Francesca Settimi è una finestra spalancata sulla natura, una esplosione di vita: architetta, designer, chef, pasticcera, viaggiatrice. Classe 1970, vive a Colazza sul Lago Maggiore nella casa tra i boschi che era della nonna, circondata da orti e giardini. Dopo anni di architettura, ha aperto una scuola internazionale Cook on the lakes, una cooking class che ha visto arrivare persone da tutto il mondo per partecipare ai suoi corsi. Instancabile studiosa del mondo vegetale, coltiva con affetto le sue amiche piante con pratiche sinergiche; ha una risata che trascina e una vitalità che a vederla ti mette già di buon umore. Ha l’iniziativa e la praticità di chi sa modellare gli spazi e la poesia di chi si può ancora commuovere di fronte a un fiore. Ama le peonie e la calla bianca ma il suo cuore è un concentrato di ortensie. Fa mille domande perché a lei persone interessano davvero.
Francesca Settimi ha subito circa 30 interventi chirurgici, vive senza stomaco perché la sua vita è stata segnata da un gene, il Cdh1, un mutante che prolifera tumori maligni nel suo corpo. L’abbiamo intervistata perché le premesse contraddicono i fatti e ci siamo domandati come sia possibile essere così vivi quando la vita tradisce e si guarda la morte in faccia ogni giorno. E tra una chemio e l’altra, al ritorno da un viaggio in Giappone, l’abbiamo inchiodata al registratore per un pomeriggio intero con pause di necessità fisiologiche che trasforma con una ironia mai sciocca.
La sua storia è già raccontata in un libro scritto dalla scrittrice e giornalista, Lucia Ravera che è anche la sua migliore amica, edito da Comunica Editions nel 2023 dal titolo Io Guenda e il gene matto. Quando il corpo glielo permette, va in giro a presentarlo perché la sua vicenda è emblematica anche da un punto di vista dei protocolli sanitari. Si muove solo per quelle associazioni di malati che davvero si occupano della persona e simpatizza per “Vivere senza stomaco si può” e “Associazione Palinuro”. «Il mio incontro con queste associazioni», spiega, «mi ha dato la possibilità di parlare con i pazienti come me, dei miei problemi: le associazioni serie sono fondamentali, nella malattia ti senti meno sola e mi hanno fatto scoprire anche la medicina integrata… guarda che bei capelli che ho!».
La persona viene prima della malattia: ma chi è questa architetta-giardiniera-cuoca?
«Io sono tante cose, sono una serie di passioni che mi hanno portato a creare, l’architettura mi ha dato un lavoro. La passione per la natura, ereditata da mia nonna nell’orto, in questa casa in cui sono cresciuta quando mio padre ci affidò a me e mio fratello ai nonni, è una corrispondenza di amorosi sensi per il mondo naturale, per gli animali, che mi fa stare bene. Quando i nonni da Milano sono venuti a Colazza qui era tutto solo bosco. Hanno tirato fuori i risparmi di una vita, si sono costruiti una casetta e poi dopo la separazione dei miei, io sono cresciuta qui con loro, due persone semplicissime, che badavano alla lira perché ne avevano poche. Mia nonna oltre l’orto, aveva i conigli, le galline, i tacchini e noi mangiavamo quello. Mio padre visse in Francia ma di fatto era lui che aveva la nostra custodia. Dalle elementari all’università ho vissuto a Milano ma questo è il posto dove poi ho deciso di ritornare.
Come mai ha scelto architettura? E come mai da Milano a Colazza?
«Probabilmente volevo crearmi un mio spazio perché io e mio fratello siamo sempre stati sballottati qua e là, tra padre, madre, nonni… creare spazi… bello! Poi muore mia nonna, mia mamma si ammala, muore anche il nonno e a tre esami dalla laurea io decido di trasferirmi qua per via di uno stage che dovevo fare in questa zona. Non sono più tornata a Milano, poi con Giovanni, con cui mi sono fidanzata nel ’98, storia all’inizio travagliatissima – ride di gusto – ci siamo sposati e viviamo qui».
