Chiara Boroli e Marcella Drago

«La filantropia secondo noi»

di Giampaolo Cerri

Presidente e segretario generale della Fondazione De Agostini, nata in seno a una storica famiglia industriale, quella che ha dato vita all'omonimo gigante dell'editoria con base a Novara. Raccontano a VITA perché decisero di dare una forma precisa alle varie attività a sostegno di associazioni e volontariato che il gruppo aveva già intrapreso. Dalla rigenerazione urbana all'inclusione sociale, con un investimento annuo di circa 1,5 milioni di euro

Questa intervista fa parte di una serie di ritratti di filantropi, proposta nel magazine di aprile, intitolato Fondazioni Spa, un vero rapporto sulla filantropia corporate in Italia, e che potete ancora acquistare qui. Di seguito la versione estesa.

De Agostini è uno dei marchi più popolari d’Italia. Generazioni di Italiani hanno studiato sui suoi immaginifici atlanti geografici o hanno composto, con pazienza, enciclopedie a fascicoli. Altre, più giovani, hanno divorato libri per ragazzi, narrativa, viaggi.

Novara, la dinamica città piemontese ai confini con la Lombardia, è stata per anni nota per essere soprattutto la città di questa corazzata del sapere. Un gruppo – che nel tempo ha diversificato le proprie attività di business – da sempre espressione di una famiglia, i Boroli-Drago, che lo guida dal 1919. Dal 2007, però, al nome di De Agostini è associata anche una fondazione di impresa e di famiglia, una delle più dinamiche e con un’erogazione o un investimento annuale rilevante, 1,5 milioni, che lo statuto stesso, voluto dal presidente emerito del Gruppo De Agostini Marco Drago, impegna all’utilizzo completo. Incontriamo Chiara Boroli (a sinistra nella foto di apertura, ndr), che è stata il primo segretario generale e che oggi è la presidente, assieme al segretario generale attuale, Marcella Drago (a destra nella foto, ndr), nel bel palazzo del Gruppo, praticamente dinnanzi all’Accademia di Brera a Milano.

Presidente Boroli, cosa vi ha spinto a creare la fondazione?

C.B. L’idea di Marco Drago, presidente di De Agostini nel 2007, era stata di un impegno del Gruppo: costituire una fondazione che avesse un patrimonio proprio e una propria disponibilità di erogazione, che comunque dipendesse dall’azienda, dalla capogruppo, e che potesse restituire al territorio parte del valore generato dal Gruppo De Agostini. Un’idea condivisa da tutta la famiglia al 100%.

Vi dedicaste a che cosa?

C.B. Al mondo della disabilità infantile, sui cui c’era stato in precedenza un impegno importante della nostra famiglia.

C’era un motivo particolare?

C.B. C’era un’attenzione fin dagli anni ’90 in azienda, rispetto a un’associazione di Novara, che avevamo sostenuto, aiutato anche a crescere e a modificarsi. La disabilità era, in quegli anni, un tema molto sentito e c’era un’attenzione forte sulle nuove forme, come l’autismo. Una scelta di famiglia, direi, ma anche aziendale di concentrare, in una fondazione, tutto quello che prima era gestito come erogazione liberale. Volendo in questo modo razionalizzare gli interventi per renderli più efficaci, affacciandosi su un mondo che era poco evidente, poco organizzato. Il legame con tutto il Gruppo e con la famiglia è stato da subito molto stretto.

Azienda, famiglia, fondazione: come stanno insieme questi tre elementi?

C.B. La famiglia ha costituito la fondazione legandola indissolubilmente all’impresa. Naturalmente la fondazione è indipendente dalle scelte dell’impresa e opera in autonomia, con un proprio consiglio, che riferisce alla holding.

Di questo inizio, custodisce un ricordo particolare? Un’immagine?

C.B. Era marzo del 2007, c’erano molti aspetti burocratici da sbrogliare e di questo Terzo settore non conoscevamo quasi nulla, salvo che le sue linee fondamentali: è stato un affaccio a un mondo nuovo. Tant’è che abbiamo voluto, soprattutto all’inizio, confrontarci con tante altre fondazioni, come prima cosa. Abbiamo chiesto di capire gli altri. Sin dalla sua costituzione abbiamo poi aderito ad Assifero, l’Associazione italiana delle fondazioni e degli enti filantropici, di cui oggi sono vicepresidente vicario e che è stata per noi un punto di incontro davvero importante.

Lei che esperienza professionale aveva?

C.B. Quando Marco Drago mi chiese di occuparmi della fondazione, ero stata, fino ad allora, la responsabile delle relazioni esterne del Gruppo, dopo aver ricoperto varie posizioni in varie aree: praticamente dopo la laurea ho sempre lavorato in De Agostini.

E anche la fondazione ha quindi fatto la sua gavetta.

