Giornata del Rifugiato

Io sono Omid, giornalista e profugo, e questa è la mia storia

di Emiliano Moccia e Omid Sadiqì

Omid Sadiqì è un giornalista. Insieme alla sua famiglia è dovuto fuggire dall’Afghanistan dopo che i talebani sono tornati ai potere. È dovuto andare via a causa del suo lavoro. Anche lui fa parte degli oltre 43 milioni di rifugiati spari per il mondo. Oggi è inserito in Italia in un progetto del "Sistema di accoglienza e integrazione - Sai". In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, Omid è tornato a fare la cosa che gli riesce meglio: raccontare storie. E questa volta, racconta la sua personale esperienza

Omid Sadiqì è un giornalista. Ė arrivato dall’Afghanistan, con sua moglie ed i suoi tre figli piccoli. A causa del suo lavoro nel dipartimento stampa della polizia, ha dovuto lasciare il suo Paese, perché rischiava di essere ucciso dai talebani, che il 15 agosto 2021 sono tornati al potere. Omid e la sua famiglia sono giunti in Italia con il programma Aquila Omnia, che sta favorendo l’evacuazione dei cittadini afghani dai loro territori, per metterli al sicuro dai fondamentalisti islmaoci. Omid e la sua famiglia sono oggi tra i beneficiari del progetto Sai – Sistema di accoglienza ed integrazione – promosso dal Comune di Cerignola (Foggia) e gestito dalla cooperativa sociale Medtraining.

Omid Sadiqi

«Sono Omid Sadiqi, un ex dipendente dei media audiovisivi nella provincia di Herat, in Afghanistan. Ero soddisfatto del mio lavoro e avevo una vita modesta. All’inizio della mia carriera nei media, facevo solo il giornalista e col passare del tempo ho iniziato a creare programmi di intrattenimento. Il mio primo programma televisivo nazionale a Herat era chiamato Dah be Dah, un’idea fornita dal signor Ravan, il direttore tecnico della televisione nazionale a Herat, e lavoravo con lui nella regia e nella ripresa del programma. Il programma consisteva nel visitare i villaggi di Herat e documentare la vita dei residenti. Cercavamo principalmente di registrare le diverse usanze, le loro problematiche e gli aiuti umanitari nelle loro regioni, per poi diffonderli attraverso il programma televisivo.

Alcuni villaggi erano insicuri e non potevamo andarci senza il coordinamento della polizia, poiché intorno a quelle aree c’erano i talebani. Quando andavamo in quelle zone e chiedevamo della sicurezza o della presenza dei talebani, la gente si rifiutava di rispondere, dicendo che non potevano rispondere perché sarebbero stati interrogati successivamente dai talebani. Durante le interviste con gli anziani dei villaggi, alcuni confermavano la presenza dei talebani sulle montagne di quelle zone, nonostante la loro paura. Affermavano che i talebani venivano nelle case dei villaggi di notte per raccogliere le decime e le oblazioni. In alcuni villaggi remoti di Herat non c’era elettricità e le persone non avevano una vera comprensione della televisione. Queste persone erano svantaggiate e non avevano istruzione, ma la maggior parte dei loro giovani frequentava scuole religiose. Alcuni di loro, durante le nostre interviste, dicevano di voler diventare mujaheddin (talebani) in futuro e cacciare gli stranieri dal Paese. Non accettavano la polizia e le forze di sicurezza dell’Afghanistan e li chiamavano mercenari.

Omid Sadiqi in una delle trasmissioni televisive che condiceva

Queste situazioni mi hanno reso infelice e dopo due anni in cui avevo sopportato questa situazione, ho chiesto ai responsabili dei media di non lavorare più in quel settore per occuparmi più di cronaca, richiesta che è stata accettata con molte difficoltà. Ho iniziato coprire principalmente programmi sportivi, culturali e sociali con successo. Dopo aver trascorso del tempo nel cortile della televisione, seduto accanto a un albero di gelso per prendere un po’ d’aria fresca, un dipendente del dipartimento stampa della polizia di Herat è entrato nell’edificio della televisione per consegnare i programmi registrati “Polizia e popolo” al reparto stampa per la pubblicazione. Nello stesso momento, un mio collega mi ha detto che se volevo guadagnare di più e crescere professionalmente, avrei potuto lavorare nel dipartimento stampa della polizia di Herat. Ho accettato e il mio collega, che era anche un funzionario, mi ha presentato al dipartimento stampa della polizia per iniziare a lavorare lì dalla settimana successiva. Ho coinvolto la mia famiglia nella mia nuova attività, anche se erano preoccupati e non erano molto felici della mia decisione, ma ho rassicurato loro dicendo che non c’era nulla di cui preoccuparsi, poiché stavo lavorando nel dipartimento “civile” della polizia di Herat e non ero un militare. Il sabato mattina sono arrivato al dipartimento stampa della polizia di Herat. In quel momento c’era un signore di nome Abdulahad Walizada, responsabile dei media. Dopo i convenevoli, mi ha detto che nel loro dipartimento avevano bisogno di qualcuno che collaborasse con loro nel settore della fotografia e della videografia.

