltiplicazione di infiniti modi per spegnerla, per ucciderla – ed è facilissimo. Dove c’è il pericolo, scriveva Hölderlin, là c’è ciò che salva.

Questa è forse l’esperienza peculiare della crisi: la vita umana che si rivela come territorio della possibilità, anche delle possibilità di un incontro?

Eugenio Borgna: Dentro la fondazione e dentro la definizione di comunità di destino gli splendori delle scienze esatte si oscurano. Si salvano però certe mete, certi ideali che a modo loro tentano di fare emergere i legami, creandoli magari dal nulla attraverso una condivisione, mai un’imposizione. È la magia e il mistero – tutti umani, tutti evidenti – di una comunione e di un comune sentire, che qui chiamiamo destino e che prima di un incontro, prima di uno sguardo nemmeno esistevano. Al tempo stesso è una creazione istantanea di progetti che possono apparire insensati, se soppesati al freddo calibro della ragione calcolante, ma che calati dentro le ragioni profonde del cuore si caricano di senso. Quel senso che è, in fondo, la ricerca dell’umano, anche nello sguardo di chi ci dicono e, talvolta, in forma reattiva vorremmo illuderci umano non fosse. Solo lungo il sentiero che corre lungo gli abissi dell’illusione di creare ideologia ed esclusioni attraverso la cultura, cogliendo invece ciò che fa di una persona apparentemente senza alcuna cultura un soggetto nel senso pieno del termine, ecco solo lungo questo sentiero si intravede la costituzione al tempo stesso fragile e potente della comunità che abbiamo chiamato di destino. Dolori, fallimenti, cadute, silenzi, gioie, speranze, vibrazioni sono tutte parti di un percorso di vita che presiedono al sorgere di una comunità di questo tipo. Non ci sono patti di sangue, ma sguardi. Al netto delle condizioni ambientali e economiche, che però influenzano spesso solo negativamente la nascita sorgiva e spontanea di questo legame invisibile e indicibile che sta a fondamento dello scambiarsi e del renderci partecipi in qualcosa di comune che oltrepassa la nostra storia personale, siamo noi, nel lavoro su di noi, e oltre di noi gli artefici e al tempo stesso gli oggetti di questo accadere. La comunità di destino accade e sorge dall’incontro, non dallo scontro.

Deserti del senso

Oggi, che abbiamo forse più coscienza del deserto di senso in cui ci troviamo, vorremmo fare e incontrare ma le condizioni sembrano impedircelo, favorendo al contrario lo scontro. Condizioni non solo finanziarie e economiche globali, ma anche di burocrazia, di vincoli, di regolamenti e carte. Tutte cose che si frappongono tra il cuore dell’uomo e il suo desiderio – e li mortificano. Forse dovremmo essere più anarchici, riuscire a sottrarci ai mille schermi che si frappongono come uno schermo tra noi e le radici del nostro desiderio.  La crisi è certamente un problema, ma che cosa è un “problema”? Porsi un problema, significa porsi davanti agli occhi qualcosa, non nasconderlo. Né agli altri, né a sé. Esattamente quanto chiede Salomone a Dio: dammi un cuore umile, che sappia distinguere tra il bene e il male.

Eugenio Borgna: Dammi un cuore che sia libero dall’indifferenza. Perché posso anche conoscere tutto quello che avviene in me, posso anche cogliere ciò che mi unisce a chi, mendicante, per strada, folgorato dalla vita stende una mano che io non accolgo. Posso anche essere dotato di questa conoscenza che è conditio sine qua non per capire qualcosa sociologicamente o filosoficamente della vita, se però insieme a questo uso lo schermo gelido dell’indifferenza che non va al cuore del senso, ma offre soltanto il ritorno istantaneo che hanno sul mio io, in quello che è il mio benessere, nemmeno qui alcuna comunità di destino può sorgere. Non parlo solo di interesse, ma di benessere: perché ci si può “stancare” dell’altro, anche perché è ci si può stancare di sentire, di partecipare, soffrire, di consumare in qualche modo questa ricchezza interiore. Perché apparentemente questa ricchezza interiore si consuma, anche perdendo tempo. Ma cosa saremmo se non perdessimo tempo, con gli amici, con gli sconosciuti, con la gente che ci chiede tempo, non per vampirizzarlo, ma perché è una necessità esistenziale, quella del dialogo? Molti psichiatri pensano che sia una mera perdita di tempo parlare con una persona che sta male e che, con dei farmaci, potrebbe guarire. Potrebbe, ma non guarisce se, accanto ai farmaci, c’è questa “perdita di tempo” – l’ascolto. Ascoltare l’altro, ascoltarne il discorso insensato, ascoltarne i deliri, ascoltarle le allucinazioni è considerato indegno, da una gerarchia psichiatrica che si ritiene portatrice sana di ragione. Ma non si può spezzare la melagrana in due parti secche con tanta superficialità. Da una parte la cultura, la superiorità, l’umanità. Dall’altra la sconfitta, la follia, la povertà, a volte anche l’aggressività che, però, non sempre è un fenomeno patologico, ma talvolta è un meccanismo disperato di difesa. Credo che riusciremo a rompere questo giogo perverso soltanto se avremo la coscienza ferma, decisa, precisa che dobbiamo sfuggire all’indifferenza e alla semplificazione della melagrana spaccata. Per farlo ognuno deve guardare dentro di sé, ma sapere anche che guardare dentro di sé costa. La conoscenza di sé si infrange sugli scogli di una visione del mondo fatta di indifferenza non solo come rifiuto, ma anche come modo per scansare il dolore e la fatica che il lavoro su di sé comporta. Certe grandi esperienze – penso a don Zeno a Nomadelfia – sono comunità di destino conquistate a caro prezzo. Costa, il lavoro su di sé, costa lavorare a stretto contatto col dolore, la rassegnazione, il silenzio. Ma è lì, nelle intermittenze del cuore, che qualcosa accade. E dentro certe immagini, come quella della comunità di destino, esplodono mille sentieri che ci portano a riflette cioè a flettere in noi il reale. Un reale a cui siamo abbandonati ma nel quale dobbiamo far sorgere la speranza a cui ci chiama il dolore degli altri. Un richiamo a cui non possiamo sfuggire. Un reale che dobbiamo esplorare se vogliamo essere rigorosi, non solo se vogliamo essere cristiani, ma se vogliamo essere semplicemente onesti con noi stessi, perché si può anche essere prigionieri di vite tranquille. Ma se non scendiamo nel cuore di una percezione etica delle cose che deve diventare anche relazione, come quella di destini che si rispecchiano invisibilmente, ecco che forse perdiamo il senso profondo della vita.