C.B. In un certo senso. Come accennavo, abbiamo costruito un rapporto con le più importanti fondazioni dell’epoca, per capire, come muoversi. Per capire e confrontare meccanismi, direzione da prendere. Per esempio, abbiamo escluso di dover lavorare per bandi ma di ragionare sempre per conoscenza diretta delle problematiche e delle realtà da coinvolgere. Relazionandosi con i propri territori, a cominciare da Novara e Milano. Da allora siamo andati avanti così, selezionando via via i partner, tendenzialmente scegliendo sia i progetti che ci vengono sottoposti, sia le associazioni o gli enti con cui collaborare.

Che valutate voi?

C.B. Sì, avendo il background aziendale di De Agostini, abbiamo pensato subito di averne le capacità. Il che ha significato, a rovescio, fornire ai nostri interlocutori di Terzo settore, non solo un aiuto economico, ma anche una collaborazione attiva. La nostra logica è sempre stata nel mettere le basi di una collaborazione, offrendo anche l’esperienza per valutare i progetti non tanto ex-post ma ex-ante. Per esempio…

Per esempio?

C.B. Per esempio uno dei nostri primissimi interventi fu a favore di Fondazione Cometa di Como, allora associazione (la realtà impegnata nell’accoglienza di minori, ndr), insieme alla Fondazione Oliver Twist. C’era da realizzare una scuola professionale, a cui donammo 500mila euro, a fronte di un budget annuale di allora, che era di 1 milione: fu un investimento rilevante e “di cuore”, ma appunto la conoscenza approfondita del progetto e di quelle realtà, che riuscimmo stabilire, fu decisiva.

Veniamo al vostro assetto: vi siete dati una policy sulla separazione rispetto al business aziendale?

C.B. Soprattutto alla nascita della fondazione, uno dei temi era appunto separare l’attività della fondazione dai libri e dalla cultura che erano il cuore delle attività di De Agostini e dagli altri ambiti in cui il Gruppo operava.

Marcella Drago: Quello spirito oggi si riflette nel consiglio di amministrazione della fondazione, composto da nove consiglieri: sei sono persone di famiglia, incluse Chiara e la sottoscritta, e tre sono indipendenti. Non ci sono cioè manager delle aziende.

Invece il modello adottato è sempre stato questo, sin dall’inizio, o avete aggiustato il tiro nel tempo?

M.D. Oggi non facciamo solo esclusivamente erogazione, lavoriamo sulla formazione, nelle scuole, con progetti “nostri”, che chiamiamo “operativi”, e che all’inizio non avevamo. Una volontà che è emersa nel tempo, un nuovo corso iniziato con la nostra “CasaVacanze Anna e Giuliana Boroli Drago”.

C. B. Si tratta di una casa ad Armeno, sul Lago d’Orta, che la famiglia ha donato alla fondazione. Ristrutturata, è diventato, durante l’anno, un luogo di vacanze per bambini, attraverso alcune associazioni. È stato il primo progetto “nostro”. Un’attività che è ripresa anche dopo il Covid, con progetti nell’ambito dell’educazione e della formazione.

Il Covid ha provocato una riflessione generale, anche dentro le aziende. È stato così anche per voi?

M.D. È stato un momento che ci ha messo in pausa tutti e anche una fase di profonda riflessione. Il pensiero è andato ai bambini, perché tutti abbiamo compreso, quanto disagio avessero causato la chiusura della scuola e poi la didattica “a singhiozzo”. Nel contempo, abbiamo dovuto rivalutare la comunicazione a distanza, che ci ha fornito anche lo strumento per poter creare progetti in ambito digitale, uscendo dai nostri territori e arrivare così in luoghi lontani.

Anche se sui territori restate, ricordo un grande intervento di rigenerazione urbana a Novara.

C.B. Sì nel 2017, per i nostri 10 anni, abbiamo cominciato a lavorare col Comune, individuando un quartiere periferico e popolare, quello di Sant’Andrea. Un intervento di ricostituzione di verde pubblico e di aree sportive, che abbiamo inaugurato a settembre del 2019, con un patto di collaborazione con tutte le associazioni del territorio e con una serie di modalità di intervento, in modo che ci fosse proprio un coinvolgimento attivo della popolazione.

Com’è il rapporto col Terzo settore? Faticoso? Vi aspettereste di più? Ci sono dei desiderata del filantropo nella collaborazione col non profit?

M.D. Il progetto di cui parlava Chiara, a Novara, ne è un esempio virtuoso di collaborazione, non solo con il Terzo settore, ma anche con le Istituzioni e quindi con il pubblico. E mettere insieme questi tre soggetti non è facile, è una sfida complicata. Anche perché talvolta i tempi sono diversi e occorre trovare una sintonia.

In tema di programmazione, che scelte fate?

M.D. Nella gestione operativa, quella dei progetti propri, iniziamo con un “pilota”, che assestiamo e facciamo crescere nel tempo. Se ci accorgiamo che funziona, diventa un programma. Non ci piace la logica del “solo progetti”, ma cerchiamo di avere una visione a lungo termine. Sull’erogazione abbiamo risposto alle emergenze, perché ce ne sono state, ma lavoriamo e programmiamo nei nostri ambiti: la disabilità prima e dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, più recentemente.