Un mio collega mi ha detto che se volevo guadagnare di più e crescere professionalmente, avrei potuto lavorare nel dipartimento stampa della polizia di Herat. Ho accettato. La mia famiglia erano preoccupata e non era molto felice della mia decisione

Mi è stato detto che la mia responsabilità sarebbe stata quella di accompagnare il capo della polizia ovunque andasse e di documentare il lavoro fotografico e video. Infine, mi è stato detto che per svolgere questo lavoro dovevo diventare membro del sistema, poiché si trattava di un’organizzazione di sicurezza. Ho accettato l’incarico e mi è stato conferito il grado di soldato. Tuttavia, col passare del tempo, le condizioni di lavoro sono diventate molto più difficili di quanto promesso. Poiché non avevo esperienza militare, su ordine del comandante della polizia di Herat sono stato costretto a frequentare corsi di formazione militare presso l’Accademia Militare per 12 settimane. Successivamente mi è stato detto che dovevo anche lavorare nei turni notturni su base rotativa, il che significava che dovevo rimanere in ufficio per due notti alla settimana per essere pronto per gli incarichi sul campo quando necessario.

In quel momento, la mia famiglia era particolarmente preoccupata perché venivo considerato un militare, anche se lavoravo nel dipartimento stampa. Tuttavia, facevo sempre del mio meglio per alleviare le loro preoccupazioni. Dopo un po’ di tempo, su ordine di Abdulahad Walizada, comandante dei media della polizia di Herat, ho iniziato a lavorare anche come responsabile dei media radiofonici della polizia, noto come “Radio Polizia”. Col passare del tempo, mi è stato richiesto di condurre un programma radiofonico chiamato “Sargozasht” (Storie), dove invitavo membri delle forze armate a parlare delle loro esperienze lavorative e della loro carriera. Sebbene l’inizio del programma fosse gioioso, verso la fine diventava tutto triste poiché tutti gli ospiti raccontavano storie dolorose sulle loro condizioni di lavoro e sui problemi che avevano affrontato per sé stessi e per le loro famiglie. Raccontavano anche degli incidenti in cui i loro colleghi erano stati uccisi durante le operazioni militari, con descrizioni angoscianti di esplosioni e attacchi suicidi.

Dopo diversi mesi, le condizioni di sicurezza in alcuni dei distretti di Herat, specialmente nel distretto di Shindand, peggiorarono ulteriormente. Shindand si trovava a 120 chilometri dalla città di Herat. I talebani avevano reso la zona insicura con i loro attacchi con razzi, mettendo a rischio la vita dei civili. In risposta a questa situazione, venne lanciata un’operazione militare congiunta dalle forze di polizia, dalle forze di sicurezza nazionale, dall’esercito nazionale e dalle forze ISAF (tra cui l’Italia). Un giorno prima dell’operazione, Aminullah Amin, il responsabile della sicurezza della polizia di Herat, mi disse che avrei dovuto partecipare all’operazione per documentarla fotograficamente e cinematograficamente. Quando la mia famiglia venne a sapere che stavo per partecipare all’operazione a Shindand il giorno successivo, erano estremamente preoccupati. Mia madre e mio padre piangevano, chiedendomi di non andare e di lasciare quel lavoro. Anche mia moglie era molto preoccupata. Tuttavia, le condizioni di lavoro nel settore militare non mi permettevano di lasciare il lavoro in un solo colpo e dovevo obbedire agli ordini delle autorità.

Alle 4 del mattino del giorno successivo, mi sono svegliato e, dopo essermi preparato, mi sono diretto al comando della polizia di Herat. Alle 5 del mattino, le forze di sicurezza si sono mosse verso il distretto di Shindand per l’operazione. Dopo aver percorso 120 chilometri, siamo arrivati alla base aerea di Shindand, che fungeva da centro operativo. Anche le forze promesse dalla 207ª brigata Zafar Herat sono arrivate sul luogo delle operazioni, sotto il comando del generale di brigata Ziyarat Shah Aabid. L’operazione militare nella valle di Shindand è iniziata. Oltre a registrare le immagini delle operazioni terrestri, dovevo anche documentare queste operazioni dall’aria. Ero presente all’interno degli elicotteri militari che prendevano di mira alcune aree controllate dai talebani, per filmare anche il corso delle operazioni aeree. Queste immagini e filmati dovevano essere registrati per il programma “Polizia e Popolo”.

Durante gli 11 giorni di attività inviavo regolarmente via Internet le immagini e i filmati al responsabile del settore stampa del comando della sicurezza di Herat. La parte più triste e insopportabile di queste operazioni era vedere i corpi dei soldati uccisi in azione. Molte delle salme erano difficili da identificare poiché molte parti del loro corpo non erano riconoscibili, essendo cadute in zone di combattimento. I corpi dei militari uccisi venivano consegnati alle loro famiglie dopo l’identificazione, mentre i feriti venivano trasferiti alla promessa brigata Zafar Herat. In questa importante operazione, anche le perdite dei talebani erano significative. Sono stati uccisi 75 talebani e ne sono rimasti feriti 25. Inoltre, sei dei loro importanti rifugi nella valle di Shindand sono stati eliminati. In questa operazione, che non avevo mai affrontato prima, ho vissuto i momenti più tristi della mia vita.

Eseguivo i miei compiti abituali, ma l’insicurezza persisteva. I talebani attaccavano i posti di sicurezza di notte. Questo causava disagi alla popolazione. Qualche mese dopo, la situazione di sicurezza nei distretti di Pashtun Zarghun e Obe nella provincia di Herat era peggiorata rispetto a Shindand, al punto che i talebani avevano bloccato le vie di comunicazione verso diversi villaggi di Pashtun Zarghun, impedendo alle persone di andare in città per fare acquisti e lavorare. La mia attività giornalistica e di documentazione è proseguita fino a quando i talebani sono tornati al potere in Afghanistan. Per mettere in sicurezza la vita della mia famiglia, di mia moglie e dei miei bambini, siamo stati costretti a fuggire e a lasciare tutto».


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