Giovanni, accogliendo lei ha dovuto accogliere anche la sua malattia come uomo e come medico…
«Io ho una assoluta gratitudine per lui, che in tutto questo è generoso, lui è proiettato su di me e sapendo quello che ho… prima di partire per il Giappone mi ha detto: “ora vivo di sei mesi in sei mesi”, quello che sto facendo anche io… però io sono paziente attiva, progetto, prendo i cani, io sono infinita nella mia mente, lui no, perché come medico capisce. Lui è sempre lì… vorrebbe tornare a Milano ma per me questa casa è parte integrante della mia terapia, ci sono i cani, vado fuori, faccio giardinaggio, questo mi aiuta molto insieme alla terapia farmacologica, quella integrativa, e poi c’è il mio orto!».
Lei oggi ha già una trentina di interventi chirurgici alle spalle, ma chi è il “gene matto” e come l’ha scoperto?
Nel 2006, a 36 anni, ho avuto il primo tumore, un carcinoma di tipo lobulare alla mammella destra. Fatte le prime indagini genetiche, visto che sia mia nonna materna che mia mamma avevano avuto entrambe un tumore mammario, e risultata negativa ai test Brca1 e Brca2, il mio genetista mi propose di sottopormi ad un altro test: il primo test sulla mutazione Cdh1 ad essere somministrato ad una paziente in Italia. Infatti, mia nonna, malgrado fosse stata operata al seno, era alla fine mancata a causa di un carcinoma gastrico. E questo test metteva proprio in relazione il carcinoma gastrico con quello mammario di tipo lobulare.
E quindi l’asportazione è preventiva?
«Sì perché si tratta di una mutazione genetica su un gene che si chiama Cdh1 … una sorta di “colla intracellulare”, nel tessuto gastrico, quindi parliamo di stomaco. Lì le cellule non aderiscono correttamente e dove non si attaccano bene, pensi a un puzzle, si sviluppa una forma tumorale: si chiama tumore gastrico di tipo diffuso-ereditario. È un po’ asintomatico, quindi te ne accorgi troppo tardi, quando le metastasi escono dalla sottomucosa e vanno a colpire gli organi vicini. L’unico modo per sapere se hai i focolai è campionare pezzi di tessuto gastrico ma è random… e non lo trovi sempre».
La decisione di togliere lo stomaco come è avvenuta?
«In macchina! Dopo 24 ore, eravamo io e il “Giò”… mi avevano detto di un unico studio australiano del 2010, che diceva che con quella mutazione genetica avevo l’80 per cento di possibilità di contrarre un tumore di tipo gastrico. Mio zio, ad esempio, è un “mutato” ma non ha avuto un… a me hanno fatto le 36 biopsie random ed erano tutte negative e quando ho parlato col genetista (dell’Istituto europeo di oncologia di Milano, ndr), mi disse: “io come posso dirle di togliersi lo stomaco, cosa che hanno fatto solo 96 persone in tutto il mondo?”. Per cui ho deciso in 24 ore, ho detto al mio “Giò”: 96 persone non fanno statistica, mia nonna è morta con tumore al seno e poi allo stomaco, mia madre… io come lei… vuol dire che la mutazione è già in atto e quindi io lo stomaco me lo faccio cavare! Quindi ho deciso così. Poi me l’hanno tolto e in effetti lì avevo già 3 focolai non pervenuti con le biopsie».
Quando “ti cavano” lo stomaco cosa succede?
«Io non avevo più nessuna voglia di mangiare, mi faceva schifo il cibo, ero molto debilitata perché perdevo un chilo al giorno… io dovevo insegnare all’intestino a ricevere in un botto solo tutto il cibo che ingurgitavo, ero diventata un tubo: esofago e intestino! Questo creava scompensi di glicemia, dumping sindrom: mi devo sdraiare per ridurre la velocità di arrivo del cibo… che non scende più piano piano… io andavo in tilt, svenimenti, mangiavo sempre meno…».
Ma come le è venuto in mente allora di andare a studiare per diventare pasticcera?
(Ridendo di gusto) «Mentre ero lì, in ospedale per la gastrectomia, da poco senza stomaco, la mia amica Clara mi dice “perché non apriamo una scuola di cucina a casa tua? Io mi son stufata di fare il mio lavoro” … e le dico: “mi hanno appena cavato lo stomaco, sono a flebo da 12 giorni e tu mi vieni a parlare di cibo?” Però siccome per me ogni lasciata è persa, e mi piace l’avventura, avevo qualcosa in ospedale, le do subito i soldi per la caparra per i corsi a Milano… a quel punto, vedendo che non riuscivo più a lavorare in cantiere, immagini i secchi per andare in bagno, i muratori… i mille incidenti di percorso che avevo durante una giornata senza bagni, al freddo…. Diventava troppo pesante. Ho studiato a Parigi alla famosa scuola “Le Cordon bleu”. Nel 2013 avevo aperto l’associazione Cook on the lakes e allora decisi di fare una cosa che mi permetteva di lavorare senza stomaco».