Riscoprire la pazienza

Al fondo di questa percezione etica, potremmo riscoprire il fatto che dall’uomo, anche in tempi ostili, ci si può sempre attendere l’inatteso. L’insondabilità e la sorprendente unicità del suo agire sembrano accordarsi quasi per miracolo con la capacità di marcare la vita anche con gesti minimi o con piccole intermittenze dell’esistenza e del cuore. È con i suoi  “sì” e i suoi  “no”, spesso pronunciati sottovoce, talvolta appena sussurrati che l’uomo cerca di ri-radicarsi in un mondo dal quale la tecnica, la finanza, la globalizzazione lo vorrebbero sradicato per sempre.

Eugenio Borgna: In questo momento, dove strategie di globalizzazione, di comunicazione, di complessità mettono il mondo sotto pressione, anche parole bellissime, anche le buone e belle intenzioni possono offrire soltanto degli orizzonti che sappiamo poi che non si realizzeranno e non si concreteranno nell’incarnazione di comportamenti nostri e di coloro che ascoltano. Tutto si fa difficile, anche agire. Eppure, partendo da quella cellula originaria che è la partecipazione, la relazione, il destino di perdita e di angoscia che dovremmo vivere con gli altri, qualcosa è possibile. Qualcosa di fragile e potente, come esili vite che si piegano, ma che – come la Palma di una poesia Paul Valéry – sanno dare improvvisi frutti. Vite che scavano, attendono, sperano. Occhi che sanno guardare in altro, verso l’azzurro e mani che sanno affondare nella terrà, là dove stanno acqua e radici.

Scrive Paul Valéry:

Giorni che ti paiono vuoti

E perduti per l’universo

Hanno radici avide

Che affaticano i deserti.

La sostanza barbuta

Dalle tenebre eletta

Non si può smettere mai,

Fin nelle viscere del mondo,

Di cercare l’acqua profonda

Che le cime ci domandano.

Pazienza, pazienza,

Pazienza nell’azzurro!

Ogni atomo di silenzio è

La sorte di un frutto maturo!

Questa palma è un’immagine straordinariamente densa, radicata ma libera di comunità di destino. Valéry mette però l’accento su quel misto di attesa e attenzione che chiama “pazienza” – «Patience, patience, / Patience dans l’azur!» – e suona alquanto strana nella nostra società, segnata da un’indigenza nuova. Radici avide, dice ancora Valéry, una definizione perfetta per indicare come il nostro desiderio debba lavorare.

Il passaggio dal pensiero alla sua concretizzazione nel mondo richiede tempi lunghi. Richiede pazienza. Viviamo in un mondo che ha troppe certezze, troppe sicurezze, troppe corazze. Un mondo che non sa più guardarsi dentro, lacerato e ferito mille e mille volte, ma che non sa più provare dolore. Dobbiamo attraversarlo, come si attraversa un deserto, sicuri che alla fine si troverà un campo fiorito. Nessuno avrebbe mai attraversato un deserto, senza questa speranza che diviene certezza. Nonostante i miraggi della televisione, nonostante le terribili forze scatenate dalla crisi, nonostante questa globalizzazione cruenta e feroce. Nonostante questo deserto in cui ci troviamo, noi lo attraverseremo. È il nostro destino.


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