«No, non pago. Andate a lavorare e guadagnatevi i soldi come tutti”. Lo gridò Libero Grassi nel ’91, ma ancor prima di lui Salvatore Incardona, uno dei grossisti del mercato ortofrutticolo di Vittoria che si ribellò a chi gli chiedeva di pagargli il pizzo o gli voleva imporre merce scadente. Un uomo anche lui tutto d’un pezzo, crivellato di colpi la mattina del 9 giugno 1989, mentre era al volante della sua auto per andare al lavoro.
«Ogni giorno scendeva alle 5 per recarsi al mercato, poi tornava alle 8 per accompagnarmi all’asilo – racconta Eliana Incardona, che allora aveva 7 anni, mentre la sorella Valeria ne aveva 11, Gianni 23 e Carmelo 25 -. Con lui andava solitamente mio fratello che quel giorno fece tardi. Lo avrebbe raggiunto dopo. Un ritardo provvidenziale. Sentimmo gli spari e mia madre provò ad alzare la tapparella della finestra, ma la cinghia le si ruppe in mano. Se si fosse affacciata, avrebbe assistito a una scena che non si sarebbe più tolta dalla mente».
Un uomo integerrimo, Salvatore Incardona, per il quale esisteva solo il lavoro e la famiglia.
«Non ci ha mai detto quello che viveva – pesca nei ricordi Eliana –, invece subiva continue pressioni. Provò a fare capire agli altri che non era giusto pagare dei parassiti, ma la risposta che ricevette fu "proviamo a chiedere di farci di pagare di meno". Per lui inconcepibile, inaccettabile. Ovviamente la mafia cominciò a capire che, a lungo andare, mio padre avrebbe potuto convincere gli altri. Era diventato un problema serio. Provarono anche a dargli dei pomodori marci da vendere, che lui rimandò al mittente dicendo: "portateli via". Fino quando decisero che era diventato troppo scomodo».
Una cicatrice che non si potrà mai rimarginare, un dolore mai sordo che grida giustizia.
«Quando mi chiedono se quel che ha fatto sia servito, dico che chi muore viene dimenticato, se non c’è chi fa memoria. Come gli uomini delle scorte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La giornata del 21 marzo, organizzata ogni anno da Libera, serve proprio per “non dimenticare” chi, come mio padre, ha sacrificato la propria vita perché credeva che si potessero cambiare veramente le cose. Il suo esempio mi guida sempre. Mi chiedo cosa direbbe, cosa farebbe davanti alle mie scelte. Avrei voluto fare tante cose insieme a lui, invece me lo hanno impedito strappandomelo diciamo pure dalle braccia ».
Ma la città ha riconosciuto il suo sacrificio?
«Gli é stata intitolata una strada del mercato ortofrutticolo. Non sana la ferita, ma è sempre un segnale. Penso anche che, se lo Stato ci fosse stato vicino, magari saremmo potuti andare via, cambiare città e saremmo ancora tutti insieme».
Che eredità ha lasciato suo padre alla vostra famiglia?
«Valori e sentimenti profondi. I miei figli sono consapevoli di avere avuto un nonno coraggioso, morto per mafia perché portava avanti una battaglia di legalità. Sanno, quindi, cosa fare e cosa dire a chiunque. Il figlio di mio fratello, il primo nipote maschio, si chiama Salvatore e con lui è come se mio padre fosse sempre presente. Ha 24 anni e sa di portare un nome importante, il nome di una persona che ha fatto il più grande sacrificio: rinunciare alla sua vita per sperare di innescare germogli di coraggio e determinazione nelle future generazioni».
Quando si parla di vittime innocenti di mafia si parla anche di famiglie che, nonostante sembrino accettare il loro destino, non saranno più le stesse. Famiglie che piano piano si consumano, non riuscendo più a reagire. Le loro vite si congelano nel momento esatto in cui la mano feroce della criminalità mafiosa colpisce. A Vittoria si sviluppa anche la tragica storia di Salvatore Ottone, rimasto ucciso “per caso” una mattina di 23 anni fa, nel bar dove aveva deciso di prendere un caffè prima di andare al lavoro.
«Non potrò mai dimenticare il pianto di mia madre, uguale al giorno in cui ha saputo che mio fratello era stato ammazzato. Non credo che la sua voce e il volto, sul quale leggevi un dolore inconsolabile, mi lasceranno mai nella vita».
