Mauro Palma è il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà. Palma ricopre questa carica fin dall’entrata in funzione di questa autorità indipendente dello Stato italiano, nel febbraio 2016, e fa parlare i fatti, non concedendosi molto spesso ad interviste. Lui e i vertici del Dap – il Dipartimento di amministrazione penitenziaria – sono stati coinvolti nel primo incontro pubblico della Ministra della Giustizia Marta Cartabia a inizio marzo, per ripensare il carcere del domani, insieme ai tanti volontari che operano in carcere e che sono fuori da un anno a causa della pandemia. Con lui abbiamo parlato anche della situazione attuale delle carceri, tra contagi, sovraffollamento e il vaccino che sta entrando in circolo
Le chiederei in partenza qual è il suo punto di vista sul gesto della Ministra della Giustizia Marta Cartabia che ad inizio mese, come primo incontro istituzionale da Guardasigilli, – segnando con questo gesto tutta la distanza dal precedente Ministro – ha incontrato lei e i vertici del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Che significato ha avuto e come si dovrà lavorare per rendere le sue «Il carcere è un luogo di comunità che va protetto anche con le vaccinazioni», concrete?
Non per sminuire il suo gesto, anzi – vista la nostra conoscenza pregressa al nostro ricoprire i rispettivi ruoli – ma la Ministra ha interpretato i valori costituzionali su cui i nostri padri costituenti hanno scritto le regole su cui si fonda il nostro vivere sociale. Mi colpisce di più chi non compie questi gesti. Purtroppo ultimamente si erano perse le essenze costituzionali del ruolo rieducativo delle carceri. Quell’incontro e le prime azioni della Ministra Cartabia, vanno nella direzione dell’articolo 27 della Costituzione, vanno nella direzione dell’indignazione verso chi parla di “persone da far marcire in carcere”. Un valore forse positivo che la pandemia ci potrà lasciare, è non si potrà più dire di non sapere che esistono certe criticità negli istituti di pena. Dalla conoscenza di cosa accade in carcere e dalla volontà della Cartabia di affrontare la pandemia – innanzitutto – senza prescindere dal fatto che il carcere è un insieme di persone, una comunità appunto, nella quale contano ovviamente le condizioni di ogni singola persona è emblematica. Dobbiamo far si che la storia di un detenuto diventa poi quella di tutti. Ecco, con la Ministra Cartabia, finalmente, questo itinerario sembra potersi avverare.
Un ruolo fondamentale per il percorso di rieducazione del reo che deve avvenire in carcere, ma anche per sopperire ad alcune lacune del sistema, le associazioni e le reti associativi dei volontari sono fondamentali. Essenziali quando in molti casi si occupano di portare esperienze culturali altrimenti difficili da realizzare, o di fornire materiale per l’igiene intimo, quantomai necessario in tempo di epidemia…
É così, i volontari mancano tanto all’economia e alla vita delle carceri. Per capire la loro importanza farei un passo indietro, infatti oltre ai problemi legati ai contagi e al sovraffollamento, a cui facevo riferimento, in carcere oggi ci sono altre questioni aperte: la prima è dovuta al periodo extra-ordinario e di isolamento sociale che da un anno a questa parte ha cambiato le vite di tutti, dentro il carcere, ma anche fuori. Il fatto che però il carcere sia già di per sé un luogo che isola il reo dal resto della comunità, ha reso i penitenziari un deserto. Ho sempre creduto che il carcere italiano avesse un valore aggiunto nella grande permeabilità tra l’interno e l’esterno, grazie alle tante associazioni di volontari che operano all’interno. Tanto volontariato entra, e qualcosa del carcere viene portato fuori: penso ai progetti di cucito, di cucina, ai laboratori di lavorazione di materiali come il legno e molti altri. Il tutto si intreccia con le attività più istituzionali come la formazione e l’istruzione. Questi percorsi – forzatamente da un anno – di sono bloccati. Il carcere è diventato silenzioso. Il modello della detenzione vissuta come uno “stare in cella”, ho paura che si affermi vanificando sforzi e percorsi di anni.
