Il titolo è provocatorio, e quello dell’estinzione non è un fatto imminenti. Però dobbiamo fare i conti con la realtà e la realtà dice che nel nostro Paese si registra la natalità più bassa fra gli stati industrializzati e che dal 2018 al 2028, i bambini e i ragazzi nella fascia d’età fra i 3 e i 18 anni diminuiranno da 9 a 8 milioni; dalla scuola dell’infanzia alle superiori, si calcola che di conseguenza si potrà fare a meno di 55.000 insegnanti. Al punto da essere ormai un caso studiato in tutto il mondo.
«Basti dire», dice Marco Valerio Lo Prete, «che già nel 1995 siamo diventati il primo Paese al mondo in cui è statisticamente più probabile imbattersi in una persona con oltre 65 anni d’età piuttosto che in un ragazzo che abbia meno di 15 anni. L’impatto di tutto ciò sul nostro modo di stare assieme, sul nostro welfare pubblico – pensiamo solo a pensioni e sanità –, sul mondo del lavoro e sull’economia, sarà decisivo. E purtroppo, ancora sottostimato».
“Italiani poca gente – L’Italia ai tempi del malessere demografico” di Antonio Golini e Marco Valerio Lo Prete con la prefazione di Piero Angela, edito da Luiss University Press, espone i dati più aggiornati sul fenomeno, ne illustra le cause, chiarisce perché a lungo la demografia è stata argomento tabù in Italia, e avanza suggerimenti per superare una situazione in apparenza senza uscita.
Com’è nata l’idea del libro?
Nel febbraio di un anno fa, alla vigilia delle elezioni politiche del 4 marzo, intervistai per la prima volta Antonio Golini, che per cinquant’anni ha insegnato Demografia all’Università La Sapienza di Roma e in seguito Sviluppo sostenibile alla LUISS Guido Carli.
Il professor Golini, oltre che essere un illustre accademico e già presidente dell’Istat, è stato un precursore del dibattito pubblico sui mutamenti della popolazione, e in quell’occasione mi fece notare un piccolo fatto inedito e positivo che aveva osservato in quella campagna elettorale: in Italia anche la politica aveva iniziato a parlare della crisi demografica che ci investe. Così passammo in rassegna le proposte di quoziente familiare inserite nel programma del Movimento 5 Stelle e del centrodestra, poi i progetti del Pd su detrazioni Irpef e lavoro agile, quindi gli annunci di tutti sulle politiche migratorie. La ritrovata consapevolezza dei partiti, secondo Golini, dipendeva da due fattori. Primo: l’immigrazione è al centro dell’attenzione dei cittadini, legata com’è anche allo spopolamento e all’invecchiamento degli italiani. In secondo luogo, la denatalità nel nostro paese è di così lunga durata da aver alla fine attirato l’interesse dei politici, anche perché nel frattempo si è incrinato il legame fra problema demografico e fascismo che aveva impedito perfino di riconoscere o di parlare del problema. Dopo quel primo incontro, decidemmo assieme – seguendo un’intuizione di Daniele Rosa, direttore della LUISS University Press – che era il momento giusto per proporre al dibattito pubblico un’analisi quanto più ponderata e accessibile sulla situazione demografica. Il risultato di questa collaborazione è “Italiani poca gente”.
Chi ha scelto il titolo?
Anche questo è stato frutto di un lavoro a quattro mani. “Italiani poca gente”, il titolo vero è proprio, è mio. Semplicemente una sintesi giornalistica di ciò che abbiamo trattato: il futuro – sempre più gramo – della popolazione in un Paese specifico, l’Italia. Il sottotitolo, “Il Paese ai tempi del malessere demografico”, è invece del professor Golini. Ha coniato questa formula in tempi insospettabili, quando la preoccupazione preminente tra gli osservatori era ancora quella che nasceva dallo scenario opposto, ovvero dalla eccessiva vitalità demografica e quindi dalla “bomba demografica”. Il termine “malessere” è più adatto a descrivere la situazione italiana rispetto al solo “calo” o “crollo demografico” che pure c’è. Nella categoria del “malessere” rientrano sia lo squilibrio della struttura della popolazione del nostro Paese sia le gravi conseguenze biodemografiche di tale mutamento: condizioni di malessere economico, sociale, culturale e anche psicologico.
Oggi siamo “troppi” o “troppo pochi” al punto da andare incontro all’estinzione?
