Con la firma della Convenzione, si parla di una svolta storica nella cooperazione italiana. Se sì, perché?
Per la prima volta la cooperazione italiana, oltre a disporre di un’agenzia (“AICS”), si avvale del contributo di un’istituzione finanziaria pubblica, riconosciuta dall’Unione Europea come l’istituzione nazionale per la promozione degli investimenti italiani, e la utilizza per la cooperazione internazionale. Lo fa come lo fanno, da più di 40 anni, i francesi e i tedeschi.
Quali gli obiettivi di questa convenzione?
La Convenzione regola i rapporti tra la Cdp e gli stakeholder della Cooperazione Internazionale Italiana, il MAECI e l’AICS. In particolare, regola le attività propedeutiche all’istruttoria, formalizzazione e gestione degli strumenti finanziari per la cooperazione allo sviluppo. Gli accordi traducono lo spirito della Legge, con una separazione molto chiara dei ruoli e delle responsabilità: il MAECI è responsabile dell’elaborazione delle linee strategiche e della programmazione degli interventi, mentre l’AICS è lo strumento di gestione dei progetti a dono e lo strumento tecnico della cooperazione; infine, la Cdp sarà il gestore degli strumenti finanziari.
Per quanto riguarda gli strumenti finanziari, spesso si ritiene che gli interventi di CdP siano esclusivamente a supporto del settore privato. In realtà sia i prodotti finanziari forniti direttamente da Cdp che la gestione di risorse finanziarie di terzi saranno strumenti che serviranno soprattutto al settore pubblico dei Paesi partner della nostra cooperazione allo sviluppo.
Per la prima volta la cooperazione italiana, oltre a disporre di un’agenzia (“AICS”), si avvale del contributo di un’istituzione finanziaria pubblica, riconosciuta dall’Unione Europea.
A quali strumenti finanziari si riferisce?
Sono di vario genere: a dono, a prestito, a prestito concessionale e/o agevolato. La parola magica che viene utilizzata a livello internazionale è “blending”, che in italiano dovremmo tradurre come “miscela”. Si tratta, infatti, di miscelare risorse pubbliche, finanza istituzionale di Cdp e finanza privata, finanza a dono e finanza a prestito; queste miscele consentono di avere una gestione più efficace dei vari strumenti a disposizione. Quando si finanziano interventi pubblici per infrastrutture, come ad esempio una diga o delle strade, la fase iniziale che riguarda la progettazione dell’intervento è cruciale, delicata e costosa e rispetto ad essa è ingiusto che un governo partner si indebiti con un paese donatore come l’Italia.
Ecco perché si utilizzano miscele, limitando il finanziamento a dono per la fase iniziale e ricorrendo al prestito per l’implementazione tecnica del progetto. Per quanto riguarda gli interventi privati, bisogna riferirsi all’articolo 27 della Legge 125, che, cito, prevede “la concessione ad imprese italiane di crediti agevolati per assicurare il finanziamento della quota di capitale di rischio, anche in forma anticipata, per la costituzione di imprese miste in Paesi partner, individuati con delibera del Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo (CICS), con particolare riferimento alle piccole e medie imprese”. Su questi temi stiamo partecipando a vari gruppi di lavoro con l’AICS e il Consiglio Nazionale per definire i criteri e gli obbiettivi, seguendo le linee guida, fissate a livello internazionale, dagli SDGs (Sustainable Development Goals).
Avete già predisposto una strategia per programmi a credito d’aiuto (blending), sia pubblici che privati?
Questo compito spetta al MAECI, con il supporto dell’Agenzia e di CdP nel ruolo di advisor per la definizione e strutturazione di strumenti finanziari innovativi che possano ampliare il perimetro operativo della Cooperazione Internazionale Italiana nel suo insieme. Del resto è esattamente quello che prevede la Convenzione.
Quante risorse intendete dedicare alla cooperazione internazionale?
Le risorse pubbliche italiane sono quelle definite dalle varie Leggi di stabilità, alle quali si sommano le risorse pubbliche a dono, e quelle a prestito concessionale, ovvero il Fondo rotativo per la cooperazione allo sviluppo, gestito dal 1 gennaio 2016 da Cdp. È un fondo di oltre 5 miliardi di euro di stock, che ha una capacità di flussi finanziari annuali dai 100 ai 400 milioni. Bisogna poi aggiungere le risorse finanziarie esterne che saranno mobilitate in ambito UE, attraverso il meccanismo di blending comunitario, fino ad oggi scarsamente utilizzato dall’Italia anche per l’assenza di una istituzione finanziaria per la cooperazione. Infine le risorse stesse di Cdp che saranno sbloccate dal decreto del ministero dell’Economia e che, come potete immaginare, costituiranno una componente importante del budget nazionale a disposizione della cooperazione.
Quali le priorità di Cdp in termine di solvibilità dei paesi, settori, interessi dell’Italia?
