Aiuti umanitari

Il nostro viaggio fra (e per) i poveri dell’Asia

di Luigi Alfonso

La straordinaria esperienza di tre giovani italiani che hanno percorso oltre 14mila km per consegnare viveri, medicinali e soldi nei luoghi più sperduti e poveri del continente asiatico. In cambio di un piatto di riso e della gratitudine più genuina

Oltre 14mila km a bordo di un furgone modificato in Van, per raggiungere i Paesi più poveri del continente e portare medicinali, generi alimentari e soldi. Il sogno di tre 30enni italiani si è consumato un paio di settimane fa. Giusto il tempo di riprendersi dalla fatica e ricominciare con il solito tran tran. Il perché di quest’avventura durata quasi due mesi lo spiega uno dei protagonisti: Emanuele Pireddu, 34enne di Macomer (Nuoro).

Capanne in prossimità del Song Kul Lake, in Kirghizistan

«Questa iniziativa si inserisce all’interno di un progetto benefico molto più grande, il Mongol Rally, che è organizzato da una società che ha sede a Londra (The Adventurists, ndr) e si svolge da vent’anni», racconta Emanuele. «Ha una cadenza annuale ed è un rally non competitivo, tant’è vero che è riservato a mezzi della cilindrata massima di 1200 cc, con almeno dieci anni di vita. Si parte sempre da Londra o da Praga. Le prime edizioni avevano la meta in Mongolia, da cui il nome, poi il traguardo è stato spostato a Ulan Udè, in Siberia».

«Nel 2022 e quest’anno la manifestazione è stata annullata, più che altro per i problemi lamentati dagli equipaggi inglesi, che non potevano avere il visto per l’Iran e neppure per la Russia. «Ci siamo chiesti: perché non facciamo questa esperienza per conto nostro? E così abbiamo fatto». Io volevo partire da cinque anni, ma prima lavoravo per una società privata e non potevo prendermi due mesi di aspettativa non retribuita. Ho potuto farlo quest’anno, grazie alla disponibilità dell’ente pubblico per cui opero da due anni. Era probabilmente l’ultima occasione: se decideremo di mettere su famiglia, non sarà semplice partire da soli per 50-60 giorni».

Uno scorcio di Murghab, in Tagikistan

Perché proprio quell’area del mondo e non, per esempio, la più vicina Africa? «Abbiamo voluto rispettare quel percorso, che peraltro non avevamo mai fatto, mentre eravamo già stati in Africa, in Sudamerica e in India. «Senza l’aiuto di sponsor, ci siamo quotati e siamo partiti da Bologna, tappa dopo tappa, con il Piaggio Porter acquistato con le nostre risorse personali. Abbiamo allestito il mezzo, ovviamente usato, in modo da poterci dormire e trasportare viveri, abbigliamento e medicinali. Da tempo avevamo costituito un’associazione culturale, il cui direttivo è composto da un gruppo di amici. Organizziamo esperienze di vita in Paesi o in località molto differenti da quelli battuti dal turismo di massa: per esempio nei villaggi in mezzo al deserto o tra le montagne, dove la gente campa allevando due caprette e coltivando un orticello che garantisce la sopravvivenza».

Possibile che neppure uno sponsor locale abbia creduto in questa iniziativa benefica? «Saltato il Mongol Rally, risultava difficile chiedere soldi per un progetto privato che non aveva riscontri verificabili. Abbiamo fatto una scelta precisa, e cioè consegnare di persona i beni e i soldi senza intermediari. Una precedente esperienza ci aveva fatto capire che molte risorse non finivano ai beneficiari, ma si perdevano in diversi rivoli».

Emanuele spiega poi le modalità di scelta dei destinatari. «È stato tutto abbastanza casuale, spesso dettato dalle emozioni che vivevamo sul momento. In molti villaggi ci siamo imbattuti in situazioni di disagio che, a nostro avviso, richiedevano un contributo in denaro; altre volte servivano di più i beni materiali. Non disponevamo di ingenti capitali, soltanto dei soldi raccolti con una colletta tra parenti e amici che si fidano di noi. In Turchia non c’è stata l’occasione di aiutare qualcuno, ma è capitato in Iran, Turkmenistan, Tagikistan, Kirghizistan, Kazakistan e Mongolia: nella maggior parte di questi Paesi, 200 dollari americani permettono a una famiglia di campare per un anno. Sì, li abbiamo messi di tasca nostra, ma lo abbiamo fatto col cuore: siamo giovani e possiamo permettercelo, per ora».

