Mi chiamo Patrick Ndungidi. Ho 39 anni e sono giornalista. A Lampedusa, dicono che sia il primo reporter africano ad approdare su quest’isola italiana al confine con l’Africa, il mio continente. Non so se sia vero, ma non fa molta differenza. Molti di voi continuano a chiamarlo il “continente nero”. Per me non è altro che un continente dalle potenzialità enormi, ma da cui ogni anno scappano decine di migliaia di miei “fratelli” – un’espressione tipicamente occidentale – in fuga dalle guerre, le dittature e la povertà, con la speranza di un futuro migliore sul Vecchio continente. Come molti di voi ho letto sui giornali e visto in televisione storie drammatiche di migranti sbarcati in condizioni disperate sulle coste italiane. Sono i più fortunati, perché gli altri – molti, troppi – sono morti lungo le rotte che dal Sahel e dal Corno d’Africa li hanno condotti verso un destino tragico che non meritavano. C’è chi rimane inghiottito dal Mare Mediterraneo, mentre altri non sono riusciti a superare i deserti saheliani o la ferocità dei trafficanti di esseri umani che li ammazzano per strada. Sotto i ponti che legano l’Africa e l’Europa, si accumulano cimiteri senza tombe e senza nomi cui nemmeno le statistiche riescono a dare una dignità.
Come molti di voi ho letto sui giornali e visto in televisione storie drammatiche di migranti sbarcati in condizioni disperate sulle coste italiane. Sono i più fortunati, perché gli altri – molti, troppi – sono morti lungo le rotte che dal Sahel e dal Corno d’Africa li hanno condotti verso un destino tragico che non meritavano.
Tra paura, compassione e indifferenza
Gli europei osservano questo fenomeno con due tipi di sentimenti ben distinti: la paura o la compassione. Sarò onesto. Io non provo né l’uno, né l’altro. Nel mio paese di origine – la Repubblica Democratica del Congo – le disgrazie non si contano più. Nell’ultimo ventennio i conflitti armati che continuano a seviziare nell’est della RDC avrebbero ucciso quattro milioni di persone, molti dei quali in condizioni atroci. Che sentimenti posso provare di fronte alla morte di qualche migliaia di migranti nel Mare Nostrum quando nel mio paese, le miei connazionali sono violentate e sventrate da guerriglieri in preda alla follia? Indifferenza? E’ molto probabile. Vergogna? Anche quella, perché contrariamente ai migranti bianchi o asiatici benestanti che ho incontrato in Africa, gli africani che vedete approdare in condizioni disperate sulle vostre coste sono lo specchio dei nostri fallimenti. Ed è per questo che ho voluto toccare con mano la tragedia dei migranti africani di Lampedusa. Per vederli, parlarci, ascoltarli.
Gli europei osservano questo fenomeno con due tipi di sentimenti ben distinti: la paura o la compassione. Sarò onesto. Io non provo né l’uno, né l’altro. Nel mio paese di origine – la Repubblica Democratica del Congo – le disgrazie non si contano più.
Garibaldi e gli ambasciatori della "miseria del mondo"
Eccomi quindi qui, sulla piazza Giuseppe Garibaldi, che di sbarchi se ne intende. Sotto il campanile della Parrocchia di San Gerlando, le storie non mancano. C’è quella drammatica di Sow Ibrahim, alias “Man By Kaporo-rail”, giovane rapper della Guinea che sogna una carriera brillante nella musica. C’è la storia commovente di Segou, 20 anni, mototassista e originario di Sifo, in Gambia. Assieme a lui c’è un altro giovane ragazzo giuneano che chiameremo Abou, appassionato di calcio con un chiodo fisso in testa: “giocare nella squadra A della Juventus”. Contrariamente al celebre condottiere italiano e ai suoi volontari che guidarono la Spedizione dei Mille, nessuno di questi migranti africani coltiva la speranza di cambiare le sorti della loro nazione. Sono soltanto ambasciatori della “miseria del mondo”.
La loro presenza a Lampedusa si fa quasi discreta, lontana dall’idea che mi ero fatto arrivando sull’isola, dove pensavo di trovare una “giungla” simile a quella di Calais smantellata nell'ottobre scorso. Niente di tutto questo. Nelle strade della città, il clima è all’insegna della calma piatta su cui soffia un vento forte. In via Roma, che d’estate si riempe di turisti italiani ed europei, deambulano piccoli gruppi di migranti autorizzati a lasciare qualche ora il centro Hotspot nel quale sono accolti. I lampedusani non ci fanno ormai nemmeno più caso.