Dentro Cdp esistono due grandi linee di intervento internazionale. Da un lato abbiamo il polo SACE e SIMEST che sostiene l’internazionalizzazione delle imprese italiane in 192 paesi, tra cui quelli in via di sviluppo. Dall’altro, c’è il polo cooperazione che interviene in modo indipendente rispetto all’altro polo e, anche attraverso la Convenzione appena firmata, agisce a supporto della politica estera italiana assieme al MAECI e all’AICS. Tutte le iniziative di Cdp, infatti, devono essere approvate dal Comitato congiunto della Cooperazione allo sviluppo. Non a caso i nostri obiettivi saranno inseriti ed illustrati nel documento di programmazione triennale, attualmente in corso di elaborazione.
Di sicuro, interverremo nei settori classici della cooperazione italiana, a supporto degli Stati per la realizzazione di progetti infrastrutturali, per il supporto alle piccole e medie imprese locali, per il rafforzamento delle filiere agricole e la lotta contro il cambiamento climatico. Noi, naturalmente, prestiamo, non concediamo doni, e questo significa che se il soggetto destinatario dell’intervento è pubblico finanziamo il debito pubblico di un paese; se è privato, invece, concediamo un prestito ad un attore privato virtuoso che interviene nel rispetto degli obiettivi della cooperazione italiana.
Gli accordi bilaterali con i paesi partner sono destinati a cambiare?
Per ogni accordo bilaterale saranno inseriti dei capitoli specifici riguardanti l’intervento di CdP.
Il Fondo rotativo per la cooperazione allo sviluppo è gestito da Cdp. È un fondo di oltre 5 miliardi di euro di stock, che ha una capacità di flussi finanziari annuali dai 100 ai 400 milioni.
Che margini di autonomia dispone Cdp rispetto alla cooperazione italiana?
Siamo autonomi nell’analisi economico-finanziaria degli investimenti e sicuramente diremo di no nel caso in cui il beneficiario di un possibile intervento, sia esso pubblico o privato, presentasse un rischio troppo elevato per Cdp. Dunque un’autonomia completa dal punto di vista della presa di rischio, della compliance e della rispondenza ai requisiti di legge, oltre naturalmente al passaggio di ammissibilità al Comitato Congiunto per le tematiche legate alla cooperazione.
Quali i paesi prioritari?
Abbiamo strutturato una lista di paesi per cerchi concentrici. Il primo riguarda i paesi prioritari della cooperazione italiana, alcuni dei quali non potranno beneficiare del sostegno di CdP perché troppo rischiosi; il secondo cerchio è più legato all’articolo 27, includendo quei paesi a medio reddito (middle income countries) che presentano opportunità di sviluppo economico del sistema Italia, e in particolare del settore privato. Penso ad un paese importante del bacino Mediterraneo come il Marocco, con cui abbiamo sviluppato rapporti bilaterali consolidati. Prendiamo il Messico, dove oggi l’Ambasciata italiana non ha strumenti finanziari a disposizione per lottare contro il climate change. Da domani li avrà, con imprese che potranno intervenire in modo sostenibile su progetti che hanno bisogno di un supporto diverso e complementare. Questo significa fare quello che oggi già fanno gli ambasciatori francese e tedesco.
Sulle priorità, nulla è stato ancora deciso, stiamo discutendo il nostro mandato. Se penso al privato, mi pare ovvio che i paesi privilegiati saranno quelli appartenenti al secondo e al terzo cerchio. Per quanto riguarda il primo, peraltro estremamente variegato, c’è ad esempio un paese di straordinaria importanza per la cooperazione italiana come la Tunisia.
Come vede il ruolo della società civile in questa nuova cooperazione italiana?
Non possiamo dimenticare il ruolo fondamentale svolto dalle ONG nel periodo più difficile della cooperazione italiana. Oggi esiste una sintonia forte con il no profit sulla necessità di capire e rispondere come sistema Italia ai bisogni dei paesi partner. Il Settore no profit ci aiuterà nell’accompagnare il sistema profit a rispettare i requisiti di sostenibilità sociale e ambientale e a rispondere alle esigenze dei paesi partner.
Nella società civile, c’è chi invece teme che con l’avvento di Cdp, il presunto apporto del settore privato alla lotta contro la povertà non si trasformi in realtà in un aiuto nascosto all’internazionalizzazione delle imprese italiane nei paesi partner. Come risponde a questo timore?
Spesso la parola internazionalizzazione è vista come un grande tabù, fa paura. In realtà si riferisce ad un’impresa che si assume un rischio in un paese terzo. Per trasformare internazionalizzazione in investimento di cooperazione va capito se le imprese rispondono o meno alle politiche di sviluppo del paese in cui intervengono, che tipo di rapporti hanno con il no profit italiano e locale, che tipo di policy implementano, se rispettano i principali SDGs, di quale tipo di supporto potrebbero avere bisogno per trasformare la loro internazionalizzazione, diciamo speculativa (detto in modo positivo), in un’internazionalizzazione di partnership con le istituzioni e le comunità locali e il settore no profit, attraverso operazioni di lungo termine i cui impatti possano essere misurabili.
