La cultura che salva

Il teatro è incontro con l’altro. Anche in carcere

di Ilaria Dioguardi

Da 10 anni l’associazione Per Ananke porta il teatro nella casa circondariale femminile di Rebibbia di Roma, con il progetto Le Donne del Muro Alto. Da qualche anno, lavora anche all’esterno con ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione

La compagnia Le Donne del Muro Alto ha iniziato nel 2013 le sue attività all’interno della sezione Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia femminile. Nel corso degli anni, il progetto si è attivato anche con le detenute comuni con la compagnia Più Voce, nella sezione transgender e all’esterno. «C’è un bisogno infinito di progetti come il nostro in carcere, che devono essere fatti da professionisti. C’è bisogno di formazione e soprattutto di fondi. I progetti culturali in carcere sono vitali perché, se mentre sconta la sua pena a una persona non do gli strumenti per capire i suoi diritti, i suoi doveri, le modalità con cui approcciarsi e per capire la gestione della rabbia, non è pronta all’incontro con l’altro. E il teatro è incontro con l’altro», dice Francesca Tricarico, ideatrice del progetto Le Donne del Muro Alto e regista.

Tricarico, festeggiate le vostre prime 10 candeline sul palcoscenico?

Dopo aver presentato Olympe in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, lo porteremo in scena il 9 e 10 novembre al teatro India di Roma, dove tra gli altri interverranno la nostra madrina Maria Grazia Cucinotta e Ilaria Cucchi. Nel novembre 2013 siamo andate per la prima volta in scena nel carcere femminile di Rebibbia. Festeggiamo questi primi 10 anni con l’evento al teatro India, raccontando il viaggio che abbiamo fatto da dentro a fuori le mura detentive, per accendere ancora di più i riflettori sul tema della cultura come strumento di crescita, di emancipazione, della riduzione della recidiva. Dopo l’incontro, portiamo in scena lo spettacolo Olympe, scritto e diretto da me con Le Donne del Muro Alto. Viene detto molto poco che, chi fa teatro in carcere, ha una recidiva del 6%, rispetto a una media nazionale che è superiore al 60%. Nelle donne che hanno lavorato con noi in questi 10 anni la recidiva è pari a zero: un traguardo molto importante, soprattutto in questo periodo storico in cui si fatica a far crescere il valore della cultura. Con una media di 15 donne all’anno, sono almeno 150 le donne che finora hanno partecipato al nostro progetto.

In cosa la detenzione femminile è diversa da quella maschile?

Si parla sempre troppo poco di quello che comporta la detenzione femminile, l’essere donna in carcere. Le donne vivono in una condizione di abbandono maggiore, quando escono dal carcere hanno un carico familiare più grande, faticano di più a ricostruire la propria immagine di donne, il proprio ruolo all’interno della famiglia e della società. Ancora oggi fatichiamo tantissimo ad accettare l’idea che una donna possa aver vissuto quell’esperienza. Il nostro decennale è il pretesto per parlare di questi temi, a noi molto cari, che ci permettono di portare fuori, a più persone possibili, la voce di chi ancora è dentro.
Poi c’è il fatto che i figli delle donne detenute possono restare in carcere con loro fino al compimento dei tre anni di età. La situazione è molto complessa e la stanno rivedendo negli ultimi anni, se il reato compiuto dalla donna con figli piccoli lo consente si cerca di trovare degli spazi che non siano il carcere: le case che possano accogliere donne insieme ai figli sono sempre meno, è un problema enorme. La prima volta che abbiamo scritto Medea in carcere, l’abbiamo scritta anche perché nel gruppo c’erano diverse donne che, da pochi mesi, erano state portate dalla sezione nido a quella delle detenute comuni. Soprattutto una di loro soffriva molto il fatto di non poter più stare con suo figlio. I bambini, quando compiono tre anni, vengono loro tolti e vanno a stare con le loro famiglie fuori, se sono in grado di accoglierli, altrimenti in affido.

Anche la post detenzione è un tema a voi molto caro…

La post detenzione è caratterizzata da un vuoto istituzionale importante. Una volta uscite, le persone si trovano completamente spaesate e sole. Immaginiamo per una persona che ha avuto un’esperienza detentiva quanto sia difficile avere una casa in affitto: se non ha una casa non ha una residenza, se non ha una residenza non ha un’assistenza sanitaria. Ha difficoltà a trovare lavoro, tutto questo aumenta notevolmente il rischio della recidiva. Noi vogliamo raccontare questo, oltre la nostra esperienza teatrale. Il Covid-19 è stato un disastro per il blocco totale delle attività nelle carceri, ma è stato il pretesto per iniziare a fare teatro fuori.

Da qualche anno avete portato il progetto fuori dal carcere, quando le donne sono libere o ammesse alle misure alternative. Quali sono le difficoltà?

