Specialità o normalità? Non c’è famiglia che non abbia vissuto il dilemma, sul tema “scuola e inclusione”. Perché se punti sulla tecnica hai dei vantaggi in termini di efficienza, ma perdi i vantaggi della socialità, dell'appartenenza, della normalità. Mentre se punti sulla normalità hai i benefici dell'accoglienza e della socialità, ma perdi i benefici della competenza tecnica. È un dilemma lacerante, perché l’ideale sarebbe avere tutte e due le cose. Si intitola infatti Specialità e normalità il nuovo libro che Dario Ianes ha scritto a quattro mani con Heidrum Demo, entrambi docenti di pedagogia dell’inclusione a Bolzano. Tra i due corni del dilemma c’è una “e”, non una “o”. Ma riconoscere che il dilemma c’è – e forte – è l’inevitabile punto di partenza. "Affrontare il dilemma per una scuola equa e inclusiva per tutti", dice infatti il sottotitolo, perché – spiega Dario Ianes, «la pedagogia speciale deve essere pensata per tutti e rivolta a tutti, nessuno escluso. È questo il suo oggetto fondamentale, ciò per cui l'inclusione è la cartina di tornasole dell’educazione. L’inclusione in educazione non ha come target un gruppo specifico di alunni, ma intende portare l’attenzione sull’equità dell’offerta formativa. Le differenze umane in tutto il loro ampio spettro giocano un ruolo importante in questa visione, perché una scuola equa è una scuola che ha il coraggio di “fare differenze” positive, compensative e perequative verso quelle differenze che se non agissimo con equità diventerebbero disuguaglianze».
Che cos’è la speciale normalità?
Speciale normalità un'espressione quasi ossimorica. Nel 2005 a un convegno Erickson rimasi molto colpito dall’intervento di uno psicologo bravissimo, Enrico Micheli, che lavorava con i disturbi dello spettro autistico. Disse – e poi lo ha anche scritto – che per alcuni alunni non è possibile stare positivamente nella scuola normale, nella scuola di tutti, perché determinati interventi tecnici lì dentro non sono fattibili. Che ci sono ragazzi che hanno bisogno di un intervento più specifico. Esplicitava un dilemma forte, che è il dilemma della differenza, un dilemma che esiste nella letteratura internazionale. Il libro La speciale normalità uscì nel 2006. Basai il ragionamento sulla dialogica o bilogica di Edgar Morin: dobbiamo affrontare il dilemma e assumerci la sfida di riuscire a tenere insieme anche le cose apparentemente più inconciliabili. Non si tratta di mescolare il bianco e il nero per farci un grigio, per trocare una sintesi: le differenze restano, ma il conflietto generativo modifica un po’ sia la specialità sia la normalità. Ciascuna delle due ne esce un po’ diversa. Per dire, in Germania hanno le scuole speciali ma si pongono il problema di rendere un po’ attenta, un po’ competente anche la scuola normale e noi abbiamo il tema di fare entrare competenze tecniche dentro la scuola normale. Il ragionamento ha avuto molta fortuna e dopo 16 anni con Heidrum Demo abbiamo voluto dare un'ulteriore evoluzione teorica. Con un ulteriore stimolo: il fatto che in questi anni non parliamo più di integrazione ma di inclusione e che questo tema non riguarda più come nel 2006 soltanto gli alunni con disabilità, ma tutte le differenze che stanno nella scuola e che nel 2006 non erano considerate, gli alunni con Dsa, Bes, background migratorio, famiglie del tutte nuove, quelli iperdotati, quelli che portano nella scuola un tema di nuova consapevolezza nella dimensione del genere e dell’orientamento sessuale. Il paradigma vale per tutti.
Specialità o normalità? Il dilemma c'è. Non si tratta di mescolare il bianco e il nero per farci un grigio, per trocare una sintesi: le differenze restano, ma il conflietto generativo modifica un po’ sia la specialità sia la normalità. Ciascuna delle due ne esce un po’ diversa. È il tema della didattica universale. Una didattica così si potrebbe anche non chiamarla più didattica inclusiva.
La scuola come un caleidoscopio della «infinita varietà delle differenze umane», per citare Fred Vargas, da far girar la testa all’insegnante più esperto. Nella pratica, come si fa?
Abbiamo ampliato la parte degli esempi, invece di fare riferimento solo alla disabilità o all’autismo, abbiamo presentato un discorso di progettazione della classe inclusiva, dove le parti speciali e tecniche sono costruite dentro la programmazione normale, non di fianco o a lato, ma parte costitutiva di quella programmazione normale. Così effettivamente tutte le differenze possono trovare una loro modalità di risposta. È il tema della didattica universale. Una didattica così si potrebbe anche non chiamarla più didattica inclusiva.
Quali sono i dilemmi dell'inclusione oggi?