Aveva 16 anni Rosalinda Ottone, quando il 2 gennaio 1999 suo fratello Salvatore rimase ucciso insieme all’amico Rosario Salerno nel bar di un distributore di benzina ESSO di Vittoria, in quella che verrà ricordata come la “Strage di San Basilio”. Obiettivo dei killer erano Angelo Mirabella, reggente del clan della Stidda di Vittoria, Rosario Nobile e Claudio Motta, affiliati al clan dominante. Una vera e propria mattanza, dalla quale si salvò solo il barista perché ebbe la prontezza di infilarsi sotto il bancone. In effetti anche Salvatore si sarebbe potuto salvare perché era stato ferito al braccio ma il killer, mentre stata scappando, si girò e dalla vetrata vide Salvatore muoversi, così tornò per finirlo con un colpo in testa. Lo raccontano coloro che vennero arrestati e collaborarono
«Dal giorno della sua morte, la nostra famiglia è finita – racconta Rosalinda –. Mia madre per 10 anni si è recata ogni giorno al cimitero. Credo di non averla mai più vista sorridere. Nel 2010 ha anche dovuto affrontare una brutta malattia, dalla quale si era ripresa, ma 4 anni fa, durante un pranzo in cui eravamo tutti presenti, nipoti compresi, ha avuto un infarto e non ce l’ha fatta. Poco tempo dopo, ci ha lasciati anche mio padre. Pure la madre di Rosario è morta qualche mese dopo la mia».
Una vita distrutta da una simile tragedia non si può descrivere…
«Ovviamente mia madre non ha mai accettato quel che era accaduto e per tantissimo tempo ha apparecchiato per cinque. La nascita dei nipotini l’ha un po’ aiutata, ma io non me la sono mai sentita di lasciare soli ne lei ne mio padre. Diciamo che mi sono annullata. Ora sono rimasta sola, ma non mi pento della mia scelta. Mia madre mi diceva sempre: “Tuo fratello devi farlo conoscere, portarlo in giro con orgoglio, per non fare dimenticare la sua storia”. Ora, grazie a Libera, posso mantenere la promessa fatta a mia madre».
Una famiglia umile, dedita al lavoro, quella degli Ottone, per la quale la cultura del lavoro era il fondamento della loro vita.
«Salvatore ha cominciato a lavorare a 13 anni. Voleva essere indipendente e aiutare anche la famiglia. Lavorava nel montaggio delle serre, un mestiere molto faticoso, e per arrotondare sistemava la merce del mercato di Vittoria col muletto. Quando poteva, dava anche una mano di aiuto nel negozio di fiori di famiglia. Se c’era da fare qualcosa, se doveva facilitare qualcuno, era sempre disponibile. Ci ha, quindi, fatto soffrire quando all'inizio qualcuno ha insinuato che era stato ucciso perché appartenente al clan. Fortunatamente in tanti a Vittoria conoscono la nostra famiglia e mai avrebbero pensato che Salvatore potesse essere coinvolto in affari poco puliti. Se dovessi scegliere un episodio per spiegare il suo senso di responsabilità, sarebbe quello di quando, volendo comprarsi l'auto senza gravare sul bilancio familiare, per diverso tempo tagliava la legna in garage sino a tarda sera, illuminato solo dai fari del furgone. Un episodio che ci ha sempre reso fieri di lui».
Come si racconta a dei ragazzi della morte ingiusta di uno zio come il loro?
«I mie due nipoti sono Salvatore, che deve fare 16 anni, e Sara, che ne ha compiuti 11. Abbiamo aspettato che avessero l'età giusta per capire. Hanno, però, sempre respirato la nostra sofferenza. C'erano anche loro a tavola il giorno in cui mia madre si è sentita male. Purtroppo una famiglia, quando è segnata da un dolore come il nostro, non si salva».
Oggi è più arrabbiata, più delusa? Quale sentimento le appartiene?
«Sono arrabbiata in linea generale, a volte con tutto e tutti. Poi penso che viviamo ognuno delle sofferenze e trovo il modo per rasserenarmi. Certo, mi ha fatto piacere quando hanno intitolato sia la curva sud dello Stadio sia una strada a mio fratello, ma non sono segnali di cambiamento della società. Lo dimostra il fatto che l’amministrazione comunale successiva non l’abbiamo mai vista. Lo dico solo per dovere di cronaca perché a noi fa piacere solo quando si ricordano Salvatore e Rosario. Il resto non ha assolutamente importanza».
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