Lunedì 29 febbraio le forze dell’ordine francesi hanno dato il via allo sgombero della parte sud della Giungla di Calais, la baraccopoli più grande d’Europa. Per volere della prefettura, in pochi giorni sono state abbattute decine di baracche e sfollate centinaia di persone, destinate a sistemazioni provvisorie in strutture adibite dalle istituzioni francesi.
I media di massa sono stati solerti nel riportare le immagini destabilizzanti delle famiglie senza più un’abitazione, delle tensioni con le forze dell’ordine e soprattutto dei numerosi esempi di resistenza passiva, come i cinque profughi iracheni che per protesta si sono cuciti le bocche.
Il materiale con cui abbiamo realizzato questo documentario è stato raccolto tra il 24 e il 28 febbraio: abbiamo abbandonato Calais il giorno prima dello sgombero, ma questo non ha cambiato di una virgola il nostro piano di lavoro.
A documentare quei giorni convulsi ci hanno già pensato in molti: l’idea con cui siamo saliti sulle coste della Manica, invece, era radicalmente diversa.
Volevamo fotografare una comunità, raccontarla, viverla. Per poi restituire al lettore un’informazione di più ampio respiro rispetto alla breaking news, in grado di superare il sensazionalismo e andare oltre ai soliti servizi dalla Giungla. Volevamo insomma costruire una testimonianza completa, interessante, attendibile: come si vive, davvero, nello slum di Calais?
Ha piovuto tutta la notte e le strade della Giungla sono un labirinto di fango e pozzanghere. Il campo si sveglia con calma, qui non ci sono dei veri motivi per andare di corsa. Di mattina in giro ci sono poche persone: chi in coda per i vestiti, chi verso le scuole d’inglese, chi a bere il primo chai della giornata su Main Street, la via del piccolo commercio, dei ristoranti e dei punti informativi.
Alzando lo sguardo a sinistra poi c’è lei, sempre ben visibile, l’autostrada che porta all’Eurotunnel, a Londra. Riparata dalle grate e presidiata dalle forze dell’ordine, quella striscia d’asfalto è la causa costitutiva della Giungla, il motivo per cui più di seimila migranti vivono in una tale precarietà dagli ultimi mesi del 2014.
Loro, d’altro canto, li vedi uscire di casa piuttosto tardi. «La giornata qui comincia a mezzogiorno, prima ci si riposa: spesso la notte dormiamo poco per il freddo, poi c’è sempre qualcuno che prova a fermare i camion. Chi non riesce torna a dormire nella sua baracca».
Funziona in modo semplice: o si taglia il telone del camion, ci si infila dentro e si spera che la polizia di frontiera non esegua dei controlli approfonditi, oppure si paga una mazzetta al camionista. Nell’assalto all’autostrada non sono pochi ad aver perso la vita, anche se parlare di dati ufficiali in un luogo non riconosciuto dalle istituzioni può essere fuorviante.
Senza contare che ormai le forze dell’ordine conoscono le strategie dei migranti e hanno preso le dovute contromisure: arrivare a Dover, oggi, è un affare impossibile.
La domanda di per sé è legittima: se le possibilità di raggiungere le coste inglesi è ridotta al minimo, perché continuare a vivere qui?
Per molti profughi, quelli a Calais sono i primi giorni di relativa pace in tutta la loro vita, e hanno la possibilità di trascorrerli con familiari, amici, connazionali
Si ricrea un senso di comunità perduto da tempo, la quotidianità e i suoi ritmi consolatori possono alterare le percezioni: per molti, la Giungla da mezzo è diventata fine. I campi sono organizzati in quartieri, e la disposizione delle baracche – dotate tra l’altro di un sistema di numeri civici – procede generalmente per etnie. I volontari, durante l’ultimo censimento, ne hanno calcolate addirittura venticinque.
