Il numero di aprile di VITA si è occupato del fonomeno della filantropia di impresa, “Fondazioni Spa” era il titolo del magazine, che potete acquistare nello store del portale. Di seguito trovate l’intervista integrale a Paolo Morerio, presidente di Fondazione Peppino Vismara, uno delle più munifiche realtà italiane.
Giuseppe “Peppino” Vismara è stato ungrande filantropo italiano. Vissuto fra ‘800 e ‘900, fu industriale della carta ma anche dell’editoria (la Gazzetta dello Sport) e della cinematografia (Icmea di Monza), fondò il Credito Artigiano e ne attribuì la proprietà a un ente di beneficenza. Costruì oratori, campi sportivi, chiese. Negli ultimi decenni della sua vita (morì nel 1974), dispose che un grande patrimonio fosse destinato a scopi benefici, patrimonio che per la maggior parte confluì nella Fondazione che porta il suo nome, attiva dal 1980. La Fondazione prosegue l’opera di Peppino Vismara con la stessa discrezione e sobrietà, distribuendo risorse importanti. Tra i 5 e i 10 milioni di euro all’anno . Fuori dal mondo delle fondazioni ex-bancarie, una delle maggiori realtà filantropiche del Paese. La guida Paolo Morerio, nipote dell’industriale. Dopo tanti garbati dinieghi, ha accettato di farsi intervistare da VITA.
Presidente, che senso ha fare filantropia? Non solo in Italia ma nel mondo. Siamo infatti a pochi giorni dal fallimento di una banca, altre scricchiolano: soldi che paiono finir male. Qui si parla invece di danari che vogliono finir bene, costruirlo il mondo.
La filantropia, quand’è efficace, è importantissima perché viviamo in un mondo in cui c’è bisogno di esempi, di persone che facciano da apripista su determinate tematiche. Spesso il Terzo settore è chiamato a fare supplenza rispetto a compiti di cui si dovrebbe occupare lo Stato; il tentativo quindi è di farlo in un modo che oggi si tende a definire «innovativo». Io però non amo molto questo termine…
Lo cambierebbe?
Sì, lo sostituirei con una parola più realistica, come «efficace». Bisogna dimostrare all’ente pubblico – e non solo – che certi temi possono essere affrontati e risolti senza necessariamente spendere cifre pazzesche. Serve una filantropia che, pur nella consapevolezza di essere supplente, sia uno stimolo, uno sprone ad affrontare i problemi in modo più serio e, alcune volte, più onesto.
Per esempio?
Per esempio noi preferiamo sostenere un ente per più anni che cinque enti per un anno solo, perché se una realtà ha un progetto o un servizio da strutturare, una problematica da affrontare, che spesso, quando si parla di Terzo settore, riguarda le categorie più svantaggiate, un’annualità non è sufficiente. Noi cerchiamo di accompagnare, in modo da non metter l’ansia di dover per forza raggiungere troppi risultati in tempi brevi. Poi ci capita di finanziare anche l’acquisto, per esempio, di un pulmino, ma quando ci sono progetti che cercano di affrontare una situazione più complessa, c’è bisogno di fare un percorso che aiuti l’ente a strutturarsi, a diventare solido, dandogli le competenze necessarie perché diventi autosufficiente. La filantropia, in questo, è molto importante, perché spesso il Terzo settore da solo è estremamente fragile.
Spieghiamolo bene, presidente.
Vede, per sua natura, il Terzo settore svolge delle attività nelle quali i margini sono molto risicati. Poi, c’è anche da dire che molto frequentemente il pubblico demanda a queste realtà i servizi scomodi, faticosi e complicati da mettere in piedi, con bandi che, tra l’altro, sono sempre al ribasso. Faccio un esempio.
Prego.
Il Comune di Milano e l’Azienda lombarda per l’edilizia residenziale – Aler, negli ultimi anni, hanno dato in uso alcuni appartamenti a enti del Terzo settore, perché venissero sistemati e dati in affitto calmierato a persone vulnerabili; il problema era che partecipare al bando, per come era strutturato, era impossibile, a meno di non avere altri finanziamenti, perché gli alloggi erano sostanzialmente ridotti ai muri perimetrali e poco più. Quindi hanno potuto vincere solo realtà che avevano altri fondi da noi o da altre Fondazioni.
La vostra vuole essere invece una filantropia che renda autonomi.
L’idea è proprio questa: se facciamo sì che un ente venga da noi, ci chieda un contributo e, dopo qualche anno, torni di nuovo a domandare fondi per la stessa attività, significa che abbiamo affrontato e risolto poco. La nostra soddisfazione, invece, arriva quando possiamo dire che una realtà ci ha chiesto un aiuto, l’abbiamo accompagnata per un po’ di anni, abbiamo fatto fatica insieme, ma adesso cammina da sola.
