«Non esiste un progetto inclusivo per tutte le persone, ma dobbiamo tendere a questo», dice l’architetto Cristian Catania, head of Universal design di Lombardini22, gruppo leader in Italia dell’architettura e dell’ingegneria che opera a livello internazionale.
Catania, con la parola “accessibilità” cosa si intende oggi?
Parlo dell’architettura perché è il mio settore, ma l’accessibilità è un metodo di progetto che è applicabile in ogni campo, anche nei servizi e nei prodotti. Se parliamo di ciò che le persone vivono, delle azioni che compiono, delle attività che cercano di svolgere in qualsiasi ambito della vita è possibile creare luoghi che siano accessibili, in ogni ambito di utilizzo. Io lavoro con Lombardini22 da 18 anni, era una struttura di 25 persone, ora ci lavoriamo in 470. Ho lavorato per 15 anni nel retail, tre anni fa abbiamo deciso di investire nell’universal design.
Ci spiega che cos’è l’universal design?
Il design universale è un approccio progettuale che mira a creare ambienti, prodotti e servizi utilizzabili da ognuno, senza bisogno di adattamenti o progettazioni speciali. L’obiettivo è garantire accessibilità, fruibilità e comfort per persone di ogni età, abilità e condizione, con il concepimento di prodotti, strutture e servizi utilizzabili da tutti. Per Lombardini22, adottare una metodologia inclusiva è fondamentale per rispondere ai criteri Esg cui si rifà il sistema valoriale del gruppo, con particolare attenzione alla dimensione sociale. La disabilità delle persone si definisce in rapporto all’ambiente, motivo per cui viene adottata una metodologia progettuale di tipo universale, pienamente inclusiva e accessibile.
Nel suo lavoro di architetto, lei si immedesima nel bisogno e, quindi, scatta un moto di empatia umana oppure il suo ruolo le impone di rimanere distaccato, un po’ asettico?
Non rimango distaccato e asettico. Parto dall’ascolto delle esigenze delle persone che vivranno gli spazi che devo disegnare. Se riesco, incontro gli stakeholder per capire le loro esigenze. Se non mi è possibile, cerco di immedesimarmi, per capire le necessità e anche le ambizioni a cui un progetto di architettura può provare a rispondere. C’è un’empatia nella misura in cui mi immedesimo in chi vivrà quell’esperienza. E, attraverso le competenze ad esempio delle neuroscienze, cerco di capire quali sono le risposte istintive, ancestrali delle persone ai luoghi che andranno a visitare, per dare agli spazi la migliore risposta possibile.
Col tempo ho capito che quando stai facendo un progetto per tutti, lo stai facendo anche per te stesso. Se presti attenzione, se hai delle accortezze, quella cura torna indietro in maniera positiva. Ho imparato che non bisogna parlare di “sensibilità”, le persone non vogliono il nostro pietismo. Basta pensare a fare le cose in modo che possano andar bene per il maggior numero di persone.
Lombardini22 come lavora nell’universal design?
L’idea è una tipologia di progetto che sia più vicino possibile alle persone. I nostri clienti hanno la necessità di far passare tanto tempo di qualità ai loro clienti nelle loro strutture commerciali, perché si possano affezionare, o nei loro alberghi perché abbiano voglia di tornare o ancora nei loro uffici perché lavorino e vivano meglio. Abbiamo deciso di investire nell’universal design quando abbiamo capito che era il caso di far diventare i nostri progetti migliori, ovvero che rispondessero alle necessità di più persone possibili.
Questi progetti migliorano grazie alle collaborazioni che instauriamo. Ad esempio, collaboriamo con Roberto Vitali, co-fondatore di Village for all – V4A (VITA lo ha intervistato QUI, ndr), sempre di più in un’ottica di progettazione partecipata: da partnership come questa abbiamo il polso di quello che realmente si riesce ad ottenere facendo i progetti per tutti. Ci occupiamo, da due anni, di uno spazio esperienziale che si chiama “Di ognuno”, proprio perché sono progetti che appartengono a tutti noi.

Cos’è “Di ognuno”?
Uno stand dedicato all’accessibilità nel settore dell’industria alberghiera ed extra alberghiera. È un progetto pluriennale. Il tema dell’anno scorso era la reception, quello di quest’anno è la progettazione di una sala colazioni inclusiva e confortevole, che valorizza le diverse esigenze di accessibilità alimentari, fisiche e cognitive, ricorrendo a soluzioni progettuali mirate. Il concept è frutto della volontà di “Hospitality”, la fiera internazionale per l’hotellerie e la ristorazione organizzata da Riva del Garda Fierecongressi, di sviluppare un’area che raccontasse l’ospitalità accessibile. Lo stand sarà visitabile anche alla fiera “We Make Future” di Bologna, dal 4 al 6 giugno prossimi. L’idea è stata studiata e realizzata dal team di architetti di Lombardini22, specializzati in progettazione fieristica e accessibilità, e grazie alla consulenza di Village for all – V4A.
