Alla fine di novembre torna nella sua Crispiano, in provincia di Taranto. Gianfranco Berardi, attore, autore e regista teatrale non vedente, qui non è nato, ma ci è cresciuto. «Mio padre lavorava all’ex Ilva», racconta. Dopo un mese in giro per l’Italia, il 29 novembre, la compagnia teatrale che ha fondato con Gabriella Casolari, insieme sul palco e nella vita (« il mio percorso artistico è inscindibile da quello di Gabriella»), porterà in scena al teatro comunale I figli della frettolosa.
Protagonisti i frutti, sempre diversi e sempre speciali, dei sette giorni di laboratorio organizzati dalla compagnia in ogni paese della tournée, a cui hanno preso parte persone non vedenti, ipovedenti e attori normodotati. Uno spettacolo che unisce racconti autobiografici a narrazioni del contemporaneo, riflessioni personali a frammenti di grandi classici.
Il teatro come strumento di relazione
No, Gianfranco non è nato non vedente o ipovedente, né l’idea che il teatro potesse essere veicolo di benessere e inclusione gli è apparsa all’improvviso. Oggi però nei suoi laboratori sono passati 300 ragazzi. L’arte, dice, «è un volano di relazioni che non nasconde l’ombra della luce, che non nasconde il peccato dei virtuosi e che mette al centro la fragilità e il vizio. La cosa bella del teatro è che è sì uno strumento di auto conoscimento, ma soprattutto di relazione fra individui, partendo dai punti deboli e fragili di ciascuno».
In questi anni abbiamo imparato a lavorare sul bios della persona, il punto di partenza, il pulsante per cui siamo tutti veramente uguali. Il vero welfare è quello che crea relazioni, per questo il teatro è indispensabile
Gianfranco Berardi – attore, autore e regista teatrale
Oltre la regia e il testo
E il welfare? Dopo il laboratorio, «andiamo in scena con uno spettacolo teatrale. È molto impegnativo, perché i partecipanti parlano della loro vita e di cose molto intime. Abbiamo imparato da questa esperienza con le persone che hanno una disabilità e che non fanno gli artisti di mestiere, che alcune volte l’arte, ossia il nostro lavoro, riesce ad andare oltre. E quando va oltre all’essere un bello spettacolo, va oltre ad una bella regia e ad un bel testo, è qualcosa in più».
Un talento da oratorio
Gianfranco Berardi ha compiuto 46 anni il 20 novembre. È nato a Bitonto, in provincia di Bari. «Durante l’ultimo anno di liceo, all’improvviso, ho perso la vista a causa di una malattia genetica, come raccontiamo nei nostri spettacoli». Aveva poco meno di 19 anni, da allora ne sono passati 25. «Appena qualche giorno fa, nel corso di una conferenza-spettacolo in carcere, ai detenuti ho detto proprio che se non avessi perso la vista non avrei mai fatto l’attore».
Il terremoto che mi ha cambiato la vita
Era un «talento da oratorio», un adolescente come tanti altri, Gianfranco. «Di quelli smarriti, con le idee poco chiare». Si racconta così: «Non ero felice di quello che facevo, avrei voluto fare altro, avevo grandi sogni ma pochissime possibilità e secondo me anche altrettante capacità». La cecità gli ha cambiato la vita, «totalmente. È come un terremoto, e non è solo una metafora. I palazzi che fino ad un giorno prima vedevi, di colpo non li vedi più». Ma questa distruzione, rimarca, «è stata in qualche modo edificante, perché mi ha aperto paesaggi imprevisti e inaspettati».
Dalle macerie al come ripartire
«Nessuno, me compreso, a quel punto si sarebbe aspettato più niente da me. La mancanza della vista è stato un limite molto forte, certo, è stata anche una condizione molto particolare e limitante. Però, superato il dolore iniziale e lo spiazzamento del dolore fisico, delle cure, del dolore emozionale, di tuo padre che non dorme, di tua madre che piange, tutto questo mi ha dato anche leggerezza. Mi sono sentito liberato. L’unico patto che ho fatto con me stesso», ricorda, «è che tutto quello che era successo non doveva ostacolarmi. Dal fare cosa non lo sapevo ancora, non avevo le idee chiare».
