New York

Il senso di Sultan per lo spazio

di Francesca Magnani

La libertà in mostra: inaugura a Chelsea, l'esposizione collettiva On Freedom ad opera dell’organizzazione For Freedoms, attivi nel campo della politica e dei diritti umani e vincitori in quest’anno di elezioni, del prestigioso Infinity Award

Inaugura a Chelsea, la mostra collettiva On Freedom ad opera dell’organizzazione For Freedoms, attivi nel campo della politica e dei diritti umani e vincitori in quest’anno di elezioni, del prestigioso Infinity Award.

La location è Aperture, una fondazione non profit creata nel 1952 da fotografi e scrittori come “terreno comune per l’avanzare della fotografia”, e divenuta oggi una casa editrice che porta da New York progetti e programmi in tutto il mondo.


Sultan Malik

Il titolo della mostra, a cui contribuiscono oltre sessanta artisti, si ispira al “discorso delle quattro libertà” di Roosevelt: libertà di parola e di espressione, libertà di culto, libertà dal bisogno (sicurezza sociale) e libertà dalla paura.

Nelle mani di alcuni fotografi la macchina funge da specchio, riflettendo sui confini che rendono visibile la disuguaglianza sociale

Dicono i curatori «Nelle mani di alcuni fotografi la macchina funge da specchio, riflettendo sui confini che rendono visibile la disuguaglianza sociale. In altri, la macchina serve come strumento di liberazione – per corpo mente, dal pericolo personale e globale, da costrutti sociali e limitazioni politiche. La selezione dimostra come la natura democratica della fotografia possa servire come veicolo a diverse prospettive per visualizzare i problemi sociali, accendere il dialogo e trasformare i pregiudizi. Per molti la libertà può essere un'illusione, ma i fotografi presenti in mostra si sono impegnati a mappare nuovi aspetti di questo terreno critico, identificando un percorso, indicando i pericoli lungo la strada – e sempre puntando alla luce».

Una delle foto in mostra, è letteralmente un’immagine allo specchio ed è tratta dalla serie “Il senso di Sultan per lo spazio” in cui si racconta il rapporto con la città di Sultan Malik che dopo aver passato 15 anni in una prigione di massima sicurezza, 7 in una piccola cella d’isolamento, fa oggi il personal trainer in una delle palestre più conosciute di Chinatown.

Sultan viene da Bed Stuy, il quartiere di Brooklyn di Fa’ la cosa giusta. A 18 anni entra in carcere per rapina a mano armata. «In prigione ho vissuto di tutto, la corruzione e la violenza delle guardie e degli altri prigionieri, le continue umiliazioni, le botte, i complotti, i tradimenti. Le cicatrici dei pestaggi delle guardie le ho ancora tutte. Ho visto guardie ammanettare i prigionieri, sottrargli il cibo, commettere ogni sorta di nefandezza. Qui si chiamano CO (correction officer) ma fanno tutto tranne che correggere. Il loro scopo è farti rimanere prigioniero dentro per tutta la vita…

Così quando uno esce, se è fortunato da uscire, torna in società con un senso di odio. È un sistema, una questione di intimidazione. Per controllare una massa di uomini, fiumi di testosterone, devono instillare la paura. Ecco l’isolamento, l’antagonismo continuo, l’abuso, le minacce gli insulti razzisti, gli attacchi verbali. Le guardie non sono punibili, si possono perseguire solo civilmente. Non c’è trasparenza. Loro, le guardie, sono cittadini al di sopra di ogni sospetto, noi solo prigionieri. Il tempo che ho passato in isolamento quindi lo devo alla mia personalità: so essere umile, ma non mi piego, non mi faccio degradare, non mi faccio imbruttire, a nessun costo; non permetto a nessuno di calpestarmi mentalmente, emotivamente, fisicamente o spiritualmente; non cammino a testa bassa, cammino a testa alta. Non per ego, ma per rispetto di me stesso».

Dopo una delle svariate occasioni in cui Sultan venne pestato da legato dalle guardie l’uomo sporse denucia e a maggio, dopo una decina d’anni, ha ricevuto dallo stato un indennizzo di 400mila dollari (“Ma quelli tornano a lavorare il giorno dopo come se niente fosse”). Come hai resistito per sette anni nel “buco”? (the hole, come lui chiama la cella d’isolamento): «È stato solo solo grazie a mia mamma; veniva a trovarmi appena possibile. Per il resto tieni a mente: mind over matter. Con la mente si può andare oltre i limiti del corpo. Io ho resistito col mio allenamento quotidiano a chi mi voleva spezzare.

Là dentro loro mi volevano distruggere, e io mi sono costruito. Faccio quello che devo, sono qui per ispirare le persone». L’anno scorso Sultan si è laureato e alla cerimonia di laurea è stato lui a fare il commencement speech, il discorso inaugurale ai candidati del college dove ha studiato per dare una base scientifico-teorica al metodo che solo in pratica sapeva efficace, alla routine infallibile perfezionata in cella – in solitudine estrema e nella continua penombra. E in quella luce ogni giorno lo si ritrova, e proprio qui abbiamo scattato la foto in mostra, al piano inferiore di un locale senza finestre, la luce bassa, dove va ad allenarsi un’ora al giorno. Dice Sultan: «Per me non è una questione di vanità, ma quasi una meditazione, oltre che un fatto di sopravvivenza: voglio essere sempre grosso com’ero, per essere pronto a difendermi. Nella vita è come in prigione. Basta un niente a distrarsi, e ti arriva una coltellata al collo».


On Freedom, 14 Luglio-17 Agosto
Aperture Gallery, 547 West 27th Street, New York


Il senso di Sultan per lo spazio

Testi a cura di Francesca Magnani
Foto a cura di Francesca Magnani

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