L’obiettivo di “Di ognuno” è quello di proporre un’esperienza immersiva che metta in evidenza le criticità di una progettazione poco inclusiva e, al tempo stesso, dimostrare come intervenire per migliorare l’accessibilità e il benessere di tutti gli utenti. La Fiera Hospitality riconosce l’opportunità di parlare agli operatori di questo ambito perché possano trovare una possibilità di allargamento del target al quale dare risposta nelle loro strutture.

Io trovo molto saggio e forte un messaggio di questo tipo: le fiere sono dei luoghi dove si può anche apprendere, oltre che vendere dei prodotti. Significa parlare di inclusione sia per le persone che possono essere clienti che per chi può lavorare nelle strutture. Con “Di ognuno” l’obiettivo è di fare un allestimento in cui i visitatori siano attori dello spazio. Facciamo ad esempio mettere le persone su una sedia a rotelle e facciamo provare cosa significa.
In che modo i visitatori sono attori dello spazio?
Ad esempio, prendendo lo yogurt da una ciotola che è posta a un metro e dieci di altezza, come spesso avviene sul bancone di una sala colazioni. Oppure mettendo dei tavoli con delle gambe ingombranti, a cui le carrozzine sbattono. O ancora, facendo salire una rampa all’8% di pendenza e una al 5% di pendenza. La normativa dice che si può fare massimo l’8% di pendenza. Perché diciamo che bisognerebbe superare la norma? Perché è generica, il problema è la parola “massimo”, non l’8%: l’architetto quel termine non lo legge neanche più, sa di poter arrivare a fare quella pendenza e fa il massimo che può.

Una rampa molto inclinata occupa meno spazio. Ma al 5%, come consigliamo di farla, le persone possono, per esempio, superare un dislivello in autonomia e, quindi, non devono avere bisogno di qualcuno che le spinga: magari non vogliono averlo o non si possono permettere di averlo. Per fare una pendenza al 5% bisogna fare la rampa più lunga, per l’architetto può essere un problema. È anche una questione di dignità, a volte mi capita di accompagnare persone con disabilità e gli ingressi accessibili sono spesso sul retro, accanto all’area di carico e scarico. Quando un architetto capisce quali sono le priorità che guidano il suo progetto, inserisce una rampa con una pendenza del 5% facendo un disegno bellissimo.
Per lei, quali caratteristiche deve avere un progetto per essere “bellissimo”?
La normativa parla della funzione, giustamente: la sua nascita dipende dal fatto che deve dire funzionalmente come deve essere fatta una cosa. Ma la funzionalità non può essere slegata dal bello, noi dobbiamo rispondere alle esigenze e anche al benessere delle persone. L’Organizzazione mondiale della sanità dice che la disabilità nasce dall’incontro tra le persone, l’ambiente sociale e l’ambiente costruito. Quindi, l’architetto ha una grandissima responsabilità. In una struttura, in un ambiente non del tutto accessibile in termini strutturali, si può compensare con le persone che accolgono. Il gioco è sempre a tre: c’è la persona, c’è la società, c’è l’ambiente costruito. La gradevolezza è una componente che non può mancare.
Cosa non è gradevole, nell’universal design di oggi?
Perché si continua a fare il bagno disabili con il water con uno spazio vuoto davanti e con il lavabo con una conca? Le persone con disabilità, in realtà, non lo trovano comodo, dentro quel buco ci finisce la gamba ed è utile ad una piccola parte di persone con disabilità. E restituiscono sempre una immagine ospedaliera e ghettizzante del bagno disabili. Ad esempio, che ci sia una barra per le persone con disabilità, affinché si possano appoggiare per sedersi sul water, va bene ma bisogna disegnarlo con stile. Se un ambiente lo disegni bene, è bello per tutti. Un giorno un signore mi disse che, nel suo albergo, aveva risolto, nelle camere per disabili aveva fatto due bagni: uno per disabili che è quello richiesto dalla normativa, che teneva sempre chiuso, e un bagno normale. Mi disse: «Perché altrimenti quelle stanze non le affitterei mai». Basterebbe investire un po’ più di pensiero per fare un bagno disabili ben fatto. Oggi ci sono tanti stratagemmi.
