In questi mesi di lockdown si sono trasformati in insegnanti, confidenti, psicologi, quasi genitori. Sono stati gli unici punti di riferimento possibile eppure tanto invisibili al governo. Sono gli educatori delle comunità alloggio per minori. Il fotoreporter Mauro Pagano all’interno del progetto #iononpossorestareacasa con l’agenzia di comunicazione sociale Etiket è entrato in due case famiglia “Hermes” e “Hera” della Cooperativa “Hope” della dott.ssa Speranza Ponticelli, a Caivano, in provincia di Napoli, per raccontare com’è cambiato il lavoro degli educatori in questi mesi di emergenza e isolamento.
«Gli educatori di Comunità sono figure professionali di cui si parla sempre troppo poco», spiega la Dott.ssa e Educatrice professionale Anna Montesarchio che ha conosciuto lo straordinario lavoro che la cooperativa Hope ha portato avanto in questi mesi e ha aiutato il fotografo Mauro Pagnano a capire meglio il mondo delle comunità per minori.
«In questo momento di emergenza Covid19 sono stati chiamati, e lo sono ancora, a dare al massimo affinché sia garantita l’assistenza ai minori ospiti di struttura, allontanati dai nuclei familiari di appartenenza, e per i quali rappresentano l’unico punto di riferimento sociale, affettivo e umano. Sono loro che sostituiscono momentaneamente la figura genitoriale nella cura e in tutte le attenzioni di cui i bambini e gli adolescenti hanno bisogno: ecco perché per l’educatrice è impossibile, come per una madre, rispettare il distanziamento sociale. Come potersi sottrarre alla richiesta di un abbraccio da parte di una piccola di 6 anni?».
Nelle due comunità vivono bambini e ragazzi dai 4 ai 18 anni. «Sono arrivati da noi», dice Francesca Alessi, responsabile della comunità Hera, «per i motivi più diversi. Vivevano in contesti degradati, arrivano da storie di maltrattamento fino all’abuso. In queste case famiglie poco alla volta ci si riabitua alla vita e alle regole: si va a scuola, si fanno i compiti a casa il pomeriggio, si pranza ad una certa ora e lo stesso vale per la cena. Si impara a vivere con gli altri, ad avere fiducia in loro a risentirsi degni di amore e attenzione. L’emergenza Coronavirus ha travolto questi ragazzi e anche noi educatori che abbiamo dovuto ricominciare da capo e trovare nuove forme di relazione e equilibrio».
Gli otto educatori delle due case hanno iniziato una quarantena nella quarantena: «Abbiamo avuto», continua Francesca, «e abbiamo ancora oggi solo contatti con i ragazzi della comunità. Prima di entrare in casa ci vestivamo con i vari dpi messi a disposizione dalla cooperativa, tute, guanti, mascherine. E una volta finito il turno tornavamo nelle nostre abitazioni rimanendo completamente isolati dalla nostra famiglia. Noi siamo stati l’unico contatto esterno con i ragazzi, la scelta dell’autoisolamento anche a casa era necessaria, non potevamo rischiare. Reperire tutti i dispositivi di protezione individuale per proteggere i nostri ragazzi non è stata un'impresa facile. Non abbiamo avuto materiali dalle istituzioni e se le comunità sono riusciute ad arrivare pronte ai giorni dell'emergenza lo si deve davvero alla forza straordinaria e all'impegno della cooperativa che ha recuperato tutto il materiale necessario che altrimenti sarebbe mancato esponendo sia noi educatori che i ragazzi al rischio».
Ma con i bimbi più piccoli è stato ancora più difficile: «Agli adolescenti abbiamo provato a spiegare il momento, a condividerlo con loro. Ad ascoltare insieme le notizie al telegiornale e commentarle. Ma con i più piccoli come fai? I primi 14 giorni sono stati i più difficili, quasi non li toccavamo. Come spieghi ad una bimba di sei anni che le stai facendo la doccia con i guanti perché la vuoi proteggere? La relazione fisica per i più piccoli è importante, li tranquillizza e li contiene».
Tutta la routine della casa è stata stravolta. Le case vengono sanificate tre volte al giorno. Si è iniziato a mangiare a turni in due stanze diverse. Nessuno è più andato a scuola e sono iniziate anche qui le lezioni online. «Ma è come se fossimo una famiglia con 16 figli», racconta Francesca, «non avevamo pc e tablet per tutti e quindi, anche per le lezioni, abbiamo dovuto organizzare dei turni. E ci siamo improvvisate maestre e professori perché la didattica a distanza, da sola, non basta. Ogni nostro passo o mossa in questi mesi ha avuto al centro il senso di responsabilità nei confronti nei nostri ragazzi».
«I minori ospiti delle Comunità alloggio e delle Comunità Educative a dimensione familiare sono spesso vulnerabili e molte volte hanno subito nel loro recente passato privazione sociale ed educativa», dice Anna Montesarchio per raccontare la situaizone tipica dei giovani che vivono in comunità.
«In questa fase di emergenza Covid-19 in cui sono costretti a restare a casa, rappresentata per loro dalla comunità, il non-frequentare la scuola , il non -avere contatti sociali, l’essere lasciati scarni di un adeguato conforto e sostegno emotivo , educativo e didattico, fa riaffiorare in loro il ricordo di esperienze traumatiche di abbandono e di pericolo, di allontanamento, di violenza e di rischio, esperienze di cui sono stati protagonisti proprio all’interno delle pareti domestiche. Per questo il lavoro degli educatori è diventato ancora più necessario».
Tutte le foto sono state scattate dal fotografo Mauro Pagnano
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