Esce nelle sale italiane il 10 agosto il film Nour, dedicato alla storia (vera) di una bambina nigeriana che, a otto anni, si mette in viaggio, tutta da sola, passando dalla Libia, sopportando sofferenze incredibili, detenzioni, violenze e abusi, per andare al cercare la sua mamma di cui sa soltanto che si trova “In Europa”. Fu Pietro Bartolo ad accoglierla, nel 2017, sul molo Favarolo di Lampedusa e a raccontare il suo dramma nel libro “Le stelle di Lampedusa”. Nella pellicola, la cui regia è affidata a Maurizio Zaccaro, Sergio Castellitto veste i panni del dottore (nella foro di apertura, insieme a Nour la protagonista femminile). Ve ne avevamo dato un’anticipazione nel numero di febbraio di Vita magazine, poi però la distribuzione del film fu posticipata per il Covid-19.
«Mamà, un mi nni vogghiu iri. Mi scantu» , «Non me ne voglio andare, mamma, ho paura»: sono le parole che Pietro Bartolo grida alla sua mamma quando, a 13 anni, deve lasciare, da solo, Lampedusa per andare al liceo a Trapani, a 160 miglia da quell’isola bellissima, uno scoglio in mezzo a un mare. Quarant’anni dopo, anche Anila, che di anni ne ha solo 8, è costretta a lasciare la sua casa, in Nigeria, per andare a cercare la mamma, di cui non ha notizie da tempo. Si mette in viaggio, tutta da sola, passando dalla Libia, sopportando sofferenze incredibili, detenzioni, violenze, abusi. Ha ormai 9 anni e mezzo quando, nel 2017, arriva a Lampedusa, soccorsa da un motopeschereccio di Mazara del Vallo.
Alla sua storia è dedicato il film Nour, in sala il 10, 11, 12 agosto, e poi dal 20 agosto su Sky. La regia è di Maurizio Zaccaro. Nella pellicola Sergio Castellitto veste i panni del dottore. La vicenda di Anila è narrata anche in Le stelle di Lampedusa (Mondadori, 2018), il libro scritto da Bartolo due anni dopo Lacrime di sale (insieme a Lidia Tilotta ) «Ricordo quella notte di fine dicembre», ci racconta Bartolo. «Bisognava correre al molo Favarolo, perché stava arrivando un’altra motovedetta con a bordo sessanta persone. La procedura stabilisce che, a ogni arrivo, sia io il primo a salire a bordo per rendermi conto della situazione e per vedere se c’è qualcuno con sintomi di malattie infettive. Tra quegli occhi smarriti che non hanno niente da raccontare se non l’inferno che hanno attraversato, trovai Anila: aveva tutti i capelli arruffati, la faccia sporca di polvere e se ne stava da sola in un angolino, sembrava abbandonata. Anila sapeva soltanto che sua mamma si trovava in Europa, ma non sapeva cosa fosse l’Europa». Oggi, commenta il medico che è europarlamentare per il PD, «spero che il film ci consenta di forzare il cuore della gente e di far capire al mondo intero che ogni giorno sulle nostre coste non arrivano numeri, ma persone, famiglie intere, la cui vita è appesa ai capricci di un mare che decide quando essere clemente, quando salvarti dalla morte, dalla guerra e dalla fame, e quando invece diventare un mostro crudele senza alcuna pietà».
L’immigrazione è ormai un fenomeno strutturale
La fatica di affrontare quotidianamente quelle sofferenze, in quel minuscolo lembo di terra, il dottor Bartolo ce l’ha incisa sul volto. In trent’anni di attività, quest’uomo di 64 anni, che da piccolo soffriva maledettamente il mare (e fu affidato anche ad una fattucchiera affinché guarisse), e i suoi collaboratori hanno visitato, soccorso e medicato quasi trecentocinquantamila persone. «Lampedusa è un’isola minuscola, dove non c’è un vero ospedale, ma solo un poliambulatorio, perciò per tanti anni l’emergenza è stata la nostra normalità. Però mi arrabbio molto con chi continua a considerare l’immigrazione in sé come un’emergenza. Si tratta piuttosto di un fenomeno strutturale, che dura da decenni».