I dipendenti De Agostini? Riuscite a coinvolgerli?

C.B. In un primo momento, all’insegna di una riservatezza forse molto piemontese, abbiamo cercato di non metterci in mostra anche verso l’interno, verso i nostri collaboratori. Una riservatezza che voleva dire: fare prima e poi comunicare. Un modus operandi famigliare, dei nostri genitori, dei nostri nonni, praticamente un leit-motiv. Così abbiamo iniziato in sordina, anche rispetto all’azienda. Consolidata poi tutta una serie di progetti e ricevuti anche molti riconoscimenti esterni, abbiamo deciso di rapportarci anche al Gruppo.

M.D. Lo scorso anno e quest’anno, abbiamo proposto il progetto “1+1 = 3”, col quale intendevamo che l’unione fra l’azienda e i dipendenti potesse dare un risultato più importante della semplice somma.

E come è andata?

M.D. I dipendenti di tutte le società del Gruppo ci hanno proposto progetti negli ambiti in cui la fondazione opera, l’anno scorso la disabilità, quest’anno l’inserimento lavorativo di persone con fragilità. Il budget relativo è stato messo a disposizione per metà dalla Fondazione e per metà dalle aziende del Gruppo. Progetti che la fondazione ha valutato, individuando una short list, nella quale di nuovo i dipendenti hanno votato il progetto da sostenere.

Favorirà anche l’appartenenza verso la fondazione. Ne avete riscontro?

M.D. Sì, già l’anno scorso, abbiamo avuto molti progetti di qualità: significava che le persone ci hanno messo del tempo. E la partecipazione è cresciuta. Sulla disabilità, è stata individuata, a Milano, PlayMore, che si occupa di sport, e un’associazione di Rho, Arcobaleno, che porta in giro i bambini nel tempo libero. Il terzo, su Novara, ha visto premiata l’associazione “Edo’s Smile”, nata da una mamma con un bimbo con grave disabilità e che offre cure gratuite a domicilio a famiglie in difficoltà.

C.B. quest’anno abbiamo un nuovo progetto pilota: Global Giving Month: il mese dedicato al volontariato aziendale. Parte proprio a maggio: i dipendenti del Gruppo potranno scegliere dove spendere una giornata di volontariato. La fondazione ha individuato 11 associazioni: 2 Novara, 2 Roma e 7 su Milano.

Sulla valutazione come vi state muovendo? La richiedete ai vostri partner? La praticate voi?

C.B. È un tema aperto. Stiamo cercando di capire la modalità e quali progetti possa interessare. D’altra parte è una materia di discussione, anche fra gli studiosi. Noi coinvolgiamo il consiglio, che si riunisce due volte all’anno, ma alcuni consiglieri partecipano a incontri formali. I consiglieri indipendenti sono molto competenti in materia.

Vogliamo ricordarli?

C.B. Uno è il professor Mario Calderini…

…che non ha bisogno di presentazioni essendo, il professore del Politecnico di Milano, un’autorità nel campo della sostenibilità…

C.B. Certo. Poi Luisa Pavia, ex amministratore del Centro aiuto ai minori e alla famiglia – Caf di Milano, e il professor Augusto Ferrari, molto addentro al sistema scolastico in quanto professore di liceo a Novara ma anche persona che è stata impegnata in politica da assessore regionale alle politiche sociali in Piemonte.

M.D. E comunque proprio sul progetto di rigenerazione urbana e sociale del Giardino Marco Adolfo Boroli a Novara abbiamo fatto un progetto di valutazione di impatto con K-City. Oggi stiamo ragionando di fare altrettanto con il progetto Compiti@casa, giunto al terzo anno.

Oggi che senso ha essere filantrope, per due donne che stanno dentro un gruppo di queste dimensioni? C’è un valore, pubblico e civile, aldilà del possibile ritorno sull’investimento sociale?

C.B. C’è un valore di crescita delle persone. È stato un mutamento che ha coinvolto tutti: a livello di famiglia e di impresa. Oggi, se non avessimo la fondazione, ci sentiremmo mancanti di qualcosa.

Un’evoluzione del modo di fare impresa?

La sensibilità che c’è oggi, rispetto a quella degli anni ’90, è molto cambiata. Non c’era il senso, l’urgenza di tutto ciò.

E non è solo “Esg”, acronimo che oggi cataloga l’impegno verso la sostenibilità delle aziende?

C.B. No, è una diversa presa di coscienza, completamente diversa: c’è un’esigenza, anche personale, che prima non c’era.

M.D. Che non è solo dare, dal punto di vista finanziario ma anche un fare, un mettere a disposizione le nostre competenze imprenditoriali.

C.B. Non è più tempo di beneficenza, parola che non ci piace: non facciamo beneficenza. Anche se fino agli anni ’90 c’era solo quella. E faceva cose buone ma non si preoccupava di diventare pro-attiva.

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