«Ieri pensavo di morire, ora sono qui a cantare»: potrebbero essere le parole di un rap e chissà, forse lo sono davvero. Perché la canzone Kento l’ha scritta, a bordo della Ocean Viking, la nave di Sos Mediterranee, da cui è sbarcato il 1° dicembre, dopo due settimane di missione, tra addestramento e salvataggio. Ed è proprio uno dei 48 ragazzi “salvati” che ha pronunciato quelle parole, durante il concerto di Kento a bordo della nave, il giorno dopo essere scampato alla morte.
Il testo della canzone Kento non lo ha ancora svelato, ma parla di viaggi, di traversate. «Una canzone intima, una specie di preghiera laica», ci confida il rapper, all’anagrafe Francesco Carlo, in arte Kento, di sangue e animo calabrese.
Solcare il Mediterraneo con il rap
Dopo aver portato tante volte la sua arte dietro le sbarre delle carceri minorili per dare voce all’anima dei ragazzi detenuti, Kento ha deciso ora di solcare con il rap le onde del Mediterraneo, per condividerlo, stavolta, con chi tra quelle acque cerca la libertà, dopo aver conosciuto gli orrori della guerra, o della povertà, spesso della prigionia. Come i 48 ragazzi che l’Ocean Viking ha messo in salvo il 27 novembre (qui il Report della missione), 11 giorni dopo l’inizio della missione.
Anche Kento (nell’immagine a bordo della Ocean Viking) era sul gommone che li ha soccorsi: «In teoria ero salito a bordo per osservare e raccontare, ma una volta lì ho capito che sarebbe stata utile una mano su uno dei gommoni d’intercetto e salvataggio e ho dato la mia disponibilità. Era da tanto tempo che ne parlavamo, con i responsabili di Sos Mediterranee: avevamo in mente una missione, una canzone, un concerto. È stato tutto questo e molto di più».
Le esercitazioni per entrare in un mondo
La prima settimana a bordo, in ogni missione, viene interamente dedicata all’addestramento: «Una fase delicatissima, che viene svolta con grande impegno e serietà da tutti, non solo da chi è alla prima missione, ma anche dai “veterani”. Solo io e forse altri due o tre eravamo alla prima esperienza; la maggior parte dell’equipaggio era gente esperta, che al mare dà del tu. È stato bello e rassicurante averli accanto e sentirmi accolto. Avevo paura di essere visto come l’ultimo arrivato, il rapper fuori posto, che con l’impegno umanitario non ha niente a che fare. Invece lavorare insieme, partecipare alla formazione, alle esercitazioni, alle simulazioni in mare, di giorno e di notte, mi ha fatto entrare pienamente in questo mondo. E quando mi sono ritrovato in mare, a bordo del gommone, per andare incontro a quel barchino che stava affondando, è stato incredibile».
A bordo di quel barchino c’erano 48 ragazzi, di cui 43 minorenni, tutti provenienti dal Gambia: «Appena li ho visti, mi ha colpito la loro tranquillità. Solo dopo ho capito che quella non era tranquillità, ma passività: quei ragazzi, così giovani e pieni di speranze, avevano capito che stavano per morire ed erano rassegnati, pronti ad andarsene. Mi ha fatto una grande impressione».
Così come una grande impressione ha fatto l’avvicinamento della motovedetta libica, mentre il salvataggio era in corso: «Ci ha raggiunti a gran velocità», racconta Kento «ci ha fronteggiati, ci siamo sentiti in pericolo, ma siamo riusciti ad allontanarci. Era la numero 660, abbiamo visto chiaramente il numero e poi me lo hanno confermato: era la stessa motovedetta che nel 2021 ha sparato a un pescatore siciliano, ferendolo. Un mezzo che proprio l’Italia ha fornito alla Libia, in virtù di quegli accordi bilaterali disastrosi».
Come disastrosa è, secondo Kento, la politica italiana sull’immigrazione: «Io non sono del settore, ma l’ho visto con i miei occhi, quanto sia disastrosa questa politica: l’ho capito, quando ci è stato assegnato – per il decreto Piantedosi – il porto di Ravenna, come porto sicuro: significava altri 8 giorni di navigazione, tra andata e ritorno, senza poter salvare nessun altro nel frattempo. Una misura cinica e crudele, evidentemente studiata per scoraggiare i soccorsi, per rendere tutto più complicato. Poi le condizioni del mare sono peggiorate e ci hanno dirottato a Brindisi, per fortuna. Certo, se fossimo stati a bordo insieme qualche altro giorno, avremmo potuto cantare ancora insieme, fare un altro pazzesco concerto».
Il concerto più pazzesco della mia vita
Sì, perché una volta concluso il salvataggio, la sera Kento ha messo in scena «il concerto più pazzesco della mia vita. La fortuna ha voluto che quei ragazzi fossero tutti africani, con la musica dentro. E tanti di loro erano appassionati di rap e freestyle. Ci siamo passati il microfono, abbiamo cantato insieme, abbiamo pianto, riso, gridato. La musica è cibo per la mente, me ne sono accorto una volta ancora: attraverso la musica, quei ragazzi sono tornati a vivere, dopo aver visto in faccia la morte. Funziona con loro, che sfidano il Mediterraneo inseguendo i loro sogni, come funziona con quelli che i sogni li hanno rinchiusi dietro le sbarre: la musica sa guarire ferite invisibili. Per questo bisognerebbe introdurre i ‘corridoi artistici’, oltre a corridoi umanitari: perché un ragazzo, se ha un microfono in mano, fa rap e si sente vivo. E sa raccontare tanto di sé».
A inizio anno una canzone
E adesso che accadrà, che ne sarà di questa esperienza? «Adesso è il momento di elaborare. La canzone è scritta, ci stanno lavorando, uscirà all’inizio dell’anno. E poi uscirà anche un documentario, girato dalla bravissima Cecilia Palieri: per ora, è tutto quello che posso svelare. Soprattutto, però, ciò che deve accadere e che quei ragazzi in Italia trovino il meglio. Il sorriso con cui sono scesi dalla nave mi ha caricato di angoscia: erano pieni di aspettative, di speranze, che non sono sicuro che il nostro Paese saprà soddisfare. Quel sorriso non deve essere tradito: è la fiducia che hanno, è la speranza che risuona nella musica che abbiamo suonato insieme e che ora non possiamo deludere».
Nell’immagine in apertura un momento del concerto di Kento a bordo dell’Ocean Viking – foto Cecilia Palmeri
I video sono di Morgane Lescot Sos Mediterranée
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