Quello più tipico riguarda gli insegnanti di sostegno: li formo di più o no? Più formati vuol dire più competenti, ma poi si rischia che gli altri docenti deleghino ancora di più a loro. L’insegnante di sostegno è una risorsa per l’alunno o per la classe e allora la si “spalma” su tutti? Il Pei è certamente un'ottima cosa, ma può diventare anche un passaporto per l’esclusione? L’etichetta di Dsa protegge e tutela, ma può esser anche una stigmatizzazione che ostacola? La percezione di questi dilemmi non c’è tanto nella quotidianità della scuola, mentre è importante che gli insegnanti si pongano il dilemma, ci si soffermino. Il docente ha bisogno sì di suggerimenti, di vedere come si può fare ma anche di consapevolezza, di sviluppare un pensiero critico rispetto alle cose.
Negli anni scorsi questo tema della speciale normalità è stato generativo?
Sì, molto, e speriamo lo sia ancora. Il dilemma è generativo proprio per non accettare i due corni del dilemma. L’idea originale è che io non accetto nè il bianco nè il nero: bisogna portatre nella nomalità un po’ più di tecnica e dall’altra parte normalizzare e umanizzare la tecnica. Questo è il paradigma, un processo culturale non da poco, ma quando si riesce a parlare genuinamente con le famiglie è chiaro che non è la copertura con 18 ore di sostegno come proprietà privata del figlio che cambia la situazione della scuola. Quello che fa la differenza e che fa i risultati è tutta la didattica, il rapporto con gli insegnanti, il rapporto con i compagni. Il sostegno è un mezzo. Noi famiglie portiamo a scuola i figli per i risultati o per i mezzi? Occorre un cambio ottica, dai mezzi ai fini: dobbiamo cominciare a valutarci sui fini, non sui mezzi. ma siccome non c’è cultura nel valutarci sui fini, allora ci fermiamo ai mezzi e facciamo ricorso al Tar per chiedere più ore di sostegno. Tra scuola e famiglie c’è poco dialogo, poca co-costruzione del percorso: sono convinto che se ci fosse più dialogo, tutti questi ricorsi che ci sono oggi sparirebbero.
Il rischio della normalità è facile da vedere: poca efficacia. Quello della specialità anche, la mancata socializzazione. Ci fa un esempio concreto di come se ne esce in maniera generativa?
Nella scuola oggi entra sempre più personale tecnico, per esempio i tecnici ABA pagati dalla famiglia. L’ABA è un ottimo approccio, con evidenza scientifica. È un intervento molto speciale. Come può interpretare la scuola questo contributo tecnico dentro la normalità? Un primo modo è che l’alunno esca e faccia un’oretta di lavoro con il tecnico ABA nello stanzino. Questo è il rischio di una tecnica che separa invece che di una tecnica che tecnicizza la normalità. L’altro è che il tecnico ABA formi i docenti, perché possano fare anche loro un pochino di ABA. Non sarà la stessa cosa, d’accordo, l’esperto è più esperto, ma l’efficacia dell’intervento sarà maggiore. Tutti conosciamo Claudio Imprudente, che comunica con la tavoletta. Supponiamo di avere un piccolo Claudio Imprudente in classe, alle medie, che ha un facilitatore alla comunicazione. Il facilitatore cosa fa? Tiene in mano sempre e solo lui la tavoletta? È lui l’unico che media la comunicazione con gli altri? Oppure quel facilitatore insegna a tutti i ragazzini e ai docenti come usare la tavoletta per comunicare con Claudio. È una cosa che diventa una speciale normalità. Se una specialità è non trasmissibile d’accordo, ma se è trasmissibile come prima cosa deve essere trasmessa. Andrea Canevaro se fosse qui direbbe che per prima cosa bisogna rendere competente il contesto. In questo modo la scuola in sé diventa più ricca, mentre più delega e più si impoverisce perché perde quegli stimoli che la ricerca scientifica produce.
Tutti conosciamo Claudio Imprudente, che comunica con la tavoletta. Supponiamo di avere un piccolo Claudio Imprudente in classe, alle medie, che ha un facilitatore alla comunicazione. Il facilitatore cosa fa? Tiene in mano sempre e solo lui la tavoletta? Oppure insegna a tutti come usare la tavoletta per comunicare con Claudio? Se una specialità è trasmissibile, come prima cosa deve essere trasmessa. Andrea Canevaro direbbe che per prima cosa bisogna rendere competente il contesto.
Secondo Fondazione Agnelli in dieci anni dal 2013 al 2022, gli insegnanti di sostegno sono passati dal 13% al 21,5% del totale. Sappiamo però che moltissimi non hanno una preparazione specifica: secondo l’Istat il 32% è senza formazione specifica (42% nel Nord, 19% nel Mezzogiorno). Negli ultimi tre anni la quota di insegnanti specializzati per il sostegno ha registrato un significativo incremento, passando dal 63% dell’anno scolastico 2019-2020 al 68% dell’anno scolastico 2021-2022.
Noi abbiamo un sistema per cui le scuole si vedono costrette a dare l’incarico sul sostegno a persone che fino all’anno prima facevano tutt’altro. Come si fa a pensare che questi lavoratori possano essere il perno dell’inclusione, quelli che giocano il ruolo più importante sul livello inclusivo? Anche questa formazione online delle 25 ore, con mille persone connesse… una cosa è raccontare e un’altra è entrare in classe, spostare i banchi, fare piccoli gruppi. La vera formazione è sempre quella situata, con qualcuno di più esperto che viene dentro la tua aula e insieme si fanno cose.
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