«Non credo di esagerare, dicendo che il bipolarismo mi ha rubato un bel pezzo di vita, influendo in moltissimi modi nel corso della mia storia». Andrea Pinna, content creator, ex partecipante di Pechino express e ideatore della pagina «LePerlediPinna», con oltre 400mila follower su Facebook e Instagram, nel suo libro Il mio lato (B)polare, uscito per HarperCollins, racconta sé stesso e la sua malattia senza fare sconti, ma senza perdere l’ironia che lo caratterizza . L’influencer si mette a nudo, si mostra fragile: porta una testimonianza allo stesso tempo singolare e universale, una storia potente che vuole affermare la capacità di autonarrazione di chi vive un disagio psichico. E combatte contro lo stigma che, ancora troppo spesso, circonda la malattia mentale.
Per quale motivo ha sentito il bisogno di raccontarsi e di raccontare la sua malattia?
Mentre mi accadeva tutto quello che è successo, già sentivo che avrei voluto scriverlo, non tanto per una diffusione verso terzi, quanto per imprimerlo nella mia memoria. Quando a sessant’anni vorrò ricordarmi di questo periodo, rileggerò il libro. Ovviamente quando stavo male non ero in grado di scrivere, quindi era solo un’idea. Poi, quando ho iniziato a interessarmi in maniera importante alla psicologia e alla psichiatria, anche a livello mediatico, guardando interviste e servizi televisivi, mi sono accorto che quattro volte su cinque chi parla di salute mentale di salute mentale, tolti gli psicologi e gli psichiatri, sono persone che non sono coinvolte. Nessuno si prende la briga di chiamare qualcuno che la malattia la vive davvero. È un po’ come se mettessero cinque uomini su un palco a parlare di mestruazioni. È talmente forte lo stigma verso la psichiatria e gli psicofarmaci che ho pensato che forse raccontare la mia esperienza poteva essere d’aiuto. Non tanto perché è la mia, ma perché la maggior parte delle persone che vivono un problema di salute mentale non lo dicono o addirittura non si curano. La situazione è molto grave se si pensa che due individui su otto hanno un problema di salute mentale, significa che se sali sul tram ne trovi già quattro. Il libro quindi l’ho scritto per me, per chi sta male e per chi gli è vicino, parente o amico e non sa come comportarsi.
La sua malattia, il bipolarismo, è difficile da diagnosticare, come testimonia anche il racconto che lei fa nel suo libro.
Non è come una frattura, che si riconosce con una radiografia. Ci vuole del tempo per diagnosticarlo e lo si fa attraverso dei test con dei farmaci. Si va a step. Prima del bipolarismo c’è la ciclotimia, che è molto simile, solo che è più soft. Il problema è che chi è bipolare sta talmente male che a un certo punto va a curarsi. I ciclotimici, poiché stanno male ma non troppo, nella maggior parte dei casi non si curano e passano una vita davvero difficile, perché non trovano il coraggio di andare dal medico e sono convinti di essere fatti così e basta. Questo, però, è un discorso che non sta in piedi: non sei fatto così, dovresti cercare aiuto. I ciclotimici prendono anche meno medicine, una pastiglia e basta. All’inizio per me avevano supposto questa diagnosi, ma dopo alcuni episodi molto pesanti mi hanno detto che ero bipolare.
A un certo punto, nel libro, dice che nei confronti della sua malattia prova rabbia e tristezza. Ci può spiegare in che senso e se c’è qualcos’altro oltre a queste due emozioni?
La cosa che mi ha dato più fastidio è stata che la malattia è stata contemporanea al mio momento lavorativo più bello. Da una parte avevo il massimo al lavoro – ho viaggiato tantissimo, anche se non sono una persona venale devo dire che ho guadagnato bene –, dall’altra non me lo sono goduto per nulla, perché stavo malissimo psicologicamente. La tristezza deriva dall’aver fatto preoccupare le persone che mi vogliono bene. Quello che ho passato io francamente l’ho perdonato, è andata così, pazienza. È per gli altri che mi dispiace di più. Una volta ho chiamato una mia amica e le ho detto: «Basta, ora mi butto dal balcone», ho lasciato il telefono acceso e sono sparito. Poi sono tornato alla cornetta e le ho detto «Ciao, che c’è? Perché sei al telefono con me?». Mi ero dimenticato tutto, mentre lei per quattro minuti è rimasta convinta che mi fossi buttata. Le persone che mi volevano bene erano anche lontane, perché l’apice è stato durante l’epidemia; una combo terribile, perché se la situazione fosse stata differente qualcuno sarebbe venuto a casa da me e magari le cose non sarebbero state così gravi. Non bisogna però dare troppe colpe alla malattia. Io ho iniziato con «Le perle di Pinna» scrivendo circa 60 status al giorno, cosa in linea con la fase up del mio disturbo; il bipolarismo mi ha tolto tanto, ma mi ha dato anche qualcosa. Fossi stato più allineato magari non avrei fatto questo lavoro.