Contrariamente al celebre condottiere italiano e ai suoi volontari che guidarono la Spedizione dei Mille, nessuno di questi migranti africani coltiva la speranza di cambiare le sorti della loro nazione. Sono soltanto ambasciatori della “miseria del mondo”
“Li accogliamo dal 1991”, mi dicono. Per un‘isola di appena 5.500 abitanti che nel 2011, all’apice delle ondate migratorie che hanno seguito la Primavera araba, ha visto sbarcare in pochi mesi oltre 60.000 migranti, è quanto meno sorprendente. “Ma qui vige uno spirito di accoglienza che non si vede altrove e i profughi non ci hanno mai dato fastidio”, mi sento dire. In effetti, le parole “aggressione”, “paura”, violenza” non fanno parte del loro vocabolario. Eppure i flussi non sono mai cessati. Pietro Bartolo, responsabile del centro poliambulatorio dell’isola e protagonista del film “Fuocoammare”, dice di averne curati 300.000 negli ultimi 25 anni. Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM), in data 13 novembre 2016 dall’inizio dell’anno sono approdati in Europa oltre 340mila migranti, di cui 170mila in Grecia e 165mila in Italia. Sui circa 140mila profughi sbarcati in un porto italiano nel 2015, si sono contati 37.500 eritrei, 19mila nigeriani, 11mila somali, oltre 8mila sudanesi, poi a seguire gambiani, maliani, senegalesi, ghanesi e camerunensi. Molti di loro sono giovani, ma si contano anche donne e bambini, addirittura neonati, venuti al mondo tra il fragore delle onde del Mediterraneo, a bordo di zodiaci alla deriva.
Dopo l’inferno…
Sow, Segou e Aliou sono arrivati a fine ottobre. Stremati. La prassi amministrativa prevede un permanenza dei migranti all’hotspot di non oltre 48 ore, ma molti di loro rimangono tra due settimane e un mese o poco più, in attesa di essere inviati in uno dei tanti centri di assistenza di accoglienza disseminati in Sicilia e nel resto della penisola italiana. Durante la mia presenza, se ne contavano 490, accolti nell’unico centro dell’isola la cui capacità di accoglienza è di 381 posti letto. “Ma la situazione rimane sotto controllo”, sostiene Marilena Cefalà, direttrice a Lampedusa della Confederazione nazionale delle Misericordie d’Italia, che assieme al Ministero degli Interni co-gestice il Centro di primo soccorso e di accoglienza (Cspa), diventato poi uno degli hot spot messi in piedi nel 2015 in seguito ad una proposta della Commissione europea di sviluppare un sistema di prima accoglienza per i migranti irregolari nei “punti caldi” (hotspot) in cui si registra il maggior numero di arrivi sul suolo dell’Unione (principalmente in Italia e in Grecia). Negli hotspot, i migranti irregolari sono registrati e identificati per permettere loro di entrare nel programma di ricollocamento all’interno del territorio europeo.
“Dopo l’ondata di siriani, oggi i migranti arrivano soprattutto da Eritrea, Sudan, Somalia, Senegal, Nigeria, Mali o Guinea”, sottolinea Cefalà che elenca una lunga lista di attività gestite dalle Misericordie che vanno dal supporto psicologico alle pratiche amministrative, passando per le attività ludiche destinate ad uccidere il tempo che per molti migranti non passa più. Nonostante un rapporto accusatorio di Amnesty Interntional, tutti quelli che abbiamo incontrato sostengono di essere trattati bene, se non molto bene. La cosa non può sorprendere se si pensa che fino a poche settimane fa hanno vissuto le pene dell’inferno. Lo si legge nei loro occhi, pieni di paura. Quella vissuta dal rapper Sow è da brividi. Te la racconta con voce pacata davanti all’Archivio storico di Lampedusa, dove pochi minuti prima assieme ai suoi amici guardava in videoproiezione su youtube i clip che ha prodotto assieme ad altri musicisti rapper guineani. Com’è lontano il tempo in cui Sow cantava nelle spiagge di Conakry per denunciare i mali del suo paese con tanto di vestiti nike e collane di finto oro appese al collo. Oggi è un ragazzo che ha perso almeno dieci chili, con il peso delle sofferenze in più.
