L’ultimo orrore è di pochi giorni fa: un gruppo di terroristi legati a Boko Haram è entrato nella cittadina di Toumour, nel sud del Niger, uccidendo 28 civili e ferendo centinaia di persone. Il comunicato dell’Unhcr, L’Alto commissariato Onu per i rifugiati (che lo scorso 14 dicembre ha compiuto 70 anni di attività), parla chiaro: nell’attacco, “durato quattro ore, gli aggressori hanno distrutto quasi due terzi delle case, incendiato e raso al suolo il mercato cittadino, e ucciso oltre un migliaio di capi di bestiame. In seguito all’attacco, la maggior parte della popolazione si è rifugiata nelle campagne”. Alessandra Morelli, italiana originaria di Roma a capo di Unhcr Niger dal 4 ottobre 2017 – e membro delle Nazioni Unite da 29 anni, con esperienze in ogni parte del globo – è ancora provata dall’accaduto quando la raggiungiamo al telefono e ci racconta gli sforzi in atto in una delle zone oggi più pericolose al mondo. “Il Sahel è in fiamme”, ripete più volte. In Italia se ne sa ancora poco, troppo poco, ma quel che sta accadendo in questa estesa fascia dell’Africa Subsahariana è un dramma senza fine. “Siamo di fronte alla crisi umanitaria più importante dell’epoca attuale: tra rifugiati da altri Paesi e sfollati interni nigerini, cerchiamo di seguire ogni giorno un numero crescente di persone che oramai ha superato le 571mila unità”, aggiunge Morelli. Più di mezzo milione di esseri umani sradicati dalla loro vita quotidiana. La cartina qui sotto parla chiaro.
Chi sono queste persone e da dove vengono?
Il Niger è in mezzo tra Mali, Burkina Faso, Nigeria e Ciad e ogni frontiera ha la sua storia. Il problema più grave è il terrorismo proveniente da questi Stati, che provoca molta pressione perché destabilizza sia le persone che cercano rifugio all’interno del Niger sia i nigerini stessi che abitano lungo il confine perché devono scappare anch’essi. Il terrorismo annientano gli spazi vitali di individui, famiglie e bambini, colpendo spesso anche le scuole e ospedali. In Mali, teatro di un conflitto oggi attivo ma “dimenticato” dal mondo, il jihadismo non dà tregua e oggi ci sono sfollati interni nigerini che condividono gli spazi protetti dei profughi maliani da ben sei anni. Anche il Burkina Faso è parecchio instabile, se pensiamo che esso stesso conta un milione di sfollati interni. Per non parlare poi della zona attorno al Lago Ciad, che oltre ad avere un bacino quasi prosciugato con ingenti danni all’economia e all’ecosistema, è un luogo del tutto instabile per la presenza di Boko Haram e di zone in mano alle mafie territoriali. I numeri sono impressionanti e al massimo storico in tutta l’area del Sahel centrale, con 3,5 milioni di persone che hanno abbandonato la zona d'origine e 6 milioni che vivono in povertà estrema e insicurezza costante. A Diffa, in particolare, città del Niger più grande non lontana dal lago Ciad, oggi gli sfollati interni nigerini, 103mila, non sono molti meno dei profughi nigeriani, arrivati a 126mila unità. Questo “solo” per quanto riguarda il terrorismo.
In che senso?
Perché se aggiungiamo alle violenze dei terroristi l’impatto dei cambiamenti climatici, il dato è clamoroso: l’ultima stagione delle piogge ha causato inondazioni così forti da danneggiare la vita di almeno 600mila persone. E l’Haboob, la colossale tempesta di sabbia desertica che passa da Algeria a Niger e Sudan capace di oscurare il sole anche alle 2 del pomeriggio, è ogni anno più intensa e rovinosa e causa estese carestie: oggi sono 4,8 milioni i bambini con problemi di malnutrizione. In ultimo, l’arrivo del Covid-19 ha avuto un ulteriore effetto amplificatore. Tutti, persone del luogo e internazionali – lo staff Unhcr in Niger conta 400 persone, di cui 200 espatriati – dobbiamo stare attenti alle nostre azioni contro la diffusione del virus, proprio come nel resto del mondo. Terrorismo, calamità naturali, pandemia: questi fattori, assieme, hanno ripercussioni enormi sia sulla sicurezza che sulla ripresa economica. per questo come Unhcr lanciamo un forte appello alla comunità internazionale per aiutarci a lavorare in questa zona martoriata.
In che condizioni sono gli sfollati interni e i profughi, e che luoghi di rifugio trovano?
