Il Ministero dell’Istruzione ha inviato alle scuole la circolare relativa al Piano Scuola estate 2021 (ne abbiamo parlato in questo articolo – Ecco come funziona il Piano Scuola Estate: tre fasi e 510 milioni di euro). Secondo il ministro Patrizio Bianchi sarà «un ponte tra quest'anno e il prossimo, un'occasione che consenta a bambini e ragazzi di rafforzare gli apprendimenti e recuperare la socialità”. Tre mesi – da giugno a settembre – «per costruire un nuovo inizio». Tre fasi di potenziamento degli apprendimenti, recupero della socialità e accoglienza. 520 milioni di euro, ma basterà? L’abbiamo chiesto a Rachele Furfaro, direttrice del network di scuole "Dalla Parte Dei Bambini" a Napoli e anche presidente di Fondazione Foqus, che nei Quartieri Spagnoli, sulla base delle metodologie seguite da anni dalle sue scuole, ha dato il via al primo esperimento di scuola diffusa in Italia. “Dalla Parte Dei Bambini” è famoso perché a Napoli ha ribaltato l’idea stessa di scuola: «Da anni dimostriamo che è possibile fare scuola ovunque e in qualunque momento: per strada, nei boschi, nei parchi, dall’alba al tramonto, in tempi e in luoghi diversi da quelli a cui la scuola tradizionale ci ha abituati. In una scuola così concepita i diversi saperi si intersecano, le professionalità della scuola incontrano altre professionalità e competenze, le une e le altre si arricchiscono reciprocamente, la scuola si fa città e la città si fa scuola. Dobbiamo darci l’opportunità di una coraggiosa innovazione». Durante i mesi di pandemia le classi del network “Dalla Parte Dei Bambini” non sono restate chiuse, hanno continuato a fare lezione nei vicoli dei quartieri Spagnoli, dai balconi, al mare, camminando per la città.
Cosa pensa del Piano Scuola?
È un tentativo interessante, che prova a dare risposte di senso al termine di un anno scolastico ancor più anomalo di quello precedente. In Campania, come in altre regioni, le scuole sono state chiuse per molti mesi, i ragazzi di queste regioni dovranno recuperare un deficit di socializzazione e di didattica. Saluto con piacere la proposta del Ministro, ma alla scuola serve ben altro. La scuola ha bisogno di coraggiose e strutturali innovazioni, non di piccole iniziative che comportano soprattutto adempimenti burocratici, ma che non generano cambiamento.
In che senso?
Continua a non essere messo in discussione l’impianto, il modello di scuola, di cui la pandemia, oltre che da tempo tutti gli indicatori internazionali, ha mostrato ancora una volta tutta l’inadeguatezza. La scuola dovrebbe adeguarsi alle domande nuove dei ragazzi, alle nuove ragioni della dispersione scolastica, a una cittadinanza che sta cambiando valori e riferimenti, a un’epoca nuova. Ci sono nuovi temi, nuove urgenze.
Cosa si dovrebbe fare?
Dovremmo aggiornare pratiche educative che appartengono al secolo scorso. Invece la scuola italiana pare costretta a restare ancorata al modello fordista: separazioni in luoghi chiusi, tempi scanditi da orari prestabiliti, specializzazioni di ruolo, bambini deprivati della loro individualità… Allungare i tempi in cui gli edifici scolastici restano aperti non significa fare scuola in modo diverso, se il modo di fare pedagogia resta lo stesso. Continuiamo a sbagliare le domande. Dovremmo chiederci: “Che visione abbiamo sul ruolo che la scuola deve avere nella società di oggi e dei prossimi anni? Cosa possiamo offrire ai bambini? Cosa ci insegna l’esperienza della pandemia se guardiamo agli effetti che ha avuto su una intera generazione di bambini? Quale modello di scuola dovremmo disegnare?”. Il ministero, pur di fronte a una fase che è stata drammatica e non sappiamo cos’altro comporterà o quali effetti produrrà nel medio-lungo periodo per i ragazzi, rinuncia a introdurre, anche solo a discutere un necessario cambiamento. Si limita ad aggiungere qualcosa a un impianto che resta insufficiente, inadeguato, fragile. Porta un vaso di fiori nella stanza del malato, ma non interviene sul malato.
Lei insiste sugli effetti della pandemia, ma già lo sviluppo tecnologico aveva determinato un primo passaggio epocale
Infatti. Ma anche questa rivoluzione cosa ha determinato nella scuola? Assumere la sfida di educare al digitale non significa comprare una manciata di device: sono importanti, ma non è sufficiente. La sfida è educare ad una nuova alfabetizzazione informatica adatta ai nativi digitali. Modificare, evolvere il modello educativo per trarre nuove prospettive e opportunità nell’uso della tecnologia. Ma i docenti sono stati formati per farlo, oppure la scuola ha puntato tutto sulle competenze digitali inerziali, domestiche di ogni insegnante?