Perché accade che non si cresca?
Spesso, bisogna dirlo, il Terzo settore è fragile anche dal punto di vista imprenditoriale e organizzativo, perché parte da esperienze di grande cuore, ma con scarse competenze. Ci sono anche cooperative e associazioni che erogano servizi di altissimo livello, ma frequentemente capita di interagire con persone che fanno molta fatica, proprio perché mancano alcune basi. Quindi, a volte, ci capita di accompagnare gli enti anche su aspetti organizzativi, dall’organigramma interno al bilancio, per esempio. Perché alla fine, per quanto benefiche, si tratta di attività che spesso sono di impresa, che devono stare in piedi e necessitano di adeguate competenze, anche manageriali.
Richiedete una valutazione dei progetti che finanziate?
È un tema molto complicato per una serie di ragioni. La prima è che spesso i progetti non sono enormi e mettere a budget una valutazione d’impatto seria richiederebbe una cifra che si avvicina allo stesso ordine di grandezza dell’investimento che si fa per l’attività. In alcuni casi la valutazione si fa, magari molto semplificata. Su questo ritengo, con sincerità, che ci sia ancora molto da lavorare, perché bisognerebbe ripetere il monitoraggio non solo alla fine dei lavori, ma anche sul lungo periodo, per verificare se il progetto regge o meno. A volte qualche risultato l’abbiamo, ma è un argomento complesso: in alcuni casi ci vorrebbero dei gruppi di controllo per fare un’analisi; bisognerebbe prendere in esame la categoria dei beneficiari, mettendola a confronto con persone con caratteristiche analoghe che non hanno avuto accesso al servizio.
Un po’ come il sistema del “doppio cieco” dei trials clinici: i pazienti trattati col farmaco e quelli che ricevono il placebo.
Esatto. Il problema è che spesso è un’attività molto costosa. Se sei una grande impresa e impieghi il 2% dei fondi a disposizione, è fattibile, ma se sei una piccola realtà e devi utilizzare il 30-40% delle risorse disponibili per il progetto, diventa complicato.
Quanto erogate, presidente?
In questi anni c’è stata la pandemia che ha sbilanciato un po’ tutto. Possiamo però dire che siamo tra i cinque e i 10 milioni all’anno.
Le è capitato di chiedersi cosa farebbe, oggi, Peppino Vismara?
Personalmente mi sono fatto spesso questa domanda e non ho trovato risposte; credo che non ce ne siano. Perché il mondo è talmente cambiato che sicuramente lui, per primo, farebbe qualcosa di diverso rispetto a quello che ha fatto allora. Quello che noi dobbiamo mantenere, però, è l’approccio. Capire quali sono i bisogni di una società, quali sono le realtà su cui si giocano le drammaticità e le crisi più importanti sulle quali si deve intervenire. Peppino Vismara, alla fine della Seconda guerra mondiale, era già anziano, però aveva una lunga esperienza nel mondo cattolico, da ragazzo era stato addirittura responsabile di oratorio a Monza, così si è molto dedicato alla ricostruzione dei luoghi di culto e degli spazi per i giovani all’interno delle attività della Chiesa di cui faceva parte e non solo. Aiutò in particolare il cardinale Ildefonso Schuster e poi il cardinale Giovan Battista Montini: Milano era da ricostruire in quanto è stata la città più bombardata d’Italia, perché c’era l’industria. In più, nel dopoguerra c’è stata l’esplosione dell’immigrazione, che ha fatto nascere interi nuovi quartieri, che abbisognavano di strutture. Lui ha lavorato molto in questa direzione, ed il terzo settore, così come lo intendiamo oggi, non esisteva.
Peppino Vismara aveva un approccio che potremmo definire evangelico: «Non sappia la mano destra quello che fa la sinistra». Da questo si può capire una certa nostra ritrosia a mostrarci; siamo fedeli al suo modo d’essere, in un’epoca in cui c’è sempre bisogno di sfoggiare una targa e rivendicare i gesti di solidarietà
Paolo Morerio, presidente Fondazione Peppino Vismara
Sostenne la costruzione di quelle numerose chiese con cui Montini rianimò le periferie e l’hinterland…
Noi discendenti non sappiamo esattamente quanti edifici di culto ed oratori siano stati fatti costruire da Peppino Vismara, perché faceva beneficenza di nascosto, non voleva comparire. Erano indubbiamente altri tempi, però aveva un approccio che potremmo definire evangelico: «Non sappia la mano destra quello che fa la sinistra». Da questo si può capire una certa nostra ritrosia a mostrarci; siamo fedeli al suo modo d’essere, in un’epoca in cui c’è sempre bisogno di sfoggiare una targa e rivendicare i gesti di solidarietà; per noi quello che conta è raggiungere i più bisognosi e meno visibili nella maniera più efficace possibile.