La comunità afgana è quella più numerosa e detiene, insieme a quella siriana, il micropotere economico. Poi ci sono i curdi, pochi ma influenti a livello politico, gli iracheni, i somali, i magrebini, i nigeriani. È una Babele di lingue in cui, per comunicare, si usa la koinè inglese.
Non solo: nelle riunioni tra rappresentanti delle comunità e volontari ricoprono un ruolo fondamentale i traduttori dall’inglese alle tante lingue madri
Il dibattito per forza di cose procede piuttosto lento, nell’ottica di non lasciare nulla al caso e di ascoltare ogni voce. Anche se con le dovute proporzioni, queste assemblee sono l’unico organo decisionale della baraccopoli. A dirigere le discussioni c’è Tom, il monaco buddista che più di un anno fa, quando la Giungla era ancora una tendopoli lontana anni luce da ciò che è diventata ora, è sceso dall’Inghilterra e ha preso in mano le redini dell’Auberge des Migrants, l’associazione più attiva e capillare del campo.
L’Auberge si è dotato di un capannone nella zona industriale di Calais, dove dalle nove del mattino in poi i volontari smistano e organizzano gli aiuti in arrivo. Per la distribuzione dei vestiti, a ogni giorno della settimana corrisponde un capo d’abbigliamento diverso: il lunedì scarpe, il mercoledì pantaloni e così via.
Ogni giorno, poi, i cuochi di Kitchen in Calais preparano il pranzo a chi non ha i mezzi per fare la spesa, mentre i Medici senza Frontiere forniscono tutte le mattine l’assistenza sanitaria ai migranti. La Vie Active, un’altra grande organizzazione non governativa, ha istituito il servizio docce e colazioni.
Dappertutto, infine, sono sorte delle scuole, con classi per i bambini e per gli adulti: imparare l’inglese è una priorità assoluta e le liste d’iscrizione ai corsi sono sempre pienissime.
In questi giorni però la Giungla è in allarme: da qualche tempo si parla con insistenza dello sgombero del campo sud. Ormai sembra che tutto sia già deciso e si debbano soltanto capire le tempistiche. I volontari e gli abitanti ben informati lo ripetono come un mantra: «secondo l’ordinanza del giudice ci possono sgomberare ma senza l’uso della forza, quindi soltanto con la persuasione».
Ovviamente, nessuno è convinto che le forze dell’ordine rispetteranno la sentenza nella sua totalità: a posteriori, avevano ragione.
Shisa, siriano di Aleppo, vive nella Giungla da otto mesi: «tomorrow everything’s gonna finish». Sta cercando di racimolare qualche soldo per pagarsi il biglietto del treno, destinazione provvisoria Parigi. I tanti negozianti, invece, non si fanno prendere dal panico.
Continuano i loro affari con prezzi a misura di migrante, consapevoli che Main Street non verrà toccata dall’eventuale sgombero. Biscotti, sigarette sfuse, oggetti elettronici, coperte, succhi di frutta: anche nella Giungla di tanto in tanto ci si può concedere il lusso di fare acquisti. Il chai nell’Afghanistan della Main Street capita spesso che te lo offrano, nel pieno rispetto delle tradizioni.
Abdul possiede un minimarket afgano poco distante dall’ingresso principale, mostra il suo permesso di soggiorno italiano, è passato da Brindisi. «Alla Giungla in fondo sono tutti un po’ italiani, soprattutto i ragazzi che arrivano dall’Afghanistan», dice Federica, volontaria napoletana che da un mese e mezzo vive a stretto contatto con i rifugiati.
Come ogni ecosistema complesso, anche la Giungla ha le sue zone d’ombra: gerarchie tra migranti, piccoli potentati, nazionalità più forti e altre meno. «Ciò che non deve stupire, qui, sono le contraddizioni. Noi ci sguazziamo ogni giorno, da un certo punto di vista è anche normale che sia così», continua Federica.