Il bisogno che ci fosse un film
Con il tempo il medico di Lampedusa ha maturato il desiderio che qualcuno raccontasse con un film quanto stava accedendo a Lampedusa. «Per anni sono stato intervistato da decine e decine di giornalisti e televisioni di tutto il mondo, ma sentivo che c’era bisogno di qualcosa che restasse impresso nella testa e nel cuore della gente». Nel 2016 il docufilm di Gianfranco Rosi (Orso D’Oro al Festival di Berlino), Fuocoammare (che prende il nome dall’esclamazione che i lampedusani ripetevano quando, nel 1943, la nave italiana Maddalena venne bombardata e prese fuoco nel porto) riuscì a accendere i riflettori su Lampedusa. «Era un messaggio crudo, ma chiaro e inequivocabile, che smontava falsità e ipocrisie, che smuoveva le coscienze».
Una stringa per clampare il cordone ombelicale
Contro un’informazione che reputa a volte poco attenta e superficiale, mostra a chiunque glielo chieda il contenuto della sua chiavetta usb, nella quale sono racchiuse le testimonianze raccolte in tanti anni a Lampedusa. «So che è una piccola violenza, la mia. La gente rimane sempre spiazzata: è l’effetto dell’Orrore». Le ho viste anche io che scrivo, le foto di quei corpi che portano i segni della tragedia di un viaggio infernale: sono immagini spaventose. Alcune di queste le descrive anche il medico legale Cristina Cattaneo nel suo libro Naufraghi senza volto (Raffaello Cortina, 2018). Mi ha colpito molto un video, girato amatorialmente, in cui Bartolo, appena salito su una motovedetta, si trova davanti una donna che sta partorendo e lui (che è ginecologo) non ha nulla con sé per legare il cordone ombelicale, così decide di usare la stringa di una scarpa. La chiavetta conserva anche l’immagine di un’altra donna che durante la traversata, per fare il clampaggio, si è strappata ciocche di capelli, perché non aveva nemmeno quella stringa. Ci sono le foto dei corpi che galleggiano, come fossero boe in regata, e le immagini dei brandelli di pelle bruciata dalla quella miscela corrosiva che si crea quando la benzina fuoriuscita dai serbatoi si raccoglie sul fondo dei barconi e lì si mischia con l’acqua salata, provocando ustioni molto gravi nelle parte intime (la malattia del gommone, come l’ha chiamata lui).
«Ho pensato spesso di non farcela: non ci si abitua mai»
Curare le ferite del corpo e alleviare il dolore è stato a lungo il suo lavoro. «Uno dei miei crucci, però, è quello di non aver avuto gli strumenti per curare le ferite dell’anima» di coloro che nella loro rotta migratoria perdono mogli, figli, fratelli. «In passato – confessa Bartolo- ho pensato tante volte di non farcela. Di non reggere quei ritmi, ma soprattutto di non reggere tanta sofferenza, tanto dolore. Tante volte ho pianto. Da solo, insieme a mia moglie Rita -medico ematologo- ai miei tre figli. Alcuni colleghi pensano che io mi ci sia abituato, ma si sbagliano. Non ci si abitua mai ai bambini morti, alle donne decedute dopo aver partorito durante il naufragio, ai loro piccoli ancora attaccati al cordone ombelicale». Dopo essere stato per trent’anni sul molo ad aspettare, dice «ancora non mi sono abituato all’insopportabile sensazione di impotenza, al nodo che ti stringe la gola e ti fa abbassare le braccia ogni volta che qualcuno ti fissa negli occhi implorandoti di fare qualcosa per lui e tu capisci che non puoi». E anche ora che è lontano dal suo mare, ha incubi ricorrenti. «Nella notte mi ritornano in mente le immagini delle scarpette, dei vestitini e di tutti quei corpicini che mi è toccato tirare fuori da quegli orribili sacchi verdi allineati come sempre sul molo Favaloro, e poi esaminare, uno per uno, senza tregua. Io credo che tutto ciò non sia umano. Eppure accade ogni giorno, continuamente, ma noi ce ne accorgiamo solo quando diventa “notizia” e poi facciamo presto a dimenticare, a tornare alla nostra routine».
