Rony Brauman, 71 anni fa, è un medico francese specializzato in malattie tropicali. Tra i fondatori di Médecins sans frontières (Medici senza frontiere), ne è stato presidente dal 1982 al 1994. Professore all’Institut d'études politiques di Parigi tra 1994 e 1997, oggi è consulente scientifico della School of International Affairs di Sciences Po. Brauman è anche direttore dello Humanitarian and Conflict Response Institute (HCRI) dell'Università di Manchester. Oggi è considerato uno dei pensatori più autorevoli quando si affronta il complesso mondo dell’aiuto umanitario e del ruolo delle ong.
C’è stato il ventesimo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle. Secondo lei quanto e come questa data è stata significativa per il settore umanitario? E soprattutto come lo ha cambiato?
Non penso che gli attentati dell’11 settembre abbiano cambiato più di tanto il settore umanitario. Con questo non voglio dire che gli attentati terroristici non siano un evento drammatico ma tutto è cominciato non con l’11 settembre ma molto prima in Cecenia negli anni ’90 e poi altri attentati in varie parti del mondo negli anni successivi. In un certo senso eravamo preparati anche se è stato chiaramente uno choc. Ma dal punto di vista pratico per l’umanitario non è stato una svolta, la svolta è accaduta molto prima, quando abbiamo capito che il terrorismo richiedeva un nuovo approccio in termini di sicurezza.
E adesso i recenti eventi dell’Afganistan con la disastrosa ritirata degli Americani che impatto pensa avranno sull’umanitario?
L’Afghanistan è in guerra da molto tempo, dall’invasione dei sovietici. Poi c’è stata la guerra civile negli anni ’90 e questa situazione di instabilità e di violenza che perdura da quando sono arrivati gli americani. Dunque per quanto riguarda la violenza non c’è purtroppo nulla di nuovo. Per quanto riguarda invece il nuovo regime dei Talebani ci sono chiaramente delle incognite. Finora abbiamo avuto risposte soddisfacenti. I nostri medici sono visti come legittimi, utili e siamo stati rassicurati sulla loro protezione dai rappresentanti del governo talebano nelle varie provincie in cui operiamo.
Dunque non siete stati costretti a mettere in piedi una strategia speciale in Afghanistan dopo l’uscita di scena degli USA?
No, del resto anche prima avevamo contatti con i Talebani visto che erano parte dello scenario afghano. Fa parte della nostra strategia avere rapporti con il maggior numero possibile dei players di un paese nel quale operiamo proprio per garantire la massima protezione a chi lavora per noi.
Voi siete una ONG di proporzioni planetarie ma ci sono tante piccole ONG che operavano in Afganistan. E adesso per loro che scenario si profila?
Continua sicuramente ad esserci spazio per loro perché occupano spazi che le grandi non occupano. E sono utilissime soprattutto adesso perché sono più agili e possono lavorare in quegli spazi in cui le grandi non riescono.
E il futuro dell’umanitario in generale post-Afghanistan come lo vede?
È davvero difficile prevedere cosa succederà. Si creeranno dei nuovi equilibri, nuove forze politiche, con il ruolo poi sempre più grande di Russia e Cina nella regione, ma sul lungo termine non sono in grado di dire se per il settore puramente umanitario ci saranno conseguenze rilevanti.
Ci sono degli errori che l’occidente ha commesso in Afghanistan e più in generale nel sud del mondo?
Gli errori enormi, oserei dire i crimini che sono stati commessi in Afghanistan sono stati perpetrati dagli stranieri ma non solo dall’Occidente. Ricordiamo che sono stati per primi i sovietici ad aver invaso il paese e hanno portato il disastro, scatenando il fenomeno dei talebani e di al Qaeda. Poi ci sono stati gli Americani. Tutti hanno contribuito a questo disastro, è una compartecipazione internazionale e non sono stati solo gli occidentali. Gli errori principali li individuo negli obiettivi politici, nelle strategie dei sovietici e degli americani che hanno pensato che l’Afghanistan potesse essere modellato secondo i loro parametri e che si potesse riconfigurare la sua società in un modo socialista al tempo dei sovietici, e come una democrazia liberale quando sono subentrati gli americani. Il risultato è stato un rifiuto nazionalista di cui hanno approfittato i più radicali. C’è un errore originario che è stato comune ad est e a ovest. Quando gli americani sono intervenuti nel 2001 si è creduto agli inizi che fosse solo un intervento per distruggere le basi terroristiche di al Qaeda, cosa che dalla prospettiva americana era assolutamente legittima che non è stata contestata dalla comunità internazionale. Col tempo ci si è resi conto che questi obiettivi avevano raggiunto un significato più vasto, ovvero il voler creare un nuovo stato, una nazione afghana e questo ha portato gli Stati Uniti in una situazione di isolamento e di non comprensione totale di quello che stava accadendo. Io penso – e qui parlo da osservatore individuale – che l’errore più grande sia stato l’occupazione militare e il progetto politico di riconfigurazione della nazione afghana.
Continua il divario tra nord e sud del mondo. Come risolverlo? L’umanitario da solo ci riesce o solo la politica può farlo?
Servono entrambi, le istituzioni umanitarie hanno un ruolo insostituibile in certi luoghi e in certe situazioni, come le guerre, le catastrofi, le grandi pandemie, ma dal punto di vista politico il loro ruolo rimane marginale se non per il fatto che rendono la vita più umana a moltissime popolazioni in difficoltà ma sono i governi e i processi sociali che possono cambiare le cose.
In un mondo dove si parla di globalizzazione a vari livelli a partire da quello istituzionale rappresentato per esempio dalle Nazioni Unite, l’umanitario dove sta andando?
L’umanitario, le ong si sono viste riconoscere un ruolo importante nella società, forse addirittura troppo importante rispetto alle loro possibilità. Ci sono ong come la nostra che hanno raggiunto ormai una dimensione grande, forse troppo e la dimensione comincia a diventare un problema. Allo stesso tempo proprio questa nostra dimensione ci permette efficacia e dispiegamenti significativi di forze anche in altri paesi come il Sud del Sudan, la Somalia solo per fare qualche esempio. Penso che quello che conti per l’umanitario, almeno per MSF è quello di riuscire a rimanere reattivi e attenti.
Che messaggio vuole lasciare ai nostri lettori?
C’è un sentimento di solidarietà ancora molto vivo nel mondo, che poi è quello che supporta l’umanitario e questo è un messaggio di speranza per tutti. Quanto all’anniversario dell’11 settembre ci dice che è vero che atti terroristici di grande portata scatenano grandi emozioni anche nel ricordo ma ci vuole anche dire che nel mondo non esiste solo quello, che in molti paesi si cerca di sconfiggere dittature, di lottare per la libertà e di tutto questo non bisogna dimenticarsi in nome di una priorità dell’antiterrorismo. Attenzione, insomma, a non concedere al terrorismo il privilegio di supremazia politica che non gli appartiene.
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