Ad esempio?
Se non servono le barre per sorreggersi e sedersi sul water, si possono togliere, e il bagno resta bello. Non serve usare nulla di speciale, servono delle accortezze. Quello che stiamo cercando di fare è un’accessibilità trasparente. Non c’è bisogno di dover fare un edificio inclusivo: basta farlo in modo che possa piacere a te che non hai disabilità e che abbia una certa funzionalità anche per chi ha disabilità. Qualcosa di perfetto non esiste, sono talmente diverse le disabilità e le esigenze di accessibilità: ci sono delle accortezze che puoi fare per un’esigenza che non vanno bene per un’altra. Il “ritorno” è comunque positivo: ci si sente accolti.
Come l’architettura può rendere un ambiente il più inclusivo possibile?
Lo stereotipo del disabile spesso è l’uomo in carrozzina, se si è fatto qualcosa spesso è stato per l’uomo in sedia a ruote, tant’è che il simbolo della disabilità è una persona sulla carrozzina. In verità, le disabilità motorie sono una piccola percentuale tra tutte le persone con disabilità. Ci sono molte persone che hanno disabilità sensoriali, che sono cieche e sorde, ipoudenti e ipovedenti, e anche con diverse esigenze di accessibilità cognitiva. Queste ultime sono anche le più complicate alle quali dare risposte. In termini di possibili risposte progettuali alle esigenze di accessibilità, a me piace parlare sempre di tre sfere della qualità.
C’è una sfera della qualità architettonica attraverso la quale parliamo di layout, dei collegamenti verticali e orizzontali, delle finiture dell’arredo. Ad esempio, le persone con disabilità visiva fanno fatica a riconoscere un arredo grigio su un fondo grigio, cosa che nell’architettura contemporanea è molto frequente. Spesso si tende a questo minimalismo tale per cui, ad esempio, le porte raso muro, tanto amate dagli architetti (quelle che spariscono nella parete) per una persona ipovedente sono un dramma perché non le riconosce. Il sanitario bianco su una parete bianca non viene individuato da una persona ipovedente.
In un ambiente acusticamente adeguato la musica diventa un sottofondo piacevole, non un ulteriore elemento di disturbo, migliorando la privacy e garantendo conversazioni riservate e poco udibili agli altri tavoli
Qual è la seconda sfera della qualità?
È quella della comunicazione: rendere le informazioni di accessibilità molto chiare, precise e leggibili, utilizzare un sistema di segnaletica di orientamento accessibile, tattile e verbale, oltre a percorsi podotattili e grafiche in linea con le regole “Easy to read”. Penso, ad esempio, all’accessibilità di internet: un sito è la porta di accesso di ogni struttura. La qualità della comunicazione che viene espressa è fondamentale per le persone con disabilità, se hai un’attività e vuoi far sapere che sei accessibile senza metterti la “bandierina” dell’inclusività (di socialwashing non ne abbiamo più bisogno).
Se riesci a raccontare in cosa sei inclusivo e dai, ad esempio, indicazioni dimensionali chiare, raccontando quello che fai, chi legge o ascolta può capire cosa offri prima di uscire da casa. Molte persone con disabilità non escono per la paura di trovarsi in un luogo che non sarà accogliente. Un’altra cosa che può aiutare moltissimo sono le tecnologie per i sordi. Quando abbiamo fatto “Di ognuno” con la reception accessibile e inclusiva, abbiamo messo un tablet con un’app di trascrizione del parlato, gratuita e semplice. Inoltre, basta usare video coi sottotitoli. Mi piace molto il fatto che le cose che nascono per le persone con disabilità possono essere utilizzate da tutti.
E la terza sfera della qualità?
È la sfera della qualità ambientale: garantire comfort visivo, acustico, termico e dell’aria in ambiente e aumentare il benessere grazie alla presenza del verde e di medium olfattivi. Faccio l’esempio dell’acustica: l’atmosfera di convivialità che ci si immagina di trovare in una sala colazione è spesso sostituita da un ambiente di caos multisensoriale. Il brusio di fondo proveniente dagli altri tavoli e il rumore di stoviglie rendono faticosa la comunicazione con le persone al nostro stesso tavolo. La conversazione è poco chiara e scarsamente intelligibile.