Era un grande imprenditore, uno che fondava banche. Come teneva insieme tutto, l’intraprendere e il donare?
Era una persona molto particolare; per esempio quando creò il Credito Artigiano, lo fece nascere già come proprietà di un ente di beneficenza, se ne spossessò già durante la costituzione. Erano altri tempi, ma c’era un fortissimo legame tra la sua attività di benefattore e quella di imprenditore.
Presidente, parliamo di “fondazioni di impresa”. Secondo lei, oggi, Peppino Vismara potrebbe essere un modello per quegli imprenditori che vogliano anche essere filantropi?
Quello a cui ho accennato era un suo modo d’essere, non si può chiedere a tutti di avere la stessa sensibilità. Poi c’è un altro elemento: il mondo di oggi, dal punto di vista imprenditoriale, è molto più complicato di quello di allora, quando bastava aver una buona idea e un po’ di soldi da investire, perché mancava tutto. Lui ha lavorato in periodi molto particolari, dopo le guerre mondiali, in situazioni economiche molto specifiche. Oggi viviamo in un mondo così globalizzato, competitivo, che un’azienda non può che essere tremendamente efficiente per stare sul mercato, quindi capisco che ci debba essere anche una cesura netta tra attività imprenditoriale e attività filantropica. Ovviamente, se uno ha dei valori che lo portano a fare filantropia, dovrebbe poi viverli coerentemente anche nell’azienda.
Che rapporto c’è fra ricchezza e bene? Lei, che idea si è fatto?
È un tema interessantissimo, su cui ho riflettuto parecchio, perché mi sono sentito molto interrogato. Sicuramente il denaro è una grandissima opportunità; non è qualcosa che sia “sporca” di per sé, come non lo è la politica: siamo noi che lo sporchiamo se ne facciamo un cattivo uso. In fondo, il denaro è semplicemente uno strumento, una facilitazione, che consente lo scambio. E lo scambio è una delle attività più positive dell’umanità. Quindi i soldi sono qualcosa di positivo se utilizzato in quest’ottica. Se però vengono visti come fine e non come mezzo, se diventano occasione di rapina, allora sì che hanno un valore negativo. Dipende, come sempre, dai valori e dagli obiettivi delle persone. Il filosofo Umberto Galimberti dice che l’uomo di oggi, ha sostanzialmente sostituito il riferimento del Medioevo a Dio con il denaro. È un’osservazione forte, ma anche molto intelligente.. Poi, purtroppo, c’è anche la situazione opposta, per chi vive il denaro come un’angoscia quotidiana perché non riesce a far quadrare i conti., ed è una realtà dolorosamente sempre più diffusa.
Sì è mai calcolato a quanto ammontasse il patrimonio donato da Vismara?
Bisognerebbe calcolarlo tenendo conto dell’inflazione, ma è un esercizio che non mi entusiasma. Penso che dalle origini della Fondazione ad oggi si siano senz’altro superati i 100 milioni di euro di elargizioni.
Era un campione di un’industria diversa da quella attuale…
L’industria di allora era per lo più, soprattutto dalle nostre parti, di piccole dimensioni, l’imprenditore aveva la sua fabbrica, dove c’erano i suoi operai, che vedeva direttamente, come persone. L’azienda, allora, era anche un luogo di relazioni, magari anche conflittuali, come coi sindacati, ma pur sempre relazioni.
Oggi?
Oggi la classe imprenditoriale è molto finanziarizzata e questo fenomeno rende tutto più etereo, molto più sfuggente. Si riflette decisamente meno sul fatto che dietro tutto quello che tu fai ci sono delle persone, perché tu ti muovi al computer, compri titoli, li vendi, fai delle operazioni di hedging, quindi ti può sfuggire l’aspetto umano. Invece, l’industriale lombardo del dopoguerra era molto più legato, nel concreto, alla sua attività. Per dirla con il sociologo Zygmunt Bauman: oggi la società è diventata molto più liquida.
Quella oltretutto era un’industria molto “made in Brianza”, coi suoi valori, la sua identità…
A volte l’azienda aveva, a fianco le case per gli operai, una “scuoletta”, che sicuramente era funzionale anche all’azienda, ma, intanto, la gente imparava a leggere e a scrivere, e aveva un tetto sotto cui dormire. Oggi molte imprese hanno un pezzo in un luogo e un pezzo in un altro, magari i dipendenti lavorano al computer e non si sono nemmeno mai visti tra di loro. In questo contesto, è anche più difficile immaginare le attività benefiche. Ma ci sono ancora, e questo è un elemento di speranza per il futuro.
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