«Erano gli inizi degli anni Ottanta. Avevamo vent’anni (chi più chi meno), il movimento studentesco apparteneva al passato e dovevamo scegliere cosa fare della nostra vita (…). Anche se avevamo preso atto che non potevamo cambiare il mondo, ci sarebbe piaciuto fare qualcosa per migliorarlo».
Inizia così il libro “40 – i nostri anni di solidarietà” di Maurizio Carrara, presidente ad honorem di Fondazione Cesvi, che racconta i primi 40 anni di una delle più importanti ong italiane, oggi presente in 27 Paesi. Che solo nel 2023 ha supportato un milione e 700mila persone con 127 progetti e 139 partner locali.
Un libro scandito dallo scorrere degli anni. Dove la storia del mondo si intreccia con quella della crescita di Cesvi. Si parte nel 1985, l’anno in cui Carrara, Paolo Caroli e altri 15 italiani impegnati nella solidarietà internazionale costituiscono l’associazione Cesvi. Nello stesso anno in Uruguay finisce la dittatura che durava dal 1973 e ancora negli Usa scoppia L’Irangate, lo scandalo delle armi vendute all’Iran in cambio della liberazione degli ostaggi americani in Libano. Cesvi diventa ong nel 1986 e firma il primo progetto di educazione allo sviluppo “La storia nel cassetto”, un progetto di educazione allo sviluppo e alla cultura delle differenze in Italia. In quello stesso anno nella centrale nucleare di Chernobyl si verifica uno degli incidenti più gravi della storia dell’energia atomica. Le pagine di questo libro, un viaggio che arriva al 2024 – in cui continuano le guerre in Ucraina e Sudan, dove abbiamo assistito alla tragedia umanitaria nella Striscia di Gaza, alla siccità e alle alluvioni nel Corno d’Africa – si riempiono dei centinaia di progetti che l’ong ha portato avanti per rispondere alle emergenze, ma non mancano i progetti di sviluppo, protezione, salute. «Aver messo mano e testa ai 40 di Cesvi mi ha fatto rivivere momenti fantastici di una lunga galoppata per conquistare uno spazio di ideali e azioni», dice Carrara.
Come si è appassionato all’attivismo e alla cooperazione?
A 17 o 18 anni sono stato travolto dal movimento studentesco. Ad agganciarmi è stato il tema della solidarietà che è istintiva, che ha più cuore che cervello. Poi è arrivata la cooperazione che, quando è fatta bene, mette insieme cuore e testa. Non volevo prestare servizio militare e appena dopo la laurea scelsi di fare il servizio di volontariato internazionale. Incontrai Felice Rizzi, presidente della Focsiv (Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana). Mi consigliò di andare in Africa, e io andai. Rientrato a Bergamo, sempre Rizzi, mi mise in contatto con il Movimento Laici America Latina: era l’aprile del 1983 e stavo partendo per il Nicaragua. Tornato fondai il Comitato Italia – Nicaragua Bergamo di cui fecero parte alcuni dei futuri fondatori di Cesvi come Paolo Caroli; Fabio Parolini; Giorgio Costa. Insieme ci convincemmo che dovevamo fare qualcosa di più: fondare un’organizzazione laica e indipendente. Avevamo due punti fermi: fare attività concrete nei Paesi in via di sviluppo e sensibilizzare l’opinione pubblica italiana sui temi della cooperazione e della solidarietà internazionale. All’inizio ci occupammo solo dell’America Latina. Dopo il 1990 iniziammo a lavorare in Asia e nei Balcani travolti dalla guerra civile. Poi arrivammo in Africa.
Perché un libro?
Perché può capitare che la storia delle organizzazioni a volte si perda. E per i nostri 40 anni volevamo farci un regalo: un libro che raccontasse anno per anno gli interventi che abbiamo fatto sempre tenendo presente quello che accadeva nel mondo. Perciò nel libro si intrecciano progetti, testimonianze, fatti storici e certamente le emozioni vissute sul campo. Oggi con Cesvi lavorano circa 100 persone e l’età media è di 38 anni e mezzo. Quindi è importante ricordare com’è nata questa nostra organizzazione e soprattutto con quali motivazioni. Siamo nati anche da un desiderio: quello di “fare bene il bene”.
Quali sono stati gli anni più difficili?
La prima fase delle nostra fondazione. Abbiamo avuto qualche difficoltà. È stata un’avventura di corsa ma straordinaria. Un’impresa “corsara e dell’innovazione”.
Siete stati, nel 1997, la prima organizzazione umanitaria ad aprire un ufficio a Pyongyang, la capitale della Corea del Nord
Era un Paese isolato e stremato dalla crisi economica. Secondo le Nazioni Unite si contavano oltre 2 milioni di morti per la fame. Lanciammo una campagna di raccolta fondi “Sos Corea del Nord” – realizzata gratuitamente dallo studio D’Adda Lorenzini Vigorelli – e per la prima volta Cesvi utilizza un numero verde. E in quegli anni e per quella campagna che ho conosciuto l’amico Riccardo Bonacina. Con questa campagna abbiamo ottenuto più di 3mila passaggi radiofonici e televisivi gratuiti. Ed è con quello spot che cominciammo a raccogliere milioni di lire. Ero talmente emozionato delle telefonate che ricevevamo, i telefoni suonavano tutti insieme grazie a quello spot. Andavo nella sede di Cesvi anche il sabato e la domenica. Cesvi per me è stato un innamoramento folle, quello da perderci la testa. Arrivavano anche tanti bollettini postali da 5mila lire, 10mila, 20mila. Piccoli importi di gente normale. E lì ho capito che avevamo messo in moto una macchina ed era questo il segreto della raccolta fondi: mandare un messaggio alle persone. Una macchina che poi si è sviluppata molto in questi 40 anni.