Il fenomeno più evidente è costituito dal rischio di diventare, almeno nel lungo termine, “troppo pochi”. L’anno scorso in Italia ci sono state 449mila nascite e 636mila decessi, con un saldo negativo record che non è colmato nemmeno dai flussi migratori pur intensi. Il tasso di fecondità nel nostro Paese è 1,3 figli per donna, distante dai 2,1 figli per donna che assicurano lo stato stazionario di una popolazione. Detto ciò, al 1° gennaio del 2019 la nostra popolazione ammonta a 60 milioni 391mila residenti, con 90mila residenti in meno sull’anno precedente (-1,5 per mille): quindi il calo c’è ma il rischio “estinzione” è ancora lontano. A essere problematici, fin da oggi e sempre più nel medio termine, sono invece i profondi squilibri che caratterizzano la nostra popolazione, essenzialmente la bassissima natalità associata a un intenso invecchiamento. Non è questione di previsioni più o meno pessimistiche. Basti dire che già nel 1995 siamo diventati il primo Paese al mondo in cui è statisticamente più probabile imbattersi in una persona con oltre 65 anni d’età piuttosto che in un ragazzo che abbia meno di 15 anni. L’impatto di tutto ciò sul nostro modo di stare assieme, sul nostro welfare pubblico – pensiamo solo a pensioni e sanità –, sul mondo del lavoro e sull’economia, sarà decisivo. E purtroppo, ancora sottostimato.
Anche negli immigrati, che dal punto di vista demografico sono sempre stati considerati una risorsa, il numero delle nascite è calato. Come il fenomeno migratorio interagisce con la denatalità e l’invecchiamento in Italia?
Negli ultimi anni, l’afflusso di nuove persone dall’esterno del nostro Paese ha controbilanciato il saldo naturale negativo tra nascite e decessi dei cittadini italiani. Non solo. Il maggior tasso di fecondità delle donne immigrate ha risollevato la natalità media del Paese, temperando un po’ l’invecchiamento. Tuttavia, come si desume dalle previsioni ufficiali dell’Istat, questo effetto di “compensazione” non può essere considerato una panacea. Perlomeno se l’immigrazione rimarrà ai livelli attuali, già tutt’altro che insignificanti. Come tu osservavi, infatti, le donne straniere col passare degli anni tendono a mutuare almeno in parte abitudini e stili di vita – in tema di fecondità – dalle donne autoctone o già residenti da più tempo, riducendo anche loro le nascite pro capite. Le donne italiane oggi hanno in media 1,24 figli, ne avevano 1,34 dieci anni fa; le cittadine straniere residenti ne hanno 1,98, ma dieci anni fa ne avevano 2,43.
Quali sono i paesi europei con il livello più alto di natalità e che modelli di welfare propongono?
Il podio della natalità, in Europa, vede la Francia al primo posto, con un tasso di fecondità di 1,9 figli per donna, quindi vicino alla soglia di 2,1 che garantisce un andamento stazionario di una popolazione. Seguono la Svezia con 1,78 e l’Irlanda con 1,77. L’Italia è al terzultimo posto tra i 28 Stati membri, con 1,32 figli per donna; peggio di noi fanno soltanto Spagna con 1,31 figli per donna e Malta con 1,26. Semplificando un po’, si può dire che la Francia punta su un modello di politiche demografiche che agiscono soprattutto attraverso la leva tributaria, per esempio col quoziente familiare. In Svezia, invece, storicamente ci si è sforzati di mettere le donne nella migliore condizione per conciliare attività familiare e attività lavorativa, grazie al fisco ma anche a una robusta rete di servizi per l’infanzia.
Qual è l’errore più grande, invece, del welfare italiano in materia di natalità e lavoro soprattutto rispetto alle donne?
Le recenti polemiche sul “bonus baby sitter” e sul “bonus asilo nido” confermano che gli incentivi fiscali già esistenti in Italia vanno razionalizzati, evitando inutili e controproducenti frammentazioni. Soprattutto, occorre garantire una tenuta di lungo termine a politiche simili, evitando bonus effimeri che risultano poco credibili per gli stessi potenziali destinatari e dunque inefficaci. Inoltre va tenuto presente che oggi, diversamente da quanto avveniva fino agli anni 80 del secolo scorso, i Paesi europei col tasso di occupazione femminile più alto sono anche quelli in cui il tasso di fecondità è maggiore. Viceversa, dove il capitale umano femminile è meno valorizzato, dove sono più carenti i servizi per l’infanzia pubblici e privati, come in Italia, la natalità è in crisi anche se un numero maggiore di donne non è impegnato nel mercato del lavoro formale. Bisognerebbe tenerlo a mente quando si ragiona sulle politiche pubbliche per favorire la natalità.
Antonio Golini è professore emerito alla Sapienza, dove ha insegnato Demografia per oltre cinquant'anni. Insegna Sviluppo sostenibile alla LUISS. Accademico dei Lincei, è stato presidente dell'Istat e della Commissione su popolazione e sviluppo all'ONU
Marco Valerio Lo Prete è giornalista del TG1. Già vicedirettore de "Il Foglio" e collaboratore di Radio Radicale
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