All’esterno il progetto è diventato corposo e complesso: il vuoto istituzionale che vivono i detenuti e le detenute quando escono è enorme. Le difficoltà sono tante, a partire dalla necessità di trovare una sede. Finché sei in carcere, una sede ce l’hai. Ora siamo ospitate dallo Spin Time, edificio di Roma diventato centro di cultura e accoglienza, ma c’è il rischio che venga sgomberato. Un’altra difficoltà è trovare i fondi. Pochi vogliono mettere il proprio bollino al tema “carcere e donne”, queste due parole insieme creano difficoltà. Ma noi non ci fermiamo. Medea in sartoria è il primo spettacolo che abbiamo scritto fuori dal carcere, sul lavoro e la difficoltà di trovarlo.

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Il vostro progetto teatrale è anche una bellissima opportunità lavorativa?

Assolutamente sì, le donne fuori vengono retribuite per ogni replica che fanno, questo per noi è vitale, l’obiettivo che avevamo dall’inizio era creare qualcosa che desse una restituzione alla professionalità e all’impegno delle donne. Questo progetto fa bene per ricordare che il teatro è anche un lavoro, che il teatro in carcere fa bene al teatro fuori.

Qual è la difficoltà nel lavorare con le donne in carcere?

Il primo anno è stato difficilissimo, tutti i giorni tornavo a casa e mi chiedevo perché avessi scelto questa strada. Le donne con cui lavoravo mi mettevano continuamente alla prova, per capire se ero lì per un progetto che volesse veramente mettere loro al centro o se fosse un mio desiderio di notorietà, con un progetto spot. È stato un incubo fino a una litigata terribile, durante la quale ho detto quello che era sconveniente dire loro, hanno capito che ci tenevo veramente e che potevano fidarsi di me: avevano bisogno di capire che le mie erano le mani giuste alle quali affidarsi. Una donna mi disse: “quando abbiamo scoperto che il nostro remare era un remare insieme, non ci fu più mare a separarci”. Per arrivarci, ho passato un anno terribile, anche perché terribili sono le condizioni delle donne in carcere. La maggior parte di queste donne è stata tradita dalla loro famiglia, le donne nel 95% dei casi hanno il fratello, il padre, il cugino, il marito detenuti. Nello spettacolo Medea in sartoria diciamo che, mentre un uomo ha sempre una mamma, una sorella, una cretina che va a trovarlo in carcere, una donna è molto più sola, vive un maggiore abbandono: questo porta una difficoltà più grande nel fidarsi. Quando le donne detenute si fidano, fanno dei lavori incredibili, non hanno paura di lavorare con le proprie emozioni e di fare i conti con loro stesse. Questo permette di arrivare a dei testi e a quella che, secondo me, è l’essenza del teatro: la verità. Spesso il teatro fuori dal carcere ha tanta paura della verità, soprattutto in questo periodo. È difficile che uno spettacolo in carcere lasci indifferenti, ciò non è dato solo dal luogo, ma dal fatto che è scritto e interpretato da persone che hanno davvero fatto un lavoro su loro stesse attraverso il teatro: le parole risuonano in modo enorme non solo dentro di loro, ma anche dentro di noi. Quando loro raccontano il rifiuto, l’abbandono, la gioia, il dolore, sono sentimenti che in carcere provano all’ennesima potenza, in realtà appartengono a tutti noi.

Quanto c’è bisogno di progetti teatrali in carcere?

C’è un bisogno infinito di progetti come il nostro in carcere. I luoghi sono complessi e le situazioni che ci si trova ad affrontare sono complesse, devono essere fatti da professionisti se si vuole fare un lavoro che apporti un valore aggiunto per le persone nel carcere, e anche per la società. Tutto quello che facciamo nel carcere viene fatto per il fuori: se le persone con cui lavoriamo nei laboratori non tornano a compiere reati stiamo meglio tutti. Bisogna prendere consapevolezza del fatto che il carcere è parte della società. Le persone che sono dentro un giorno usciranno e ritorneranno nella società. Ci vogliono formazione e soprattutto fondi, in questo momento. Se andiamo a vedere i fondi per le attività culturali in carcere, sono notevoli i tagli a progetti di laboratori in carcere. Quando andiamo dalle fondazioni, i progetti a tema carcere è tra quelli su cui c’è meno propensione a sostenere. Quando è abbinato alle donne, ancora meno. Il più alto tasso di suicidi nelle carceri, è a ridosso dalla scarcerazione. Questo è uno dei motivi per cui ho deciso di lavorare con le donne nel periodo di accompagnamento dal carcere all’esterno, per fare “da cuscinetto” in questa zona d’ombra che esiste. Le persone, quando sanno che devono uscire e che non hanno una casa, delle persone di riferimento, un lavoro, soffrono. Fare teatro in carcere non è solo fare i laboratori e gli spettacoli, ma frequentare delle persone che ti hanno conosciuto in carcere, hanno visto il tuo cambiamento e poi ti vedono fuori, conoscono una persona che è sempre lei ma che non è più quella che era prima. Nel 2022 i suicidi in carcere hanno raggiunto la cifra record di 84, il più alto tasso di suicidi da quando si è iniziato a registrare il numero delle morti in carcere. Nel 2023 si stanno registrando ugualmente numeri preoccupanti, la scorsa estate due donne si sono suicidate in carcere nel giro di poche ore. È importante tutto in carcere, dalla formazione al lavoro allo sport. Ma gli attestati non sono la cosa principale. I progetti culturali in carcere sono vitali perché, se mentre sconta la sua pena non do a una persona gli strumenti per capire i suoi diritti, i suoi doveri, le modalità con cui approcciarsi all’altro, capire la gestione della rabbia, non è pronta all’incontro con l’altro. E il teatro è incontro con l’altro. Posso dargli tutti gli attestati del mondo, insegnarli a fare il pizzaiolo o altro, ma è importante dargli la capacità di stare con gli altri. Questo non entra in testa a chi di dovere. C’è un enorme bisogno di questi progetti di accompagnamento tra dentro il carcere e fuori, c’è il vuoto generale, tranne qualche piccolo bando noi siamo sostenute solo da privati. Fare spettacoli in carcere è l’occasione di porsi delle domande e riflettere insieme a una varietà grande di persone, con visioni diverse, che vengono a vederli. Ad esempio, non tutti capiscono subito l’importanza di assumere una persona appena uscita dal carcere. Per questo dico che è un lavoro che va fatto da professionisti: se non è fatto con un approccio che sia davvero produttivo, si perde un’occasione.