A Calais si è creata una microsocietà che è riproduzione in scala di quella canonica. Quindi capiterà di trovare ladri di scarpe, borseggiatori, si dice ci siano anche delle prostitute. Così come destano sospetto alcune baracche incendiate di notte senza un apparente motivo. Certo, si vive con poco e sull’orlo della miseria, ma qui ogni fenomeno è il riflesso, anche se portato ai limiti, di cosa succede fuori.
Al netto di tutto questo, la Giungla racchiude in sé uno statuto fondamentale del genere umano: la tensione verso l’alto.
A Calais, l’impegno per migliorare le proprie condizioni di vita è costante, e non importa che questo sia stato concepito come un luogo di passaggio.
Con l’aiuto dei volontari, sono state sviluppate alcune realtà dal grande valore simbolico. In primo luogo il teatro: voluto dagli ormai celebri Joe&Joe, due ragazzi inglesi il cui obiettivo era quello di portare tra i migranti quello che a tutti gli effetti è un bisogno primario dell’uomo. La struttura, che è una sorta di pallone in tela bianca, ospita tutti i giorni workshop e cineforum.
Di pomeriggio i bambini la usano per giocare a biglie e preparare aquiloni, qualcuno dipinge. Per la sera vengono preparati degli spettacoli: l’ultimo era la riproduzione di un processo per immigrazione in chiave comica, ha avuto un grande successo.
Poco più in là, in un dedalo di vie interne a due passi dalla Chiesa ortodossa, ci sono Jungle Book e Jungala Radio. La prima è una biblioteca a disposizione dei migranti, ambiente silenzioso, pavimenti in legno e scaffali ordinati a sezioni. La seconda è una stazione radiofonica via web, aggiornamenti quotidiani su cosa succede a Calais e musica selezionata dai migranti.
Di notte, la Giungla cambia volto. Le uniche luci sono quelle dei ristorantini su Main Street, dalle cui finestre si intravedono istantanee di normalità: una partita a carte, un film alla televisione. In molti sfruttano le prese elettriche per caricare il cellulare.
Soltanto i proprietari dei ristoranti e dei minimarket possono permettersi i generatori a benzina per la loro attività, nelle abitazioni ci si aggiusta con le candele o, per combattere il freddo, con i fornelli da campo.
Nel resto della Giungla ci si sposta con le torce, facendo attenzione a dove mettere i piedi.
La geografia diurna che l’ospite pensa di essersi fatto è un lontano ricordo, gli abitanti sgattaiolano tra baracche e scorciatoie con la massima naturalezza. Alcuni edifici sono adibiti a discoteche, ma in generale chi non si attarda nei luoghi di aggregazione torna a casa a bere il tè.
È in questo contesto che ci si conosce davvero, quando intorno è notte e, a lume di candela, tutto si fa più intimo.
Aspirazioni, sogni, rimpianti di vite difficili. Da questo punto in poi subentrano le vite di Steve che da studioso di architettura a Damasco costruisce mensole e fa interior design nei suoi pochi metri quadrati, di Moe che arriva dalla Siria ma sembra un ragazzo di Bristol e discute di quanto sia controproducente la tradizione italiana del doppiaggio ai film stranieri, del Dottore — si presenta a tutti come tale — che ha vissuto quattro anni a Fasano, Puglia, e ora parla uno strano impasto
afgano-salentino.
Qui ha inizio il contatto umano vero, quello che un semplice documentario web non riuscirebbe a racchiudere, e ha fine la narrazione.
Jungala – Aspettando l’Inghilterra a Calais
Reportage a cura di Matteo Fontanone e Mirko Isaia
Progetto grafico a cura di Giorgio Calandri
Una produzione Vita Non Profit
Desidereremmo ringraziare di tutto cuore:
Amrullah, Federica, John, Moe, Steve e gli abitanti tutti della Giungla per averci accolti e fatti sentire a casa.
Beatrice e Irene per averci accompagnati in quest’avventura.
Stefano per averci supportato.
Beatrice, Benedetta, Corinne, Lauren e Miriam per averci aiutato a districarci tra incomprensibili idiomi.
Nessuno ti regala niente, noi sì
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