Nel libro che racconta la sua storia si legge, attraverso la voce narrante dell’amica scrittrice Ravera, a proposito del dolore e della morte: «La lezione che hai imparato è l’amore incondizionato nei confronti della vita. Non che prima dei cancri non ti piacesse esistere. Anche a discapito dei tuoi numerosi lutti hai tenuto botta egregiamente. La malattia ha aggiunto qualcosa in più. ti ha insegnato la consapevolezza. Ogni attimo, ogni minuto li senti adesso come un graffio sulla pelle. Percepisci la vita che ti accoglie un giorno dietro l’altro e la onori con una gratitudine struggente, abbuffandoti della sua sciagurata bellezza. Guardi il tuo giardino, ti prendi cura dei fiori che nascono. Attendi il risveglio del tuo orto dopo il sonno dell’inverno. Doni il cibo agli uccellini e costruisci per loro nidi sui rami più resistenti. Viaggi per terre e mari (…). Hai superato il dolore gli hai dato un volto (…) la vita è. Spezzata, interrotta, rotta fracassata. Meravigliosa e tu per lei sei una resistente. Per questa cognizione tanto dolorosamente irrinunciabile sei diventata intollerante. Reggi a breve termine chi si lamenta (…) diventi severa con chi non capisce il privilegio del qui ed ora. La morte è una fedele sentinella, tua bussola. Ci sono momenti in cui il suo assillo ti caccia nello sconforto assoluto».
Non le pare, che tra i personaggi noti, ci sia una sorta di marketing della buona e ardita battaglia in malattia? Personaggi vincenti che dietro i social saranno certamente persone che hanno un’anima che soffre ma perché questo continuo outing, non è una sorta di pornografia della malattia? Scriverci un libro come lei dice nella prefazione significa «rimettere in fila quello che accade per scoprirne il significato e trovare un senso per l’esistenza propria e di chi ti guarda»… che differenza di narrazione c’è in lei? È una guerriera anche lei?
«Su questo sono trivalente… ora la mutazione Brca1/2 è diventata la mutazione di Angelina Jolie… ma le poverette come me non le considera nessuno! Va bene che ci sia un testimonial che porti l’attenzione sulle malattie… ma non tollero proprio chi non è passato realmente attraverso la malattia: ci sono delle fasi… anche io ho avuto la fase del guerriero, quella di wonder woman… ma non è la verità questa. Tu non sei più forte della tua malattia! Tu non devi combattere la malattia, tu convivi con la malattia e soltanto se l’accetti vai avanti: io tutte le mattine ringrazio le mie metastasi in peritoneo, perché questo mi permette di non fare la vita che mi resta con un sacchetto per raccogliere la mia urina, il mio corpo è intero. Questo vuol dire che tu accogli, che hai capito che cosa significa essere realmente ammalato e che tu non sei superiore a un belìn di niente! Nel momento in cui sai questo, della tua malattia parli con altri toni: quindi non c’è più il sensazionalismo, il presentarsi con la testa pelata… guarda Emma Bonino, compare col foulard in testa e punto e basta! Tutti sapevano che è malata ma non ha mai rotto o sfruttato questa posizione per essere in vista, perché magari i giornalisti non ti cagavano da una vita e avevi bisogno di soldi e ti fai fare un’intervista. C’è una dignità nella malattia e per essere dignitosi tu devi passare tutta la m.… e assimilarla bene, che ti viene dal dolore, dall’incredulità, dall’impotenza, dalla solitudine, dai rapporti di coppia che cambino completamente, dai sensi di colpa, dall’umiliazione, dal senso della vergogna perché non tutti hanno voglia di far vedere che non hanno più i capelli e trovo orticante, proprio orticante, quelli che affrontano la malattia dicendo che va tutto bene. No, non va tutto bene. Io me la faccio andare perché mi distraggo, perché ho tante passioni, perché non sto qui a menarmela col dolore, col fatto che, se vado al supermercato mi devo mettere il pannolone per paura di non trovare i bagni, faccio la pipì in giardino quando non riesco ad arrivare al bagno di casa… questa è la cosa! E il resto fa parte della negazione che tu hai… c’è anche la gara nei social a chi vuole primeggiare col dolore…
Dunque, il dolore non le dà il diritto di sentirsi migliore?