A Bruxelles «per svegliare l’Europa dal suo torpore»
Nel luglio 2019 Bartolo è stato eletto come europarlamentare del PD -con quasi 250mila preferenze. «Sono venuto a Bruxelles per svegliare l’Europa dal suo torpore ipocrita, dalla sua pigrizia, dalla sua colpevole e volontaria ignoranza, per dire a tutti che non possiamo e non dobbiamo farci condizionare dalla paura ma dobbiamo aprire le nostre porte e le nostre case».
Le parole che Bartolo sceglie per parlare della politica italiana e di quella europea sono di forte condanna. «Negli ultimi due anni l’Italia ha firmato regole disumane, vergognose e incostituzionali. Molti Stati membri dell’UE, dal canto loro, hanno tentato con viltà di non assumersi alcuna responsabilità, spostano il problema un centinaio di miglia più a sud, senza risolverlo».
Anche a “porti chiusi”, gli sbarchi non si fermano…
«Lasciare qualcuno, chiunque esso sia, in balia delle onde non è ammesso, non è nemmeno pensabile», racconta Bartolo, nato da una famiglia di pescatori. «È la legge del mare e nessuno può violarla. Per questo, anche quando l’Italia impose che i porti rimanessero chiusi, questi porti chiusi non lo sono mai stati per davvero. I microsbarchi sono continuati: a Pozzallo, a Lampedusa, a Palermo. Quelle dichiarazioni, urlate a gran voce dai politici, erano e sono ancora solo propaganda e menzogne, architettate per distrarre gli italiani dai veri problemi del nostro Paese, che sono l’emigrazione (e non l’immigrazione), la sanità, l’istruzione e il calo demografico». Lo ha ribadito anche qualche giorno fa, sulla sua pagina facebook: «Gli sbarchi autonomi di barchini e barconi sono sempre continuati, anche a “porti chiusi”».
Le richieste a Bruxelles: la ricollocazione sia automatica
«Vorrei che l’Unione Europea che abbiamo costruito – dal 1957 ad oggi- fosse quella dei popoli, non quella dei confini e dei muri. Al Parlamento Europeo, in commissione LIBE, sono il relatore ombra per il gruppo dei Socialisti e Democratici per la riforma del Regolamento di Dublino III e mi sto battendo perché la proposta che il Parlamento ha votato nel 2017 non venga abbandonata. Abbiamo infatti bisogno di un sistema che garantisca la ricollocazione dei richiedenti asilo negli Stati Membri su base automatica e non invece su base volontaria (prevedendo anche sanzioni, in caso di inadempienza); che chiarisca e precisi la questione delle procedure (dove farle e a chi competono) e offra maggiori garanzie ai minori non accompagnati».
Non dividere le famiglie che arrivano
«Non dividere le famiglie che arrivano, ma anzi riuscire a riunire quelle separate, è uno dei nostri obiettivi», racconta Bartolo che si è impegnato personalmente affinché Anila ritrovasse la sua mamma. «La sento ancora molto spesso. La sua è una storia a lieto fine, nonostante le sofferenze indelebili. Ma sappiamo che non è così per tutti i bambini. E’ importante e necessario inoltre che i nuovi arrivati Siano non solo di accolti ma anche integrati».
E poi conclude: «Credo che chi lascia morire in mare migliaia di bambini, o consente che vivano in condizioni disumane nei campi profughi di confine, non esprima meno crudeltà di quella manifestata da alcuni nei periodi più bui della nostra storia. Cosa siamo diventati? Come abbiamo fatto a perdere la memoria in questo modo?».
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