Così, già nelle prime ore del mattino siamo costretti a sforzarci di ignorare i rumori di fondo per riconoscere solo il parlato del nostro vicino (effetto “cocktail party”). Oppure a parlare a voce alta per farci comprendere generando nella sala una rumorosità via via crescente, è il cosiddetto “effetto Lombard”: un sentimento di disturbo che può essere percepito da tutti, e amplificarsi nelle persone con disabilità sensoriale, che tollerando male elevati livelli di rumore e il sovraccarico sensoriale, rischiano di essere esclusi dalle conversazioni e di provare stress e disagio.

Per quanto riguarda l’acustica, che accorgimenti si possono avere?
Sono da evitare materiali che riflettono il suono. A finiture con cemento a vista, vetrate su tutti i lati e pareti specchiate sono da preferire pareti e soffitti rivestiti di materiali fonoassorbenti (ad esempio, fibre di poliestere, fibre minerali e di legno, materiali tessili, legno microforato, moquette), capaci di catturare l’energia sonora e ridurre il riverbero. Gestire il layout progettando spazi flessibili e configurabili può essere un’ulteriore strategia per favorire la presenza di aree raccolte e protette dal rumore.
Elementi di separazione e di arredo fonoassorbenti possono essere utilizzati nella gestione di un layout modulabile. In un ambiente acusticamente adeguato la musica diventa un sottofondo piacevole, non un ulteriore elemento di disturbo, migliorando la privacy e garantendo conversazioni riservate e poco udibili agli altri tavoli.
L’approccio progettuale di Lombardini22 è il design to humanise. Ci può spiegare?
Design to humanise fa dell’empatia il suo punto di forza. Un processo di umanizzazione della progettazione che consiste nell’elaborazione di discipline capaci di creare spazi che rispondono alle vere esigenze delle persone: ambienti che facilitano esperienze positive e favoriscono il benessere psico-fisico di chi li vive. Per umanizzare i nostri progetti teniamo conto della risposta che le persone hanno. La stimolazione sensoriale, ad esempio, è molto importante.
È curata dai nostri colleghi che si occupano di neuroscienze applicate all’architettura. È importante che gli ambienti abbiano un’illuminazione adeguata, morbida, che consenta la lettura del labiale, ma che allo stesso tempo crei un ambiente accogliente e bello. Come sarebbe importante avere una mappa tattile, all’ingresso di un ambiente. Inoltre, anche la confusione e i rumori forti creano problemi nelle persone cieche, che si affidano all’udito per orientarsi.
L’olfactive design sviluppa esperienze sia multisensoriali che distensive, in grado di influenzare positivamente il benessere psicofisico delle persone
Cos’è l’olfactive design?
Grazie alla collaborazione con il Neuroscience Lab di Lombardini22, l’olfactive design sviluppa esperienze sia multisensoriali che distensive, in grado di influenzare positivamente il benessere psicofisico delle persone. Il profumo, capace di evocare ricordi e suscitare emozioni profonde, è un linguaggio potente che si intreccia con il design e l’architettura. L’esperienza di un luogo, infatti, prima ancora che dalla vista, comincia dall’olfatto.
Oggi sappiamo per certo che esistono degli odori che producono melatonina o dopamina, altri che la riducono, pur tenendo in considerazione che c’è sempre una componente culturale e soggettiva molto forte legata alla natura degli esseri umani. È noto come lavanda, camomilla e bergamotto possono attivare recettori che riducono il cortisolo, l’ormone dello stress, e aumentare la produzione di neurotrasmettitori calmanti come la serotonina. Questo approccio si integra con un design sensoriale completo, in cui ogni elemento dell’ambiente – dalla luce ai materiali al suono – viene utilizzato per ottimizzare il comfort e il benessere.
L’olfatto viene spesso sfruttato da persone cieche o ipovedenti per la costruzione del mondo intorno a sé.
Sì, è un senso molto potente ed è sfruttato quasi fosse un gps. Il design olfattivo viene infatti sempre più spesso utilizzato nell’universal design per rendere più fruibili e inclusivi gli spazi architettonici. Nei nostri progetti olfattivi non ci limitiamo a portare odori ma a gestirli in modo ponderato, in funzione di ogni singolo progetto.
Il rovescio della medaglia è che, per esempio, per una persona con disabilità sensoriale entrare in un ambiente denso di odori mescolati (come food court, centri commerciali, aeroporti) può essere un’esperienza disorientante e causa di disagio fisico, ansia o stress. Dunque, il profumo è fondamentale, ma lo è anche la sottrazione degli odori: la progettazione olfattiva può intervenire con un sistema di ventilazione adeguata, con i filtri a carboni attivi, materiali e arredi che contribuiscono a minimizzare la permanenza degli odori.
Foto Lombardini22
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