Come scegliete i testi su cui lavorare?

Gli spettacoli portati in scena sono stati tanti, la linea comune è la rivisitazione di testi di grandi autori. Le riscritture si basano sempre sulle esigenze dei momenti in cui stiamo lavorando. L’anno scorso abbiamo avuto la possibilità di lavorare nella sezione transgender di Rebibbia, abbiamo scelto di lavorare sul riadattamento de Il postino perché c’è una frase bellissima: “La poesia è come l’amore, è universale, non ha sesso”. Questa frase è stata l’inizio di un viaggio attraverso il potere della poesia, della parola per diventare azione nel mondo. Per le detenute che hanno partecipato al riadattamento di questo testo, l’azione era abbattere il pregiudizio. Molte di loro venivano da storie complesse, spesso di prostituzione, avevano necessità di essere viste in una maniera nuova. L’idea che loro interpretassero un poeta o una figura come quella di Massimo Troisi è stata un’operazione complessa, che ha dato molta fiducia in loro stesse e anche nel pubblico, che ha visto oltre il cliché della donna transgender. Con le detenute comuni di Rebibbia femminile il teatro è stato uno strumento potentissimo per poter lavorare sulle differenze di provenienza geografica, di età, anche di livello culturale. Abbiamo portato in scena Medea, dove abbiamo affrontato i temi degli abusi di psicofarmaci e dell’abbandono delle donne in carcere. Abbiamo fatto la riscrittura di Romeo e Giulietta, che è diventato Ramona e Giulietta: abbiamo raccontato la prima unione civile in un carcere femminile, che è avvenuta proprio a Rebibbia ed è stato il pretesto per raccontare la negazione dell’affettività nelle carceri. A noi questo argomento è particolarmente caro perché, quando ho deciso di lavorare all’esterno con le stesse donne con cui avevo lavorato all’interno (ex detenute o ammesse alle misure alternative alla detenzione), è stato il primo spettacolo che abbiamo portato in scena, da donne libere, nei teatri. Un magistrato di vigilanza illuminato, per le donne che erano ancora alle misure alternative, ci ha dato i permessi per andare anche fuori regione.

Perché avete scelto Olympe per il vostro ultimo spettacolo?

Olympe è uno spettacolo che abbiamo portato in scena la prima volta, nel 2015, all’interno del carcere femminile di Rebibbia, nella sezione Alta Sicurezza. È liberamente tratto dal libro La donna che visse per un sogno di Maria Rosa Cutrufelli, dedicata alla figura di Olympe de Gauges, drammaturga attivista francese che prima approva e segue la Rivoluzione con entusiasmo, poi ne prende le distanze quando si accorge che ci si è dimenticati delle donne e combatte tutta la vita per sensibilizzare l’opinione pubblica sul ruolo della donna. Questo spettacolo è molto politico. Non mi dimenticherò mai una litigata che ho avuto in carcere con una ragazza, che doveva scontare ancora molti anni di pena. Mentre studiavamo per questo spettacolo, mi disse che mi odiava perché il libro di Olympe de Gauges e altri che avevo loro invitato a leggere parlano di persone morte per il bene comune: “a me a casa hanno insegnato che nessuno muore per nessuno, io ora ho un problema”. Questo spettacolo ha rappresentato quanto il teatro e la parola possano essere azione concreta.
Il nostro decennale è dedicato a Vincenza una nostra attrice che si è spenta in carcere, da tre anni i nostri spettacoli sono dedicati a lei, che aveva un problema psichiatrico ed era convinta di essere incapace di fare tutto. Il fatto che le avessimo dato la possibilità di recitare era per lei stranissimo, si definiva l’ultima delle ultime. La cosa più bella è stata vederla sul palco.

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