Se si dovesse spiegare nel dettaglio il perché si possa meritare un’onorificenza di Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica non basterebbe una frase come quella che solitamente accompagna il riconoscimento, ma nel caso di Don Giacomo Panizza, che venerdì 31 marzo sarà al Palazzo del Quirinale al cospetto del presidente Sergio Mattarella per la prevista cerimonia, non basterebbe neanche un libro o un film. Non basterebbe perché la sua è sicuramente la storia di un prete che, come recita la motivazione, si è impegnato “tutta una vita, a favore dell’inclusione sociale attraverso una rete di volontariato che si occupa di individuare percorsi di recupero per persone in grave difficoltà”, ma è anche e soprattutto la storia di un uomo che non ha mai abbassato la testa e mai lo farà rispondendo con le azioni alla prevaricazione, peraltro rifuggendo ogni tipo di etichetta. Il suo è un riconoscimento anche alla capacità di creare reti, ma in quanto le connessioni fanno parte del suo vedere e affrontare la vita.
Bresciano di origine, don Giacomo Panizza arriva al sacerdozio in tarda età. A soli 14 anni entra in fabbrica a lavorare l’acciaio vivendo il clima rovente delle lotte sindacali. È, infatti, a 23 anni che decide di entrare in seminario, cominciando ad avere contatti e relazioni con i diversamente abili. Mondo nel quale e del quale farà parte con tutto il cuore e l’anima.
«Io sono del ’47, ho mille anni. Il fatto di essere entrato tardi in seminario mi ha consentito di imparare le cose che mi piacevano. Ero venuto in Calabria per cinque anni e questi cinque anni non sono ancora passati. Nel frattempo ho fatto un bel po’ di cose qui a Lamezia Terme».
Una storia, la sua, che viene raccontata per esempio nelle tesi di laurea. Se ne parla anche nel libro scritto con Goffredo Fofi che porta la prefazione di Roberto Saviano: “Qui ho conosciuto purgatorio, inferno e paradiso. La storia del prete che ha sfidato la 'ndrangheta”.
«La Feltrinelli voleva raccontare i preti del sud che non avevano ancora ucciso – dice don Giacomo- e intitolarlo “Il prete anti ‘ndrangheta”. Ovviamente mi sono rifiutato perché io non sono anti ’ndrangheta, la ‘ndrangheta è anti me. Alla fine hanno cambiato il titolo»
È il 1976 quando comincia l’avventura che poi porterà Don Giacomo a fondare la comunità “Progetto Sud”.
«Entro in contatto con delle persone in carrozzina che rimanevano chiuse nella loro abitazioni. Per un anno ho dormito, pranzato e cenato con loro, andando e venendo dalla Calabria per creare una realtà che servisse loro per non essere ricoverati nei quattro manicomi distribuiti in tutta la Calabria, in cui potevi trovare ricoverati anche milleduecento persone. Allora non esistevano i servizi territoriali, non c’era niente in Calabria se non questi mostri di ricoveri. Le chiamavano le anticamere della morte. Dovevi emigrare anche perché i genitori spesso erano anziani e si preoccupavano del dopo. Ho, così, pensato che potesse funzionare solo una comunità che progetta. Ecco perché “Progetto Sud”, per aiutarli a guardare in prospettiva la loro vita, per aiutare i giovani a non emigrare. Una comunità nella quale si crescesse anche professionalmente. Le persone, infatti, hanno cominciato a studiare, abbiamo formato e coltivato terapisti, psicologi, operatori psicomotori, educatori ed educatrici. Un progetto per le persone diversamente abili che si univano per costruire attorno al concetto che l’abilità diversa è diversa, proprio per questo va valorizzata. Lavoriamo anche per aiutarli a stare a casa loro. Penso ai ragazzi con autismo che stanno con noi di giorno, ma la sera tornano nelle loro abitazioni».
Un progetto che ha trovato ampio consenso sociale, ma non certo dalla malavita locale i cui sonni da un certo momento in poi non sono stati più tranquilli. Accade, infatti, che in quegli anni, a Lamezia Terme, viene sequestrato il palazzo dei Torcasio, una delle famiglie più potenti del territorio. Alla ricerca di una struttura per le attività da portare avanti, il Prefetto propone a don Giacomo Panizza una palazzina, distante pochi metri dalle abitazioni dei mafiosi a cui era stata sequestrata. Don Giacomo accetta subito perché la comunità ha bisogno di una casa dove vivere e lavorare. Purtroppo, però, per accedere al bene bisogna citofonare sempre ai vecchi proprietari e i Torcasio non possono accettare questa ingerenza, a maggior ragione considerato che, per loro, i disabili non sono persone ma “scarti”. Cominciano, quindi, le ritorsioni e anche le minacce personali al prete che, nonostante tutto, non accusa alcun cedimento. Anzi. Inevitabile, però, la scorta.
«Me l’hanno imposta a causa di alcune intercettazioni ambientali. Io, però, non riuscivo ad accettarla. Quando dicevano che mi volevano uccidere, rispondevo stupefatto, non credevo nella serietà dei mafiosi. Oggi ho un programma di protezione che mi tutela quando mi sposto, anche dentro una delle comunità in cui dormo».
Il suo condividere è anche uno stile adottato nelle comunità a cui ha dato vita.
«La nostra è una comunità di comunità, non una sola casa. Per i migranti, per esempio, abbiamo 18 piccole abitazioni, diverse anche per i diversamente normodotati. Crediamo che bisogna vivere insieme, sul territorio, anche con coloro che lavorano con noi. La nostra è una comunità presente in tutto e per tutto. Quando mi scontro con i mafiosi, infatti, c’è la città con me, ci sono tutte le chiese, i bambini delle scuole».
Tutto questo dà ovviamente fastidio alla ‘ndrangheta. Infatti le minacce continuano.
«I mafiosi continuano a tormentarmi e ogni tanto pensano di dovermi mettere paura. Non si arrendono ma, nonostante sappiano che, se li vedo, li denuncio, loro devono fare i mafiosi mostrando alla città che sono capaci di bruciare i campi, mettere una bomba in una casa, tagliare le gomme delle auto di chi lavora, fare trovare una bottiglietta con la benzina e l’accendino accanto. Ovviamente andiamo avanti».
Un progetto, il vostro, che ha cambiato anche il modo di lavorare nel sociale.
«Progetto Sud ha operato tanti cambiamenti perché in Calabria tenete presente che c’è un’alleanza di poteri forti che gestiscono molte cliniche, la famosa sanità dei colletti bianchi. Noi, invece, facciamo le cose a casa. Con i migranti, per esempio, abbiamo detto che volevamo sviluppare umanità attraverso le case, i percorsi personalizzati, i progetti pensati per aiutarli a gestire la loro vita».
La vostra si può considerare una famiglia?
«Una famiglia a modo nostro, che rispetta le diversità. Il problema delle relazioni che diventano amichevoli è fondamentale. Bisogna volersi capire. Se farete un salto da noi, ve ne renderete conto. Potreste anche divertirvi».
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