Il vostro network di scuole lavora da 35 anni “fuori dalle scuole”
La città, i prati, i boschi possono offrire straordinarie opportunità. Non solo per l’educazione informale ma come luoghi vitali per imparare. Fare lezione all’aperto non significa spostarsi dall’aula chiusa in un’aula senza muri, non vuol dire riprodurre la relazione di tipo frontale che si fa in aula. Come ha sostenuto Colin Ward, ogni angolo della città è per noi un’aula scolastica, ogni strada uno spazio di incontro e di sperimentazione di relazioni vitali, ogni contesto urbano un luogo di apprendimento. Per questo, nel nostro modo di educare usiamo l’ambiente circostante, lo agiamo trasformando ogni contesto organizzato in una sorta di aula scolastica, uno spazio di apprendimento. Così facendo, riconduciamo lo spazio urbano a dimensione dei bambini, delle bambine e dei ragazzi di cui ci occupiamo e, abitandolo, ce ne riappropriamo. Nella nostra pratica educativa diamo grande valore alle esperienze fatte in esterno, negli spazi della città, prati, boschi, piazze e contesti culturali che offrono opportunità straordinarie, non solo per un’educazione informale, ma per il loro essere luoghi che si rivelano vitali per imparare e soprattutto per coinvolgere quei bambini a cui la scuola sta stretta. Rivendichiamo il valore educativo degli spazi urbani e naturali, in opposizione alla scuola chiusa nelle quattro mura di un’aula. Anche in questo caso i docenti devono essere formati a fare educazione all’aperto. La scuola deve iniziare a concepire il “fuori” come spazio di ricchezza.
Il decreto apre le scuole alla collaborazione con il terzo settore
La scuola se vuole essere comunità deve svolgere a pieno titolo la sua leadership educativa, deve guidare il processo. Il rapporto con il terzo settore non può essere né di delega né di surroga. Quei rapporti non devono sottrarre alla scuola la responsabilità del cambiamento. Dobbiamo fare lo sforzo di riposizionare strategicamente la scuola nella società. Oggi l’istituzione è troppo fragile. Credo sia sbagliata per entrambi l’idea di un Terzo settore chiamato a salvare la scuola. Terzo Settore e scuola devono certamente lavorare insieme, come con gli altri ambiti della vita civile, ma perché sia utile, perché quel rapporto produca valore e innovazione, la scuola deve essere capace di agire attivamente, cosa che oggi non è. Se prima non cambia, la scuola non riuscirà a beneficiare di nessuna collaborazione.
Come?
L’azione educativa è di per sé un’azione trasformativa e dovrebbe mirare ad ampliare gli ambiti di azione autonoma di un bambino o di un ragazzo che non si sviluppano in un regime di "trasmissione" a senso unico in cui il singolo docente, che si presuppone onnisciente, racconta o mostra in maniera esplicita agli allievi le cose che presumibilmente conosce. L’azione educativa dunque non occorre sia un processo di trasmissione di conoscenze predefinite e indiscutibili, saperi dai significati prefabbricati, assoluti e immutabili, separati dall’esperienze di vita dei bambini. Per co-costruire con i bambini la conoscenza bisognerebbe assumere l’idea che la stessa è in continuo movimento, contiene discontinuità e trasformazioni e deve essere costruita nel contesto sociale e ambientale nella quale si attua, in tempi e spazi differenti da quelli a cui la didattica convenzionale è solita riferirsi. Non c’è infatti cosa più monotona e soporifera che abitare lo stesso luogo, mantenendo la stessa posizione per molte ore al giorno tutti i giorni dell’anno. La scuola deve, quindi, cambiare pelle, rinnovarsi. Il paradigma non può più essere quello della scuola trasmissiva, che considera il bambino come un “vaso da riempire”. La scuola deve mettere in moto i processi di apprendimento, in cui il bambino diventa protagonista attivo del proprio stesso percorso di crescita. Se modifichiamo ininterrottamente il contesto d’apprendimento si ha infatti la possibilità di mantenere sempre vigile e allerta la percezione e l’attenzione possiamo avere la possibilità di cogliere, nello spazio e nel tempo, quei segni in grado di ampliare e connettere tra loro saperidiversi. In questa ottica il tempo scolastico non può limitarsi all’orario canonico, quello del tempo industriale scandito da una sirena d’inizio e una di conclusione del tempo del lavoro, ma invade, tracima, nel tempo della vita offrendo l’opportunità di incontrare il mondo in tutti i suoi aspetti, dall’alba al tramonto. Per fare questo c’è bisogno di ripensare in modo serio e continuato nel tempo alla formazione degli insegnanti.
Come state organizzando i prossimi mesi?
L’apertura delle scuole nel periodo estivo non è per noi una novità. Da oltre trent’anni le nostre scuole di ogni ordine e grado vanno ben oltre il calendario scolastico con un’apertura che va dal 1 settembre al 31 luglio, senza interruzioni. E’ anche in questo modo che la scuola si aggiorna ai tempi della società e delle famiglie garantendo un servizio ben diverso dal passato. L’interazione con le famiglie e con l’esigenza di conciliare i tempi del lavoro con i tempi della scuola rinnova il patto educativo rendendolo moderno e efficace. Ad essere preso in carico non è solo il bambino ma il sistema famiglia che beneficia dell’efficienza della scuola rinnovata. L’intervento del ministro prova a dare risposte di senso, ma credo che i provvedimenti non possano essere slegati tra loro altrimenti rischiamo di disperdere risorse. La pandemia ha dimostrato quanto siamo tutti fragili, e quanto ci sia bisogno di un intervento strutturale e non legato all’emergenza perché la scuola possa tornare ad essere linfa vitale del paese.
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