Serena Sinigaglia

In scena

Il teatro in uscita di Serena Sinigaglia

di Riccardo Bonacina

A metà dicembre andrà in scena la seconda parte di El Nost Milan, esempio di teatro partecipato, progetto triennale di Atir e Teatro Carcano che val la pena conoscere come buona pratica. Artistica e sociale

Da quando Serena Sinigaglia apparecchiò l’indimenticabile evento per i 10 anni di VITA in quello che fu il Teatro Smeraldo a Milano, ho cercato di tenerla d’occhio anche aldilà delle poche occasioni di collaborazione diretta. Gli incroci in quasi vent’anni non hanno fatto altro che aumentare la mia stima per una regista mai banale e mai ferma nella confort zone del successo in cui tanti si sarebbero adagiati.

Eppure, lo scorso mese mi sono accorto, grazie a una serata al Teatro Studio – Melato che l’ha vista protagonista, di essermi perso un progetto importante. la prima tappa del percorso triennale intorno a “El Nost Milan” testo di Carlo Bertolazzi (e mitico spettacolo di Strehler) e pretesto, nel progetto di Serena Sinigaglia, per raccontare la Milano d’oggi in un percorso di teatro partecipato dai cittadini.

Il progetto triennale ha dedicato la prima parte alla “Povera gent”, la seconda parte che andrà in scena al Teatro Carcano dal 13 al 17 dicembre racconterà  “I sciori”. Anche il testo di Bertolazzi era diviso in due parti, e proprio il suo testo sarà oggetto della messa in scena il terzo anno, nel 2024.

Per por rimedio alla mia distrazione la raggiungo al Teatro Carcano di cui, con Lella Costa, è direttrice artistica, perché mi racconti questa sua nuova sfida.

Un’immagine dello spettacolo Odissea

Come è nato questo progetto di teatro partecipato e di viaggio nella città?

Vedi, il tema è che senso dai al tuo fare arte e teatro e che senso dai oggi.  Lasciar spazio a queste domande ci ha portato sin da subito a capire che accanto alla produzione di spettacoli in senso tradizionale doveva esserci dell’altro. Era come se lo spettacolo non bastasse ad esaurire quel bisogno di condivisione profonda che avvertivo e che avvertivamo. Come se non impattasse abbastanza nella realtà. Abbiamo sempre cercato una strada in cui il pubblico potesse uscire dall’anonimato avventizio del consumo culturale. Una strada che ci permettesse di incontrare, in qualche modo, un pubblico che avevamo incontrato per strada, nelle sale di un centro di aggregazione, nelle palestre di un oratorio. Con Atir cominciammo fin da subito, siamo nati nel 1996, ad affiancare la produzione di spettacoli a laboratori rivolti alla cittadinanza. La polis che scoprivamo negli anni e che scoprendosi andava a costituirsi come “comunità” consapevole, già nel 2000 facevamo gruppi integrati, comuni cittadini e cittadini con fragilità seguiti dai servizi. Un teatro in uscita. Incontri come quello del villaggio ecologico di Granara o di Comunità progetto una Cooperativa di educatori. Avevamo una casa, il Teatro Ringhiera che ha aiutato ad aumentare il numero di gruppi e laboratori (Feste, pranzi sociali, corsi x anziani). Quando nel 2017 ci chiusero il Teatro Ringhiera (ancora chiuso, ancora incredibilmente in attesa che il Comune deliberi sui lavori di ripristino dopo 6 anni), fu chiaro che sarebbe mancato un punto di riferimento fondamentale. Si rischiava la dispersione, la frammentazione, insomma, un danno gravissimo.

Scene di El Nost Milan
Scene di El Nost Milan parte prima, i poveri

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Come fare in assenza di una casa dove ripararsi, dove ritrovarsi?

Provammo sconforto, un po’ di rabbia e soprattutto la consapevolezza che occorreva contrastare la naturale dispersione di quando viene a mancare un luogo. È stato allora che ho pensato che se non hai una casa reale devi pensare a una casa virtuale, a legarci allora deve essere una un’unica narrazione, la narrazione come casa. E qui ci volevano i grandi testi, i grandi classici. Il primo progetto fu sull’Odissea. Pensai che forse c’era una via possibile: la storia, l’epos, il racconto, potevano trasformarsi in una nuova casa, intangibile certo, ma capace di dare identità e coesione. Il racconto condiviso, soprattutto quando è epico, soprattutto quando è “classico”, è già memoria. E la memoria condivisa unisce e così facendo ci fa sentire meno soli.  Ogni gruppo, ogni laboratorio, aveva il compito di affrontare un canto del poema di Omero. Contemporaneamente i giovani studenti delle diverse accademie di belle arti avevano il compito di progettare e costruire la nave di Ulisse. Scuole di scenografia, di costumi, di attrezzeria. Lo spettacolo finale che diventa veramente un rito dopo un anno di lavoro deve avere una protezione estetica, una connessione registica. Ognuno fa il suo laboratorio, autonomi, Lella Costa spiega con la sua maestria e simpatia le premesse ma poi ci vuole un filo rosso che tenga insieme anche dal punto di vista estetico lo spettacolo. In questi progetti di teatro partecipato è necessario un investimento in scena, costumi e attrezzeria che solo possono completare l’efficacia della comunicazione per questo coinvolgiamo le scuole, Brera, Naba Accademia Santa Giulia di Brescia. Così la nostra casa, in questi anni, è diventata lo spazio immaginario del racconto. Dapprima è stata l’Odissea e oggi El Nost Milan che andò in scena per la prima volta al Teatro Carcano nel 1893 e fu successivamente ripreso da Strehler nella stagione 1955-1956 del Piccolo Teatro.