No! Migliore “de che”? Il dolore ti aiuta a capire il dolore degli altri e soprattutto a tapparti la bocca e non dire stronzate. Quello sì! Il dolore apre tante porte, su di te, su te stesso, sulla tua anima. Non hai nessun bisogno di mostrarlo perché, se stai male le persone lo vedono e lo capiscono e se non lo capiscono è un problema loro. Non è quella la via giusta… anche nelle associazioni: per fare del bene ai pazienti, bisogna davvero conoscere la malattia.
Passare da una idea di malattia al vivere la malattia con tutte le sue implicazioni, come paziente… c’è l’intolleranza rispetto ai lamenti facili, come diceva, ma c’è una tenerezza perché forse la differenza la fa la solitudine che uno vive?
«La solitudine è terribile, ed è qui che dico quanto sia importante l’associazionismo»…
Ma c’è anche forse una solitudine affettiva a volte… lei nel libro che dedica a suo marito scrive “qualunque sia il viaggio, noi sempre insieme”… questo essere insieme che peso ha sulla malattia?
Un peso fondamentale. Alcune coppie si sfasciano. Io ho ritmi completamente diversi, non posso farmi un aperitivo, oppure… tra che mi alzo, prendo le medicine, vado in bagno è passata la mattina, non posso stare al freddo: ci sono le cose di tutti i giorni e le cose “cosmiche”. Giovanni ha rinunciato ad avere una sua famiglia perché non abbiamo potuto avere figli. Quell’insieme è fondamentale, so che c’è lui. Se non hai un affetto vicino allora è fondamentale l’associazione. Ma di quelle serie. Io a volte taccio, altre volte non ce la faccio a stare zitta. Il dolore apre delle porte magnifiche se tu hai voglia di aprirle, anche sul piano spirituale: alla fine arrivi ad essere grato anche della tua malattia. Gratitudine è ringraziare comunque della bellezza di tutto ciò che accade, della farfalla, di un sorriso, di quella stretta di mano, di un fiore che nasce, della lattuga che torna a ricomparire… parliamo di queste cose qui… e non di cose futili, a me non piacerebbe affatto farmi fotografare nuda, poi vedi te quante ferite ho sul corpo. Perché allora? Ma perché? Perché devo farmi vedere pelata? Posso anche farlo ma con naturalezza… io ho perso i capelli e mi copro, e poi nessuno va in giro pelato d’inverno perché fa freddo! C’è una dignità ed è una cosa potentissima perché può essere d’aiuto agli altri, semplicemente guardandoti in faccia, lo capiscono come tu stai affrontando le cose, non ho bisogno di spiegarle. L’altra cosa che mi fa saltare i nervi è quella per cui se non perdi i capelli allora non è proprio vero che stai facendo la chemio! Non stai soffrendo abbastanza! Ci vuole dignità.
Per non pensare alle malattie invisibili…
Già!
Mi cita il libro I visitatori celesti di Chandra Candiani e oso arrivare al tema più delicato… Ci sono stati numerosi episodi ultimamente dove in seguito a decessi in ospedale i parenti hanno picchiato i medici. È come se la prospettiva della morte sia talmente alienata dalla consapevolezza del vivere nel quotidiano che ormai è qualcosa che non deve accadere, non è più concepibile. Che tipo di relazione ha con la morte?