Abbiamo a che fare con centinaia di migliaia di persone con uno stato emotivo molto delicato, sono come “sospesi”, sradicati da quello e erano prima e incerti sul come e dove “ripartire”. Un’incertezza simile la possiamo capire ora tutti noi, nostro malgrado, a causa della pandemia. L’attesa sul cosa sarà il domani è l’aspetto più evidente, ci interpellano e noi cerchiamo di dare per quanto possibile appoggio. DI certo puntiamo a riconoscere ognuno di loro come persona, perché è l’unico modo di portare loro a pensare positivo nonostante l’abbandono in cui versano. Quello che stiamo portando avanti, in collaborazione con il governo nigerino, è un modello di campi profughi che si allontana da ciò a cui siamo abituati a pensare: abbiamo creato “spazi d’asilo” nei quartieri cittadini così da creare occasioni di incontro e di sviluppo, una sorta di nexus, nesso che facilità l’autonomia e la collaborazione reciproca con la popolazione locale, che riceve anche aiuti economici per il cambiamento sociale a cui è sottoposta con l’arrivo dei profughi e per incentivare la piccola imprenditoria locale, per esempio il settore edile per costruire le case in mattoni. Questi spazi d’asilo si chiamano “Villaggi di accoglienza e opportunità”: vediamo che funzionano, perché al centro c’è la dignità dell’essere umano, ben prima della provenienza.
Il governo nigerino collabora con l’Unhcr?
Sì. Accoglie e non stigmatizza. Questo nonostante il Niger sia uno degli Stati più poveri al mondo e sia scombussolato dall’impatto di centinaia di migliaia di profughi da accogliere. Il lavoro di sperimentazione positiva che abbiamo in atto per trasformare i campi profughi in Villaggi di accoglienza e opportunità, appunto, è un importante banco di prova. La solidarietà crea nuove occasioni di sviluppo, anche in zone fortemente sottosviluppate in partenza. È questa la visione su cui stiamo collaborando con le autorità del Niger.
In questo Sahel in condizioni così drammatiche, che posto occupano le migrazioni verso la Libia e l’Europa, di cui da anni si parla nelle tv e nei giornali in Italia e nell’Unione Europea?
La situazione verso la zona che si affaccia sul Mediterraneo Centrale è sempre molto dura. Data l’instabilità della zona, compresa la guerra civile in Libia, i numeri sono scesi di molto rispetto a qualche anno fa: dalle 300mila presenze registrate nel 2016, attualmente i passaggi delle persone da Agadez – la città crocevia nigerina alle porte del deserto del Sahara – non superano le 10mila unità all’anno. L’evacuazione dai centri di prigionia libici – dovesono sistematiche e impunite torture, percosse e abusi fino alla morte solo allo scopo di estorcere soldi ai profughi – verso il Niger, che come Unhcr abbiamo iniziato nel novembre 2017, è arrivata in tre anni a quota 3.361 persone, di diverse nazionalità dei Paesi più a rischio: 2.708 sono già state ricollocate in altre nazioni della Comunità internazionale, Italia compresa, 777 sono ancora a Niamey mentre 171 sono in attesa di partire con il prossimo corridoio umanitario. Ma non c’è solo il problema delle detenzioni libiche: da tempo, infatti, le autorità algerine riportano indietro, deportandole in pieno Sahara lato Niger, le persone che avevano raggiunto l’Algeria pagando il viaggio pagandolo ai trafficanti di esseri umani. Ad Agadez cerchiamo di identificare chi viene deportato e ha diritto di protezione umanitaria: a novembre erano 1.434 le persone richiedenti asilo in Niger in attesa di risposta. Ma in alcuni casi, come per esempio per i sudanesi, spesso hanno come obiettivo il ripartire, perché nella maggior parte dei casi chi inizia il viaggio verso Nord non torna indietro o intende fermarsi. I più vulnerabili possono comunque trovare come soluzione i corridoi umanitari in Italia dal Niger in collaborazione con Caritas, governo italiano e governo nigerino.
Oltre ai reinsediamenti delle persone evacuate dalla Libia e ai virtuosi corridoi umanitari della società civile, cosa può e deve fare l’Europa sia verso il dramma umanitario in atto nel Sahel che nell’accoglienza di chi arriva da noi?
A livello di azioni sul posto, la frammentazione dei conflitti a causa della presenza di più gruppi armati rende impossibile una formula per impostare dialoghi di pace, in particolare con gli estremisti. Dal 2014 la Francia ha attiva al confine con il Mali l’operazione Barkhane, con la quale sta tentando di fermare i jihadisti, per il resto la situazione è fuori controllo in varie zone. Si potrebbe fare di più a livello internazionale, ma al momento non s'intravedono soluzioni, purtroppo. Di certo gli Stati possono aumentare il supporto all'azione dell'Unhcr – che nel compiere 70 anni non "festeggia" se non aumentando gli sforzi – anche perché attualmente dei 102,9 milioni di euro che abbiamo richiesto alla comunità internazionale per gestire la situazione in Niger, ne sono arrivati 65,2 milioni, il 64 per cento. Per quanto riguarda l’accoglienza, Italia compresa, coinvolgere di più le diaspore, i connazionali dei migranti già presenti nel luogo d’arrivo, per lo stesso motivo che dicevo poco sopra in un altro contest: ridare la dignità il prima possibile, attraverso la solidarietà, a persone che hanno lasciato tutto e spesso hanno subito vessazioni, è il modo migliore per far sì che una persona torni a sentirsi utile alla collettività. Come diceva Simone Weil,"una volta che un'azione è stata con certezza riconosciuta come una crudeltà, indipendentemente dal luogo e dalla data, essa deve essere oggetto di orrore": questo senso dell'obbligo verso l'umano è anche il mio augurio per un mondo che rinasca davvero, una volta superata la pandemia.
Crediti per le foto: Unhcr
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