Senza più un teatro, senza un luogo, ho capito che il racconto poteva trasformarsi in una nuova casa, intangibile certo, ma capace di dare identità e coesione

Serena Sinigaglia

Come è nata l’idea de El Nost Milan?

Durante il Covid abbiamo provato ad aprire a nuove alleanze sul territorio di Milano con altre esperienze teatrali come Eco di fondo, Proxima Res (con Tindaro Granata e Francesca Purrini), PEM con Rita Pelusio, cercando con loro di progettare il futuro. Un giorno in una chiacchierata se n’è uscito Tindaro che dice, «Ma c’è “El nost Milan” che la prima volta fu presentato proprio al Carcano!». Il testo è diviso in due parti, la povera gente, la prima, gli sciuri, i signori, la seconda.

Ho pensato che questo testo offrisse lo spunto per un viaggio lungo tre anni. Un viaggio, una crociera, che ci avrebbe permesso di sbarcare nei luoghi di povertà di Milano il primo anno e nei luoghi di ricchezza il secondo, ci dava la possibilità di andarli a conoscere ed esplorarli fisicamente, di intervistare chi li vive, chi ci lavora, chi li dirige, per poi riportarli (con l’aiuto di un gruppo di drammaturghi) in scena. E il terzo anno? Il terzo anno vorrei mettere in scena il testo originale, confidando in venti gentili e favorevoli. Insomma speriamo di riuscirci, di questi tempi imprese ambiziose come queste rischiano di sgretolarsi tra le maglie asfissianti del mercato. Comunque, ci proveremo, facendo come sempre del nostro meglio. Per ora restiamo qui, carichi della prima tappa conclusa, quella sulla povertà e pronti per debuttare a dicembre con la seconda, quella sulla ricchezza.

Come si costruisce uno spettacolo così partecipato?

È fondamentale che ogni singolo laboratorio abbia il suo drammaturgo, il suo regista e il suo educatore, noi assegniamo un luogo di povertà (o di ricchezza) e questa équipe va in loco, incontra le persone, le intervista, le coinvolge. La scena che preparano di 6-7 minuti sarà la restituzione di questa loro esperienza. L’aspetto di assoluto lo fa la scena e i costumi, li intervengo io registicamente dando un’idea, un sentimento, come raccontavo prima. Lo scorso anno dissi che la povertà ha a che fare con la macchia di Macbeth, uno sporco, una polvere che rimangono e la scenografia i costumi e le scuole hanno lavorato su questo. La macchia ce l’abbiamo tutti e abbiamo la paranoia di averla.

Quando i cittadini salgono sul palcoscenico, condividendo la propria esperienza con il pubblico, non sono e non vogliono essere (almeno nella maggior parte dei casi) “attori professionisti”. Si tratta bensì di un gesto di responsabilità: farsi testimoni viventi del proprio tempo e del proprio ruolo di cittadini, di questo si tratta. Cittadini che si specchiano davanti ad altri cittadini, in maniera diretta, orizzontale. Non facciamo incursioni ma politica territoriale, e la politica di presenza territoriale la si fa solo nella durata.

Noi facciamo questo lavoro da fine anni ’90 e oggi abbiamo un bacino di utenza ampio che oggi popola i nostri progetti. Per lo spettacolo sulla povera gente abbiamo realizzato 14 laboratori e per i Sciori ne siamo facendo 13 (un’impresa complessa coordinata da Nadia Fulco ndr). Di opera partecipata in opera partecipata i cittadini coinvolti sono cresciuti, in Odissea erano 84 i cittadini in scena, nella prima parte di Nost Milan erano 150, quest’anno saranno 160. Quest’anno siamo riusciti a coinvolgere anche minori stranieri non accompagnati, 4 partecipanti a un laboratorio estivo fatto con Tem sono coinvolti nello spettacolo. Ci sono anziani, persone con fragilità psichiatriche, disabilità fisiche e cognitive, adolescenti e pre adolescenti, poi adulti del collettivo Drag King, insomma, un campione vero della cittadinanza

Immagino che la scelta dei luoghi dei Sciori e l’incontro con loo sia stato più complicato…

Sui Sciuri abbiamo fatto lo stesso procedimento ma individuare i luoghi è stato più difficile. Per un povero la giornata è scandita da orari precisi, la doccia è a quell’ora, la mensa pure, la pulizia anche. Per i sciori è diverso, ci sono dei luoghi: la Borsa, il lavoro, la clinica privata, la scuola privata, i centri benessere o le palestre esclusive, le piste da sci esclusive, il ristorante di lusso, City life, Bosco verticale. Luoghi che però non si aprono, per far fare esperienza in quei luoghi bisogna spesso passare dalla porta di servizio, attraverso chi ci lavora. Altri, come l’ Hotel principe di Savoia, con camere da quasi 2000 a notte, invece sono stati aperti, mentre per accedere a Bosco verticale bisogna pagare.

Intangibilità, irragiungibilità, evanescenza ecco le caratteristiche della ricchezza. La ricchezza che noi conosciamo è solo la rappresentazione della ricchezza del comprare e del vendere, ma la ricchezza vera non la vedi mai. Anche la vita di queste persone non ha luoghi (oggi a Parigi domani a New York), non riesci ad acchiapparla, Maria Antonietta c’era e potevi tagliarle la testa, ma i ricchi d’oggi non li acchiappi mai.

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