Poi arriva il teatro: «un grande regalo». Libero di ricominciare, dopo il “terremoto”, Gianfranco ha preso a ricostruire la sua vita, «mettendo davanti prima quello che mi piaceva, rispetto a quello che dovevo».
La regia all’oratorio
E l’oratorio? «Quando ho perso la vista mi hanno chiesto di fare la regia di uno spettacolo che avevo in testa». A Gianfranco piacque moltissimo dirigere gli altri. Al terzo anno di programmazione, decisi che «avremmo fatto uno spettacolo scritto da me, così raccontiamo il nostro disagio e la nostra storia: era po’ più duro», degli esperimenti precedenti. Era, ricorda, un lavoro «inguardabile. Però, se ci penso, in maniera inconscia, innocente, anche ingenua e un po’ primitiva, c’erano i primordi del lavoro che oggi siamo riusciti a compiere».
Costretto a guardarsi dentro
La rivoluzione di Gianfranco era appena iniziata. «Non potendo più guardare fuori, sono stato costretto a guardare dentro». Ma per maturare e portare sulla scena l’arte come volano di energia, crescita, benessere e inclusione passeranno altri anni.
Gli «esperimenti di creatività» nati all’oratorio di Crispiano furono un «successone» e convinsero Gianfranco a confrontarsi con corsi e laboratori di teatro. Uno di questi lo ha portato a Sassuolo, dove ha incontrato in scena Gabriella Casolari: era il 2001.
La verità e l’autobiografico
«Nel 2013, dopo una decina di anni di lavoro che io e Gabriella facevamo spettacoli insieme, abbiamo incontrato Cèsar Brie, con cui abbiamo cominciato a fare un’indagine sulla verità, sulle autobiografie. Lavorando sulla nostra autobiografia sono venute fuori le dinamiche di cieco-accompagnatore, di malato-caregiver, di malattia-cura. Abbiamo affrontato questi elementi per due o tre spettacoli, tra cui Amleto take away».
Una strada un po’ diversa
Nel 2014, durante il Salone del libro di Torino, la Fondazione libri italiani accessibili – Lia che promuove la cultura dell’accessibilità nel campo editoriale, chiede a Gianfranco e Gabriella «un progetto di lettura per non vedenti», accendendo la scintilla. La scintilla resta, ma Gianfranco decide di prendere una direzione un po’ diversa: «Pensammo di fare un corso, coinvolgendo persone che non vedevano», promuovendo la lettura dei testi «attraverso il teatro. L’idea era: facciamo lo stesso lavoro che abbiamo fatto su di noi, amplificando la dinamica individuale in dinamica collettiva». E così sono nati i laboratori dei Figli della frettolosa. Nel 2015 «facciamo il primo laboratorio a Torino, in collaborazione con la fondazione Elia».
La vita come drammaturgia
Questo l’approccio, che, dopo tante città toccate e 300 partecipanti, è diventato un metodo. «Partiamo dai due grandi testimoni che hai sulla scena come nella vita: te stesso e l’altro. Facciamo poi un lavoro sul corpo, sulla voce e soprattutto sulla scrittura, guidando i partecipanti a raccontarci le loro vite come se fossero dei romanzi, delle piccole drammaturgie». Gli strumenti? L’improvvisazione verbale, ma anche la scrittura in tutte le sue possibilità, dal computer al Braille. «I nostri laboratori sono sempre stati integrati e l’accoglienza è una delle parole chiave».
La prima foto nel testo è di Tommaso Le Pera. Le altre foto, in apertura e nel testo, sono da Maya Amenduni – Agenzia di comunicazione
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