C’è un progetto o un Paese a cui è particolarmente legato?
Lo Zimbabwe. Lo Zimbabwe negli anni 2000.
Ci racconta perché?
L’Aids era diventato una catastrofe. Lo scenario nel Paese era apocalittico. Una nostra segretaria era morta, un nostro camionista pure, il nostro autista era sieropositivo. Una generazione intera devastata dal virus. Piersilvio Fagiano, coordinatore dell’attività di Cesvi nel Paese, conosce la pediatra Claudia Gandolfi. È da lei che Fagiano viene a conoscenza di un protocollo per la prevenzione verticale dell’Aids. In pratica per evitare che una donna in gravidanza passasse il virus al suo bambino bastava una pillola. A confermare la cosa anche l’Organizzazione mondiale della Sanità. Ma a produrre questa pasticca, la Nevirapina, era solo una casa farmaceutica. In Zimbabwe le autorità non stavano facendo niente, credevano che il virus non esistesse. Però la gente moriva a tonnellate. Individuammo un piccolo ospedale a 300 chilometri da Harare, il Saint Albert, gestito dalla suora laica Elisabeth Tarira. Dovevamo convincere le donne incinte e sieropositive a venire in ospedale e sottoporsi alla profilassi. E non era una cosa semplice, c’era uno stigma culturale pesantissimo. Quando decidemmo di avviare il progetto con l’Aids in Zimbabwe non avevamo ancora attivato una raccolta fondi dedicata. Stanziammo 150mila euro da fondi di riserva. Avevamo speranza di farcela.
È stata ripagata?
Al Saint Albert si presentò Safina, una giovane donna di 23 anni. Aveva avuto un figlio morto di Aids, sapeva quindi di essere sieropositiva. Arrivò incinta, dopo essere stata abbandonata dal marito. Alle suore dell’ospedale disse che il secondo figlio si sarebbe chiamato Takunda, che nella sua lingua significa “abbiamo vinto”.
Safina e Cesvi hanno “vinto”?
Safina era estremamente intelligente, anche se semianalfabeta. Dal suo villaggio fangoso all’ospedale ci volevano oltre due ore di cammino. E lei quella strada l’aveva fatta perché aveva sentito della possibilità di salvare quel suo secondo bambino non ancora nato. Dovevamo fare sul serio, non potevamo sbagliare. La legge locale vietava l’importazione di farmaci nel Paese, ma noi avevamo bisogno del Navirapina. Il ministro della salute zimbabwano, che ho incontrato personalmente, avrebbe garantito per noi. Una mattina alle sei ero fuori al ministero della salute: l’autorizzazione per importare i farmaci era arrivata. Le prime mille dosi del farmaco ci furono regalate dalla casa farmaceutica che le produceva. In questo progetto molte forze, speranze, generosità e idee si sono incastrate. Abbiamo vinto? Sì. Il 9 maggio del 2001 è nato Takunda. Che alla nascita viene sottoposto alla profilassi. Avremmo dovuto aspettare 18 mesi prima di avere la conferma: Takunda era negativo. Dopo di lui sono nati molti altri bambini all’ospedale di Saint Albert.
Com’è cambiata la cooperazione in 40 anni?
Io vengo da una linea di pensiero precisa: la cooperazione internazionale deve fare parte della politica estera di un Paese o del contesto in cui quel Paese è inserito. Nel nostro caso l’Europa. Quando Cesvi è nata, e per i primi anni del nostro lavoro, io ho visto questa vicinanza tra cooperazione allo sviluppo e politica internazionale. E poi, poco alla volta, questa vicinanza l’ho vista deteriorarsi. Oggi credo ci sia proprio uno scollamento tra le due: ognuno va per la propria strada. Vedo anche che le organizzazioni italiane non sono più in grado di creare una massa critica tanto forte per cui l’Italia sia ben rappresentata nelle questioni internazionali. E questi due primi aspetti li considero, ovviamente, negativi. Quello che invece di positivo abbiamo guadagnato nel corso di 40 anni è stata la capacità e l’efficienza con cui le ong italiane si sono strutturate dotandosi di organi di controllo.
Un desiderio per i prossimi 40 anni di Cesvi e di tutto il mondo della cooperazione internazionale?
Sono stati 40 anni di impegno. E come ho scritto nel libro “la sfida dei primi 40 anni è stata anni è stata grandemente vinta, nonostante la frammentazione delle ong italiane, frammentazione che ha reso talvolta meno efficace la nostra capacità di far valere le ragioni dei più poveri del mondo. Gli anni che verranno ci affidano il compito di saper costruire insieme con altri una grande organizzazione in grado di rappresentare la solidarietà del nostro Paese nel mondo. Una ong che sia presente nel territorio italiano – radicata ai propri valori ed esperienze – e proiettata, al contempo, nel sistema globale del pianeta in cui viviamo, perché vogliamo esserci per tutti quelli che sono i più deboli e richiedono il nostro intervento. Il futuro ci aspetta per questa sfida. Noi la raccogliamo”.
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