«Sono Manuele e all’età di sei anni sono diventato completamente non vedente». Si presenta così Manuele Bravi, oggi trentatreenne, store excellence team e quality and inclusion specialist per Procter&Gamble, multinazionale leader di beni di largo consumo, proprietaria di marchi famosi come Dash e Gillette. «Sono nato e cresciuto a Rimini, in Romagna, ho frequentato le scuole lì. Quando ho fatto la domanda per la magistrale, non ci sono entrato per due punti. In quel momento mi si apriva un’alternativa. O rimanere dov’ero e fare un anno sabbatico o lanciarmi in un territorio completamente inesplorato. Ho deciso di lanciarmi, così sono andato a Milano». Nel capoluogo lombardo, Bravi ha finito il suo percorso accademico in psicologia del lavoro. «Arrivare dal paese di provincia alla grande metropoli è stato abbastanza intenso all’inizio», commenta. Dopo la laurea, ha iniziato a svolgere una serie di lavoro a progetto, con diverse aziende e società, sul tema della sensibilizzazione sulla disabilità, ma anche dando vita a tutta una serie di attività che sviluppassero la comunicazione, il team building, la leadership e la creatività. Tutto questo fino al lockdown. «A Milano mi ero costruito un’autonomia, vivendo completamente da solo», ricorda, «per esempio facevo la spesa, che mi veniva consegnata a casa, con la sintesi vocale del mio telefono. Nel periodo della pandemia si è bloccato tutto quanto. Non riuscivo ad avere soddisfatti nemmeno i miei bisogni primari, così sono tornato a Rimini, nel ruolo di figlio. È stato un momento di fermo, in cui ho riflettuto su quello che facevo, a livello personale e professionale. Ho iniziato il percorso di finalizzazione del tirocinio che avevo lasciato in sospeso». È a questo punto che Bravi, per una serie di coincidenze, è venuto a contatto con Procter&Gamble.
«Quando sono entrato in questo ambiente mi sono innamorato della cultura aziendale», afferma, «è un terreno fertile, aperto all’innovazione per cercare di raggiungere l’effettiva inclusione lavorativa». Il lavoro è di base in smart working a Milano, ma non mancano le occasioni per alcune trasferte a Roma, dove incontrare i colleghi, interagire e aumentare la cultura aziendale. L’esperienza diretta, la conoscenza, infatti, sono un elemento chiave per andare oltre i pregiudizi e gli stereotipi e comprendere per davvero le esigenze dell’altro. Figure come quella di Bravi, in un’impresa, sono indispensabili per comprendere quali provvedimenti adottare per essere più accessibili, sia al proprio interno, con i lavoratori – pensando, per esempio, a un modo diverso di organizzare le slide nelle presentazioni, in modo che siano fruibili anche attraverso la sintesi vocale –, sia all’esterno, verso i clienti. Le confezioni delle nuove Power pods per il bucato di Dash, per esempio, sono progettate per essere utilizzabili anche da chi ha una qualche forma di disabilità; per la prima volta in Italia, sulla confezione di un detersivo per lavatrice compaiono un marcatore tattile e un QR code che aiutano le persone non vedenti a riconoscere il prodotto. In più, il packaging è ergonomico, in modo da essere aperto senza troppi problemi anche da coloro che hanno più difficoltà nei movimenti delle mani. La diversità, all’interno di un’azienda, si sta dimostrando ogni giorno di più una ricchezza. Eppure, nel nostro Paese, manca ancora una vera cultura dell’inclusione. «In Italia ad avere un impiego sono solo tre persone con disabilità su dieci», spiega Bravi. «Su questo sicuramente ci sono delle considerazioni da fare».
A volte, a farla da padrone, è lo stereotipo per cui una persona con disabilità sarebbe meno produttiva, altre volte a mancare è l’innovazione, la creatività e la fantasia per adattare le posizioni lavorative alle esigenze di tutti. Il primo scoglio può essere anche la stesura e l’invio del curriculum: sia nelle offerte che nella ricezione dei profili, non sempre le imprese sono aperte e accessibili, anche senza volerlo. «C’è anche tutto un discorso sulla cultura aziendale, che però, secondo me, sta cambiando molto, soprattutto a partire dal Covid-19, che ci ha messo davanti a delle fragilità», commenta Bravi. «Si è posta più attenzione al fatto che non siamo invincibili, ci possiamo ammalare ed essere in qualche modo diversi dal solito: questo ha aumentato l’attenzione anche verso chi quotidianamente e indipendentemente dalla pandemia si doveva adattare alle circostanze». Le persone con disabilità, si sa, sono molto diverse tra loro e rappresentano ufficialmente il 5% della popolazione. Ufficiosamente, però, sono molte di più: non esiste solo chi è certificato. E c’è anche chi è in difficoltà, pur non avendo una disabilità: chi, per esempio, fa molta fatica a leggere al computer perché ha gli occhiali spessi e gli mancano parecchie diottrie. O chi ha delle esigenze particolari solo per un periodo limitato di tempo perché, magari, si è rotto una gamba. Per essere accessibili per tutti, non c’è un ricettario che le aziende possono seguire. «La parola d’ordine è semplificare», chiosa Bravi. «Più le cose sono fatte in maniera semplice, maggiori probabilità si hanno di essere accoglienti per persone anche molto variegate». Per evitare di fermarsi a un’inclusione superficiale, c’è bisogno di uno studio a 360 gradi su quello che significa disabilità e inserimento sociale. E una consapevolezza: la disabilità non è una caratteristica innata della persona, ma è sempre legata al contesto sociale in cui viviamo e può non essere permanente, ma temporanea. «Mi viene da dire che tutti, prima o poi, nella vita veniamo a contatto con essa», continua Bravi. «In realtà c’è sempre più curiosità su questo tema ed è una cosa positiva, perché ci si rende conto che tocca ciascuno di noi: magari diventando anziani si fa un po’ più fatica a muoversi o si sente sempre meno, ma bisogna essere messi nelle condizioni di avere delle alternative per continuare a fare quello che si faceva prima. Investire sull’accessibilità è un po’ investire su un futuro che comprende tutti quanti».
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