Quando in sala operatoria mi “richiudono” e mi dicono che non si può fare nient’altro, che ci sono metastasi nel peritoneo, se non della gran terapia, io non mi sono buttata giù dal balcone dello Ieo (Istituto europeo oncologia a Milano ndr). Io ho sentito una serenità, come se fosse che proprio “deve andare così”. A un certo punto, dopo questo ultimo responso, quando ho avuto un casino con le vene che non tenevano più, per cui non potevano mettermi altri aghi e volevano mettermi un accesso e io non volevo più, lì ho ringraziato Dio e mi si è aperto un mondo: su una notizia così nefasta, come posso essere così serena? Perché lì ho capito… che per noi la morte e io sto facendo tutto un lavoro sulla morte, e le persone intorno poco capiscono e non si stanno zitti, ho capito che questo concetto della morte, e siamo nell’orto dove tutto muore e ricresce, questo concetto che è diventato un tabù per l’occidente ma non per l’oriente, lo dobbiamo reintegrare nella nostra vita, è il sale della vita perché fa parte dell’esperienza: siamo dei microbi rispetto al mondo, rispetto a Dio, all’universo che è Dio, a tutto quello che va oltre il nostro pianeta, come tutti muoiono e nascono, tutti e tutto perché noi mangiamo morte che prima era vita, anche noi facciamo parte di questo e la consapevolezza di questo ti fa cercare di essere una persona diversa: cerco di capire meglio me stessa, cerco di sistemare le cose anche con le persone a cui ho fatto un torto, perché mi rendo conto che si è sempre molto superficiali, egoriferiti e cerco di essere una persona migliore, di amare di più e, sinceramente, di essere grata. Perché poi alla fine l’amore è l’amore. Eppure, parte tutto dall’idea della morte, l’integrazione della morte nel tuo quotidiano, quello che fanno i buddisti, io non sono buddista.
Anche i cristiani hanno la morte dentro la vita ma spesso le raccontano male entrambe…
Esatto! Poi c’è l’amore che non è solo romantico: è rispetto per te stesso e per l’altro: una foglia, un altro umano, un animale, il fatto io che non butti per terra un pezzo di carta. E poi c’è un discorso spirituale, perché io mi voglio preparare alla morte, cioè io voglio arrivare alla morte serena, quando mi diranno che dovranno addormentarmi, mi faccio una bella festa con tutti gli amici e poi me ne vado. La morte deve essere dignitosa: o quando poto, non massacro le mie piante. Morire in un modo dignitoso è anche quello un segno di amore e anche qui ci sono associazioni degnissime che aiutano te e la tua famiglia. Quindi, questi che vanno a pestare i medici… ma dove siamo arrivati? Uno deve anche pensare al medico: che responsabilità ha, che vita fa, un salario assolutamente indegno…
Che cosa manca a queste persone che hanno picchiato i medici, che cosa impedisce loro di avere questa consapevolezza?
L’educazione. La scuola, una famiglia che sia stata amorevole nei loro confronti e l’unica cosa che conoscono è la violenza, non puoi rispondere al dolore con la violenza. Cosa vuol dire tutto questo? Con la mia salute un po’ di casini li hanno fatti… io sono “innamorata” del mio chirurgo, mi ha aperto, ha messo le mani nel mio stomaco e poi l’ho voluto in sala operatoria anche per i successivi interventi, lui ha beccato le metastasi nel peritoneo… e se uno sbaglia, sbagliamo tutti… sbaglio anche io e cosa si fa, mi prendete a legnate? Ci ammazziamo tutti? Io sono arrivata a pensare che sia anche la scuola… se la famiglia non ti è vicina, la scuola che è magistrae vitae dovrebbe sopperire, educarti, sviluppare la tua emotività, darti delle basi per cui tu non prendi un manganello e vai a menare il dottore che ha fatto un errore, perché tra il massacrare e non massacrare c’è una grande via in mezzo che è l’educazione, la cultura, le esperienze… si può essere diversi. La cosa è complessa…
E i medici nella relazione col paziente a che punto sono secondo lei?
Stanno facendo del loro meglio. Dovrebbero fare dei corsi in più di comunicazione medico-paziente, imparare a porsi e fare le domande giuste, lavorare sulla comunicazione che non vuol dire ascoltare le lamentele di pazienti rompi… stanno cercando nei ritmi allucinanti, senza soldi, sempre più nervosi, di fare del loro meglio. Metto in croce quelli presuntuosi che trattano male il malato, ma lì faccio subito, mi rivolto! Il paziente deve essere così consapevole da instaurare un rapporto col medico, che altrimenti starebbe lì solo a compilare… il paziente deve dire: “io non sono una malattia, sono una persona”. Se il paziente non ti vede interagire ti tratterà come un numero o come una bega da risolvere, sono portati a questo: come fai a stare dieci ore in sala operatoria? Escono e non hanno nessuna voglia di parlare… se io oggi sto male, non mi imbottisco subito di un antidolorifico, mi do il tempo di capire cosa sta succedendo e questo cambia il dialogo col medico. È tutto un casino! Narrare la propria malattia non è facile.