I volontari, oggi, mancano tanto all’economia e alla vita delle carceri
Mauro Palma
La solitudine e la sensazione di essere isolati dal mondo esterno spesso degenera in problemi di natura psicologica e a volte anche psichiatrica che il carcere non sempre riesce al meglio a gestire. E questo sentimento di “vivere fuori dalla realtà” è acuito dall’impossibilità di avere le visite con i propri affetti in presenza. Questo cocktail fu anche una delle concause delle rivolte di un anno fa, oggi qual è la situazione?
In questo periodo i disturbi soggettivi, dalle dipendenze da sostanze stupefacenti, a stati mentali e psichici fragili, si acuiscono. E sfociano anche in malattie psichiatriche. Se ciò accade oggi fuori dagli istituti di pena, in carcere questo succede in modo esponenziale per via delle maggiori limitazioni fisiche e psicologiche. Questi disagi che a volte diventano vere e proprie patologie si curano solo in un carcere plurale, mentre si acutizzano in un carcere chiuso come giocoforza è oggi. Questa situazione ricade sui pochi operatori che sono all’interno e quindi spesso sugli agenti di Polizia penitenziaria, che però non sono formati per questo. La solitudine in carcere si è poi acutizzata ancora di più perché, a causa della pandemia e per prevenire il contagio, sono rimasti fuori i familiari. A questo si è provveduto anche in tempi rapidi grazie alla tecnologia che è arrivata attraverso l’attività di molte realtà di volontariato. Perché non occorrevano solo i dispositivi ma anche gli abbonamenti ed il credito che molti volontari hanno fornito alle carcere. Ma questo non è sempre avvenuto in modo uniforme sul territorio nazionale. Ritengo si debba lavorare ancora molto sulla tecnologia nelle carceri, sia come mezzo di comunicazione in tempi di pandemia, sia per rafforzare la presenza di quella ricchezza e varietà di presenza educativa e terapeutica che forniscono i volontari e che può permanere in carcere in modo più dinamico attraverso la tecnologia.
Dalla sua analisi mi sembra di capire che manchi uno sguardo d’insieme sullo sviluppo delle carceri. Del loro risolvere i problemi – del passo e – del presente e di pensarsi come sempre più uno strumento per la rieducazione del reo, non per la punizione del condannato. Da dove partire per costruire un carcere umano, come lo vuole la costituzione?
In questo momento, e a seguito dei problemi endemici delle carceri del nostro Paese e a quelli sollevati dal Covid, il carcere non sembra avere una direzione, pare restringersi ad un tempo sottratto alla vita. Il tempo vuoto è il peggior rischio rispetto all’esistenza di ognuno e in particolare di chi è ristretto negli spazi per via di una sanzione penale. Questo fa perdere l’indicazione costituzionale riabilitative, su cui faticosamente abbiamo lavorato in questi anni. Anche attraverso esperienze artistiche e culturali che non sono solo passatempi, ma implicano un lavoro su se stessi e sulla propria persona, come gli spettacoli teatrali. Dobbiamo partire dalla permeabilità del carcere e non dalla cesura tra chi sta fuori e chi sta dentro. Un carcere umano e parte integrante della società, è quello che ci impone la Costituzione.
Bisogna lavorare ancora molto sulla tecnologia nelle carceri, sia come mezzo di comunicazione in tempi di pandemia, sia per rafforzare la presenza di quella ricchezza e varietà di presenza educativa e terapeutica che forniscono i volontari
Mauro Palma
Farei, se è d’accordo, un passo indietro, o meglio, un passo dentro le carceri oggi: qual è la situazione dei contagi in carcere, che essendo un luogo chiuso e ristretto presenta molti più rischi rispetto a tante altre situazioni sin dall’avvento della pandemia?
La situazione dei contagi ad oggi non è rosea [ndr. a lunedì 22 marzo], perché ci sono 559 persone detenute positive al virus e 768 operatori contagiati. I dati sono in rialzo rispetto alle ultime settime. Le persone sintomatiche tra i detenuti sono però 24 di cui 16 ospedalizzati. Questo continua a creare preoccupazione visto che la realtà del carcere è chiusa sia negli spazi che negli ambienti e quindi va monitorata con molta attenzione. Questo possiamo dire che è un dato che ci desta preoccupazione ma non allarme.
Resterei ancora sui numeri, non più quelli dei contagi, ma quelli del sovraffollamento. Qualcosa si è fatto per abbattere il numero di detenuti presenti in carcere rispetto ai posti disponibili, non solo, ma anche, per prevenire il contagi del virus.