Quello di cui si discute è la necessità che il Nord vada a investire nel Sud senza fare i danni che ha provocato in passato nel nord stesso. Oggi, dunque, più che di internazionalizzazione delle imprese parlerei di investimento sostenibile del settore privato sotto forma di partenariato, con una forte vocazione alla lotta contro la povertà e le disuguaglianze sociali attraverso il sostegno di uno sviluppo sostenibile, duraturo ed inclusivo che promuova, soprattutto, la creazione di posti di lavoro.
Non possiamo dimenticare il ruolo fondamentale svolto dalle ONG nel periodo più difficile della cooperazione italiana. Oggi esiste una sintonia forte con il no profit.
Tra Francia, Spagna e Germania, qual’è il modello da seguire in termine di sistema paese?
CdP è l’unica istituzione finanziaria al mondo che ha al suo interno un Polo Internazionalizzazione (il polo SACE/SIMEST) e un polo cooperazione. CdP risponderà a due ministeri: il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) e il MAECI. All’estero stanno osservando con grande fascino il nostro modello, ma anche noi dobbiamo guardare quello che stanno facendo gli altri. Il modello francese è quello ideale in termini di efficienza, con una banca di sviluppo che ha al suo interno l’agenzia e che utilizza sia il dono che il credito d’aiuto oltre alle risorse private. Ci tengo a segnalare come il sistema francese, nonostante sia consolidato, stia guardando con molto interesse al nuovo sistema italiano come modello da seguire. Per quanto riguarda la Germania, il paragone è difficile considerando che il sistema tedesco è una vera potenza, soprattutto in Africa, con mezzi finanziari a dono nettamente superiori rispetto a quelli italiani, anche se va sottolineato che il modello tedesco e quello italiano sono molto simili. Il sistema tedesco, infatti, non finanzia i paesi Terzi con rischi elevati con risorse proprie della KfW, ma con risorse pubbliche gestite dalla KfW: al pari dell’Italia, infatti, la Germania dispone di un fondo rotativo pubblico gestito da KfW attraverso il quale vengono finanziati i paesi partner ad alto rischio.
Sul blending, l’Italia finora è sembrata molto defilata a Bruxelles…
È vero, e ciò era dovuto principalmente al fatto che l’Italia non era dotata di un’istituzione finanziaria per lo sviluppo. Oggi la situazione è cambiata e con il nuovo ruolo di CdP intendiamo giocare un ruolo di primo piano a Bruxelles. Siamo già operativi con un progetto di infrastrutture stradali in ambito rurale in Niger in collaborazione con l’Agenzia, assieme all’IFAD e la cooperazione spagnola.
Il modello francese è quello ideale in termini di efficienza, con una banca di sviluppo che ha al suo interno l’agenzia e che utilizza sia il dono che il credito d’aiuto oltre alle risorse private.
In che modo un’istituzione come la Banca africana di Sviluppo può diventare un partner per CdP?
L’AfDB, al pari della Banca Mondiale e di altre banche regionali come la Banca europea d’investimenti o la Banca latino-americana di sviluppo, sono partecipate dal nostro ministero dell’Economia e delle Finanze. Finora i rapporti tra l’Italia e queste banche erano limitati a una dotazione annuale a fondo perduto; da oggi, oltre a questo strumento, potremo co-finanziare progetti con queste istituzioni sorelle, che sono poi istituzioni tripla A molto attente alla gestione rischio e, quindi, una garanzia per CdP e la cooperazione italiana.
Qual’è il valore aggiunto di Cdp rispetto a istituzioni sorelle come la Banca mondiale o la Banca africana di sviluppo?
Cdp fa parte della grande famiglia delle casse depositi e prestiti. A differenza della banche di sviluppo, le Casse gestiscono anche il risparmio popolare. Nel caso di Cdp si tratta di strumenti di risparmio molto semplici, nati nella seconda metà dell’800 e garantiti al 100% dallo Stato italiano. Oggi, oltre 26 milioni di italiani e non, residenti in Italia, dispongono di un libretto postale, tra loro ci sono 900mila immigrati con risorse presso Cdp pari a circa 1,5 miliardi di euro. Nei piani di sviluppo elaborati dall’Italia e in Europa per intervenire nei paesi di partenza dei migranti africani, l’inclusione finanziaria avrà un ruolo importante. Inclusione finanziaria significa far sì che in questi paesi si creino anche le condizioni favorevoli per incentivare il risparmio e la creazione di micro-imprese. Cdp è stata fondamentale per la ricostruzione dell’Italia nel secondo dopoguerra e può diventare un modello per contribuire alla rinascita economica di un continente come quello africano, partendo dai risparmi, dalla canalizzazione delle rimesse verso il risparmio e, dunque, gli investimenti.
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