Però converrà che, se l’immagine che passa delle malattie anche attraverso gli influencer, come dicevamo, ci si spoglia, ci si denuda, si fa vedere il corpo mutilato ma vincente, non in campagne di informazione e sensibilizzazione, ma in trenta secondi di emotività, come si può arrivare poi al fatto che alla fine ci può essere la morte… che tipo di narrazione culturale desidera?
In questi cinque giorni in cui mi hanno cambiato lo stent e non potevo uscire per il catetere, io ho guardato la tv e non ho visto altro che tanta violenza… tutto il giorno un martello di cronaca nera e poi ci lamentiamo se un dodicenne accoltella la compagna che ha fatto la spia? Ho pensato ai genitori… ma che fanno adesso? A me non sarebbe mai venuto in mente di uscire da casa con un coltello da cucina… questa è una vittima anch’essa, è normale prendere un coltello e fare del male… in Giappone facevo le foto ai cerchioni delle auto perché erano puliti, non ci sono cestini per le strade perché nessuno si sogna di buttare via nulla per strada, ai bambini impartiscono sei anni di educazione civica, a scuola sparecchiano, servono, puliscono i bagni, si lavano… imparano 24 ideogrammi all’anno… lì tu sviluppi il senso dell’aiuto tra compagni, il senso della pulizia e diventa una questione di onore. I vecchi fanno volontariato. Mentre a Sant’Ambrogio a Milano ieri ho contato un centinaio di mozziconi di sigaretta per terra… perché non ti porti a casa la tua spazzatura?».
Il fatto che suo marito è uno psichiatra (Giovanni Tagliavini, con lei nelle foto sopra ndr) è stato utile nella sua malattia?
Per niente! Lui ha questa capacità di lasciare fuori casa la sua professione, l’aiuto che darebbe a un paziente, ma non ha confuso le carte, lui è stato ed è mio marito con le sue paure, le sue arrabbiature… forse per lui è stato d’aiuto l’essere medico per le dinamiche che insorgono in questi casi. La sua professione è entrata come medico, la lettura delle cartelle… la parte psichiatrica, no.
Adesso che sta lasciando le attività più pesanti, cosa le ha insegnato l’architettura, la pasticceria, coltivare, la cura delle piccole cose: leggendo le sue ricette, la scelta delle erbette selvatiche è una ricerca accurata… cosa le rimane?
Il comune denominatore tra tutte queste cose è il tempo. I fiori mi piacciono per i loro colori e profumi, gli ortaggi danno una grande soddisfazione perché poi te li mangi! Il tempo come pazienza: sia nell’architettura, che nella pasticceria che nell’orticoltura tu devi pazientare e anche nella malattia! Tu costruisci qualcosa ma non ottieni subito, devi aspettare, avere cura, pazienza, tenacia (anche i dolci non vengono subito), sono delle doti che hanno rafforzato il mio essere nella malattia e nel viaggiare nella malattia perché ci vuole tempo per ottenere risultati. In tutto questo c’è cura e c’è amore: l’anno scorso per la prima volta ho portato a casa una vite e non ne sapevo nulla di dove tagliare… quest’anno ero carica di uva. Il tempo ti fa vivere nell’attesa. Siamo in una lavatrice di consumismo allucinante: i rapporti umani invece li costruisci nel tempo, io ho reimparato a mangiare poco e nel tempo, si costruiscono le case nel tempo, si fa un dolce aspettando la lievitazione… rispettando questo crei qualcosa con amore e bellezza. Io vedo tanta fragilità nei bambini che fanno una cosa, non gli viene e si disperano, non riescono a stare nell’errore e nel non-riuscire: questo è il terribile! Gli viene chiesto di essere belli, bravi, prestanti. L’errore, così come la morte, non ci stanno più nell’esperienza. Il mio progetto “a” era l’architettura, il progetto “b” era la scuola di cucina, il progetto “c” ora è imparare a “stare” in tutto che vuol dire fermarsi e lasciare andare.
Dove andrà nei prossimi giorni?
Il 21 e 22 novembre sarò a Camogli (Genova). La professoressa Nadia Guglielmina Ranzani mi porterà a raccontare la mia vicenda al più importante congresso dell’Associazione italiana familiarità ed ereditarietà dei tumori – Aifet, è un autorevole momento per medici e operatori su queste malattie.
Ci rivediamo prima di sei mesi? Vorrei tanto vedere il suo orto!
Certamente!
Le foto sono dell’intervistata.
Nessuno ti regala niente, noi sì
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