“È un destino più che una malattia. Una stranezza infame. Quel che agisce sugli altri come tesoro in me si trasforma in dolore. È la sorte di chi è nato per soccombere”. Lo scrive Daniele Mencarelli, poeta, scrittore e sceneggiatore (Tutto chiede salvezza, la serie di successo in due stagioni, tratta dal romanzo omonimo, su Netflix) nel suo libro La casa degli sguardi, ora anche al cinema con la regia di Luca Zingaretti.
Nel lavoro al Bambino Gesù la strada
In quel libro Mencarelli racconta in modo quasi chirurgico e senza falsi pudori il suo percorso di rinascita dopo l’inferno che ha attraversato dai 23 ai 27 anni quando ha vissuto anni di dipendenze da alcol e stupefacenti e grazie al suo lavoro all’ospedale pediatrico Bambino Gesù ha trovato la strada per lenire le sue ferite.
L’occasione per incontrarlo è l’uscita del suo ultimo libro Brucia l’origine (Mondadori, pp.192, 19 euro) ma le nostre intenzioni sono anche altre e lo abbiamo chiarito subito con l’incipit di questo articolo. Indagheremo il dolore con la D maiuscola per capire come si riesca a declinarlo, senza soccombere.
I tuoi libri – da La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza a Fame d’aria, tanto per citarne alcuni – hanno un fil rouge che li unisce: metti a nudo il dolore e costeggiando il male e i suoi affini eviti di compiacertene. Tu narri il dolore, l’impotenza, la disperazione ma attraverso essi, nel medesimo istante fornisci spiragli di radianza. Da cosa nasce questa asciutta capacità?
Credo che disperare sia in alcune circostanze semplicemente impossibile, tanto più grande è il male, tanto più grande il desiderio di affidarsi alla speranza. Chi soffre, spera.
La differenza tra sensibilità e fragilità. Ho letto che nel tuo caso non ami che venga usata la parola sensibile. Perché?
Perché non amo le definizioni che tendono a cristallizzare le persone. La fragilità è un elemento di ricerca, è in movimento, la sensibilità rischia di diventare un alibi, per rifugiarsi nell’inazione o nel compiacimento, quasi a dire “se sento” sono migliore di te.
Scrivi: “Le parole mi accompagnano da sempre, sono cristallo e radice, viaggio e lama, sono tutto, tranne medicina” Però le parole curano…
Le parole sono tutto. Viviamo e comunichiamo con le parole. E vanno sapute dosare. All’interno del Bambino Gesù, per quello che mi sono trovato a fare ed affrontare spesso restavo senza parole, perché il dolore inaudito che si prova nel vedere un bambino che muore è enorme. Come fa, quel dolore, ad esprimersi? Tutto è impotenza, eppure generatore di speranza.
Dolore come soggetto e non oggetto del sentire?
Esatto. Io sono nudo di fronte al dolore, mio e degli altri e devo dargli voce per poterlo elaborare, proteggere, condividere e, se possibile, superarlo.
In fondo, da quel dolore inaudito è nata la tua rinascita?
Non si può mai dire di rinascere per sempre. Niente è definitivo ma ora, per uno come me che vive nel presente, posso dire che sono il controllore delle mie fragilità. So che ho difficoltà di gestione di certe cose e devo fare attenzione. In questo percorso, tra l’altro, ho imparato a riconoscere il valore sacro del perdono.
Mi fai venire in mente l’attenzione di cui parlava Simone Weil quando diceva che l’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. Ti senti generoso?
Non so se si tratti di generosità, ma il mio essere nudo verso gli altri forse è un dono che elargisco. Io esisto grazie agli altri, mi perdo o mi salvo grazie agli altri. E sto alla larga dal narcisismo che può esserci nell’azione del bene.
Il tuo ultimo libro è Brucia l’origine. Origine uguale a radici?
Sì. Origine è qualcosa che ti porti sempre dentro anche quando la tua vita prende una piega diversa da dove, appunto, tutto ha avuto origine. Come Gabriele che è nato in un quartiere popolare romano ma poi si trasferisce a Milano dove diventa un designer molto famoso. Dopo quattro anni torna a casa dei suoi e lì implodono le contraddizioni e emerge il divario che ancora esiste tra le classi, che oggi può sembrare più sfumato, ma esiste ancora!
Annie Ernaux nel suo libro Il posto, diceva “ora sono di un’altra classe, ma resterò sempre un’ospite”. Vale anche per te, ora che vivi una stagione felice grazie alla tua scrittura?
Sarei ipocrita se dicessi che ancora subisco questo disagio. Il successo che mi ha dato la scrittura, che è la mia vita, mi permette di saper gestire molto meglio la difficoltà che invece vivevo all’inizio, venendo anch’io da una famiglia semplice, ma come dice la Nobel francese, sì siamo ancora ospiti e le dinamiche che si producono in certi ambienti sono ancora ottocentesche.
Ti sei mai soffermato a pensare a quale sia il tuo primo pensiero quando ti alzi la mattina?
Bella domanda. Dovrei partire dal mio tempo non sereno della notte, soffrendo di insonnia, il mio letto lo chiamo il mio “ufficio orizzontale” e rimuginando può accadere che le cose migliori vengano a me in modo produttivo e, quando mi alzo la mattina, penso sempre a come pianificare la mia giornata, a come gestire la scrittura, che per me è l’ossatura della mia esistenza, il fulcro che tutto muove, quindi mi rendo conto adesso, che questo significa che ‘sveglio’ me stesso, metto in asse il mio Io.
Nelle dediche ai tuoi libri spesso ti rivolgi ai lottatori, ai sommersi, nei ringraziamenti al tuo ultimo libro, Brucia l’origine, scrivi “ai disgraziati che diventano maestri”. Chi sono?
Tutti coloro che trovo nei luoghi di cura, di “redenzione” come i carcerati, chi parte da uno sbaglio, da un reato e non si ripiega su se stesso ma si rimette in gioco, che vive un’esperienza umana a tutto tondo con condivisione e generosità.
Chiudiamo con un’altra dedica. Nel libro Fame d’aria recita: “Dio è un altro”. Cioè?
L’ho presa da Artur Rimbaud che scriveva Io è un altro. Dio è rappresentato dalla salvezza che mi hanno dato gli altri. Spesso la parola Dio è stata abusata e usata in modo indegno come ben sappiamo. Per me Dio è l’incontro con l’altro. E l’altro, se ti metti in ascolto, può solo salvarti.
Nell’immagine in apertura un ritratto di Daniele Mencarelli – foto di Claudio Sforza
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