Emanuele Pireddu mostra a due ragazzi le bandiere dei Paesi del mondo

«In Asia abbiamo toccato alcune aree un po’ a rischio, caratterizzate da conflitti armati tra Paesi confinanti. Ma gli italiani sono ben visti un po’ dappertutto. Per metà del viaggio abbiamo dormito nel nostro Van, un po’ stretti. A volte siamo stati in ostelli, in alcune occasioni ci hanno ospitato le famiglie conosciute in quelle località, incuriosite dalla nostra presenza in quei luoghi sperduti».

«Molti bambini o adolescenti non avevamo mai visto prima d’ora degli occidentali. Abbiamo mangiato quel poco che avevano: uova, riso, pecora e montone non mancavano mai, infatti ho preso due chili», ci confida sorridendo Emanuele. «In qualche occasione ci siamo limitati a un semplice assaggio: ho sorseggiato appena del latte di cavalla rancido, quello era davvero troppo anche per me. Ma era gente straordinaria, ci hanno preso subito in simpatia. In alcuni villaggi non c’era rete e non disponevamo del traduttore automatico, non parlavano l’inglese o il francese, dunque ci siamo dovuti arrangiare con i gesti. Si sono create situazioni paradossali ma divertenti, siamo riusciti a farci capire anche con gli sguardi».

Che cosa resta di questa esperienza? «Una sensazione bellissima, ma non riusciamo a spiegare a parole ciò che abbiamo vissuto», dicono i tre giovani. «Non sono mancati i momenti di grande difficoltà, quando abbiamo avuto problemi con il mezzo in pieno deserto e siamo stati salvati da gente di passaggio. Qualche volta abbiamo avuto paura di non farcela, ma siamo stati fortunati. La semplicità di quella gente era straordinaria, molti si accontentavano di una foto o di un sorriso: sono abituati a condividere il poco che hanno. Una lezione di vita. In un villaggio a quota 3.700 metri ci siamo fermati a giocare a pallone: sì, un pallone vero che era stato donato loro da qualche turista. Quindici ragazzi più noi, gli unici maschi adulti presenti in quel luogo: gli uomini erano tutti fuori, con capre e cavalli al pascolo. Abbiamo superato i problemi dei visti perché ci hanno subito accolti con benevolenza. In alcuni Paesi dove vige la dittatura, per esempio Iran e Turkmenistan, sono vietati i social ma la gente li utilizza lo stesso: infatti, ci siamo spesso scambiati le foto su Instagram. Raramente abbiamo trovato persone povere sprovviste di un cellulare».

Emanuele Pireddu scambia alcune foto su Instagram in Iran

«Siamo rimasti colpiti anche da un altro aspetto, vale a dire i tanti luoghi comuni che siamo abituati a sentire. Per esempio, sappiamo tutti che in Iran le donne non possono mostrarsi generalmente in pubblico col volto scoperto. Eppure, quando venivamo affiancati al semaforo da auto con donne alla guida, erano loro stesse a salutarci e darci il benvenuto nel loro Paese, senza il velo. Più in generale, tutti erano pronti a fornirci informazioni utili, non appena capivano che eravamo italiani. Non voglio dire che certe situazioni non esistano più, sia chiaro, ma il mondo sta cambiando più rapidamente di quanto immaginiamo o di quanto ci faccia credere la narrazione di certi media. In Turkmenistan, invece, abbiamo avvertito in maniera pesante la situazione creata da una dura dittatura: al punto che l’Iran ci è quasi sembrato il Paese più liberale al mondo».

Mongolfiere che sorvolano gli altopiani di Avanos, in Capadocia

«Volevamo fare questa esperienza, l’abbiamo fatta e ne siamo felici. Perché non è possibile farla tutti i giorni. Siamo tre matti, fondamentalmente, e amiamo l’avventura: prova ne sia che non abbiamo mai partecipato a viaggi organizzati, men che meno nelle consuete mete turistiche. Per carità, siamo passati anche per le capitali, ma i luoghi e la storia di questi posti straordinari li puoi conoscere soltanto in questo modo. Ci sono delle zone della Siberia dove non ci sono alberi per migliaia di km, dunque non c’è legna da ardere: per riscaldarsi utilizzano lo sterco di cavallo essiccato. Altro che climatizzatore! La corrente non arriva dappertutto, ci si arrangia con le batterie d’auto e le torce ricaricabili. Ovviamente non ci sono frigoriferi, il cibo si consuma subito, non si conserva».

«Vedere i bambini felici per aver mangiato caramelle e patatine, che non possono permettersi, è stato un regalo inaspettato che non potrò mai dimenticare», conclude Emanuele. «Aiuta a comprendere la fortuna che abbiamo nel vivere in una situazione così agiata».

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