Lei racconta anche di persone che se ne sono andate perché non riuscivano più a sostenere le difficoltà legate alla sua malattia. Che consiglio darebbe a chi è vicino a qualcuno che soffre per un disturbo mentale?
Bisogna stare vicino alle persone senza giudicarle, pensando che devono fare un processo. Prima che io andassi in clinica ci sono voluti dei mesi, ho dovuto elaborare quanto stava succedendo, ci vuole pazienza. Il paziente si giudica già da solo, perché si sente sbagliato. Se poi chi gli sta vicino gli dice che si comporta male, che sbaglia perché magari non chiama, la situazione peggiora. Mi ricordo che un giorno, quando stavo male perché stavano male le persone accanto a me, il mio psichiatra mi disse: «Le serve un po’ di sano egoismo, perché lei non è in grado di caricarsi del dolore altrui. Pensi a stare meglio lei e quando lo farà staranno meglio anche gli altri».
Lei, diceva, è stato in una clinica per persone con disturbo bipolare. Qual è stata la sua esperienza?
Sono stato malissimo due o tre settimane prima di andarci, mi sentivo come se stessi andando in galera, l’idea di stare rinchiuso mi stava distruggendo. C’era il Covid, quindi non potevamo avere visite; ma se non ci fosse stata l’epidemia quel posto sarebbe stato quasi un hotel: c’era un parco stupendo dove venivano a prendere il sole anche persone da fuori, l’equipe era formidabile ed era in una villa dell’Ottocento meravigliosa. Ricoverati, però, c’erano anche dei bipolari più sfortunati di me; io ho avuto la fortuna di potermi permettere 400 o 500 euro di cure al mese, ma ci sono anche persone senza lavoro, magari con altre patologie oltre al bipolarismo, che vanno in clinica, fanno un percorso, escono, non hanno i soldi per i farmaci, viene loro un attacco psicotico, ricevono un tso (trattamento sanitario obbligatorio, ndr) e vengono rimandati in clinica e così via. C’era un ragazzo di 20 anni che sarà stato ricoverato 20 volte.
Quello che l’ha aiutata di più è stato trovare il dosaggio giusto per i farmaci?
L’elemento più importante sono le medicine, che però non funzionano dall’oggi al domani, è un processo che va per tentativi; io per esempio sono resistente agli antidepressivi, se apri il bugiardino di uno psicofarmaco c’è la possibilità di avere 500 effetti collaterali. Per noi bipolari, in più, bisogna trovare sempre l’equilibrio giusto per ogni periodo, c’è una base e poi si fanno delle modifiche: abbiamo un’oscillazione dell’umore incontrollata e a seconda di come l’umore oscilla dobbiamo aggiustare i farmaci. Ci vuole un buon psichiatra, ma anche molta pazienza e sincerità da parte della persona con una malattia mentale. Quando una medicina mi fa male, io chiamo immediatamente, così il farmaco viene sostituito. La terapia difficilmente si indovina al primo colpo, magari all’inizio si sta anche peggio di prima: per questo molti mollano.
Però lei conclude il libro dicendo che ora sta bene.
Io voglio essere onesto, un bipolare trattato come sono io sta bene l’85% dell’anno, mentre il restante 15% è più fragile. Anche quando stai meglio devi avere delle accortezze. Io, per esempio, devo bere caffè decaffeinato, non posso assumere eccitanti. Nel momento in cui il tuo problema è l’umore, devi evitare tutto ciò che ti può mandare su o giù.
Essendo un influencer, sente delle responsabilità in più?
Io non mi ritengo assolutamente un esempio di nulla e non mi piace il fatto che qualunque persona abbia un po’ di seguito debba diventare un esempio. Per me un esempio è Mattarella, io sono un ragazzo qualsiasi. Però, lavorando sui social e quindi raccontandomi quotidianamente non potevo non spiegare cosa avessi perché ho dei follower che mi seguono da 13 anni; quando mi vedono con gli occhi storti, che farfuglio, possono pensare che mi sono fatto di lsd, cosa mai successa, mentre sto semplicemente avendo una crisi. Non si può raccontare tutto nelle stories o in una diretta, è troppo lungo, così ho deciso di scrivere il libro.
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