Tutti quelli che abbiamo incontrato sostengono di essere trattati bene, se non molto bene. La cosa non può sorprendere se si pensa che fino a poche settimane fa hanno vissuto le pene dell’inferno. Lo si legge nei loro occhi, pieni di paura. Quella vissuta dal rapper Sow è da brividi.
Viaggio nell’odissea di Sow
“Ho lasciato la Guinea per andare in Mali, da lì ho preso un bus per il Benin, passando per il Burkina Faso e il Togo. A Porto-Novo ho lavorato qualche settimane per proseguire il mio viaggio, in Niger. Le cose si complicano a In Guezzan, nel nord del paese. Non lontano c’è la frontiera con l’Algeria, che i Tuareg ti aiutano ad attraversare. Abbiamo camminato una notte intera nel deserto per raggiungere Tamanrasset, dalle 21 alle 4 del mattino, senza cibo né acqua. Eravamo circa 35, all’arrivo mancava un ragazzo all’appello, morto durante la traversata. I Tuareg ci avevano giurato che saremmo stati trasportati in un pick-up, ma si è rivelata una falsità ed erano molto aggressivi. A Tamanrasset abbiamo preso un bus fino a Ghardaia, per poi raggiungere Orano, dove mi aspettavano dei connazionali che via Facebook mi avevano consigliato di raggiungerli. Ci ho trascorso due mesi in un officina come meccanico, ma si guadagnava molto poco. Così ho deciso di continuare la mia strada, fino in Libia”, che tutti i migranti definiscono “un orrore a cielo aperto”. Sow non scorderà mai le violenze subite dai libici. “In un paese dove regna il caos, non puoi aspettarti un’accoglienza cinque stelle, ma nemmeno gli animali vengono tratttati in questo modo. Ho visto migranti farsi uccidere soltanto per avere chiesto un bicchier d’acqua, altri minacciati con una pistola da minorenni che di te fanno quello che vogliono”.
In un paese dove regna il caos, non puoi aspettarti un’accoglienza cinque stelle, ma nemmeno gli animali vengono tratttati in questo modo. Ho visto migranti farsi uccidere soltanto per avere chiesto un bicchier d’acqua, altri minacciati con una pistola da minorenni che di te fanno quello che vogliono.
Sow Ibrahim, alias “Man By Kaporo-rail”, giovane rapper della Guinea
Per tutti vale la stessa regola: “pensi di partire subito per l’Europa, ma non è così”. Oltre alla meteo, che determina le partenze, “ti parcheggiano in veri e propri centri di detenzione, in condizioni terrificanti, per chiederti soldi che i tuoi familiari sono costretti ad inviarti, altrimenti ti sbattono in galera o ti uccidono”. Poi all’improvviso, sotto un cielo stellato, la liberazione. “Siamo partiti da Sabratha, dove ci aspettava uno zodiaco nel quale siamo stati imbarcati di forza e abbandonati al nostro destino”. Il resto del viaggio sono riassunte nelle immagine che concludono “Fuocoammare”, con barconi in cui si stipano dai 120 ai 150 migranti, che ormai possono essere intercettati ad appena 30 miglie dalle coste libiche dalla marina militare italiana o di un altro paese europeo. Il costo dell’odissea – che varia dai 2mila ai 3mila euro – diventa quasi secondario rispetto ai traumi subiti.
Di fronte a tali scenari apocalittici, ho concluso l’intervista con la stessa domanda: “Se fosse da rifare lo rifaresti?”. La riposta è stata univoca: “Mai”.
Dopo il mio viaggio a Lampedusa, il mio sguardo sui migranti come Sow è cambiato. Oggi non provo più indifferenza, ma compassione e soprattutto rabbia. Rabbia nei confronti di chi, in Africa, non è in grado di offrire un futuro migliore a cui aspirano legittimamente milioni di giovani africani.
Traduzione di Joshua Massarenti.
Patrick Ndungidi è giornalista congolese. Da Bruxelles, collabora con l’agenzia di stampa Les Dépeches de Brazzaville, il mensile Forbes Afrique e tiene un blog sull’Huffington Post. Patrick si è recato a Lampedusa assieme a Joshua Massarenti, per svolgere un reportage nell’ambito di un progetto editoriale co-finanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale (MAECI) che associa Vita a 25 media africani.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.