Alla vigilia dello scoppio della pandemia, alla fine di febbraio 2020, i detenuti erano 61.230. Alla fine di febbraio 2021 sono 53.697. In un anno i detenuti sono calati di 7.533 unità [il 12,3% del totale]. Ciò è dovuto più all’attivismo della magistratura di sorveglianza che non ai provvedimenti legislativi adottati in materia di detenzione domiciliare per far fronte al virus. Ma il tasso di affollamento ufficiale è ancora pari al 106,2% e sale al 115% se consideriamo i reparti chiusi che riguardano circa 4.000 posti. Il sovraffollamento non è distribuito in maniera uniforme. Qualche esempio: a Taranto abbiamo 603 detenuti per 307 posti (un affollamento di quasi il 200%), a Brescia 357 detenuti per 186 posti (191,9%), a Lodi 83 detenuti per 45 posti (184,4%), a Lucca 113 detenuti per 62 posti (182,3%). Del totale della popolazione, i condannati con sentenza definitiva sono infatti il 69,1% dei detenuti italiani e il 65,3% degli stranieri.
É possibile pensare ad una redistribuzione della popolazione carceraria? E ancora, come prevenire il sovraffollamento che – al di là dei rischi di salute per via della pandemia – condanna i detenuti ad avere meno spazi e minori occasioni di rendere davvero rieducativa la pena?
Le persone detenute non possono essere redistribuite ugualmente dappertutto. Nel carcere ci sono dei circuiti diversi, a seconda della sicurezza. C’è la differenziazione sulla base del sesso o persone che seguono percorsi di protezione perché collaboratori. Il sovraffollamento è costante, ma la “media” nasconde situazione al limite del disumano ad altre di relativo rispetto delle norme. Dobbiamo insistere sull’estensione della “liberazione anticipata”. Un nome che la fa sembrare altro da ciò che è, ovvero: alla persona che in carcere, sulla base di una valutazione interna all’istituto di pena e del magistrato di sorveglianza, che abbia tenuto un comportamento positivo rispetto al percorso di rieducazione alla vita in società vengono condonati 45 giorni ogni 6 mesi. L’idea sarebbe quella di spingere perché i giorni diventino 75. Questo fatto, che può sembrare poca cosa, avrebbe un’effetto di riduzione del sovraffollamento significativo, senza dover ricorrere ad amnistie indiscriminate, ma come effetto ragionato di un percorso di rieducazione del reo che è parte integrante della pena. Che va sempre ricordato non è punizione, per la nostra Costituzione.
Dobbiamo insistere sull’estensione della “liberazione anticipata”
Mauro Palma
Date questa condizione il contesto delle carceri italiane che ci ha descritto, per avviare un processo di rinnovamento del carcere, si può partire dalla campagna vaccinale in corso? Essa che ruolo può avere?
Oggi abbiamo una campagna vaccinale che sta procedendo, sia per i detenuti che per gli operatori di polizia, amministrativi ed educativi che operano all’interno. Occorre però, prima di tutto, un grande investimento culturale e progettuale per ridare alla pena uno scopo e una direzione, perché altrimenti si correre il rischio di pensare e progettare un carcere vissuto da una popolazione che non fa parte della società nel suo complesso. Mi spaventa la cesura tra una presunta società a-problematica fuori, e una problematica dietro. Dico mi spaventa perché si è stati molto in silenzio quando non più tardi di un anno fa, quando ci sono state rivolte e morti in carcere come non ce n’erano da decenni. È stato vissuto come un incidente a “qualcun altro” e non una ferita alla nostra stessa società. L’incontro avuto con la Ministra della Giustizia Cartabia ha sottolineato come oggi come oggi, il primo bisogno di chi lavora e vive in carcere oggi è proteggersi contro il virus, che porta malattia nel corpo e genera tensioni, ansie e preoccupazioni nello spirito. E la protezione per eccellenza contro il Covid è il vaccino. Che va somministrato quanto prima a tutti i detenuti, agli operatori e agli agenti penitenziari.
In chiusura una domanda sul mondo della lavoro è in crisi – una crisi spinta all’estremo dalla pandemia con milioni di italiani finiti in povertà -. Come lavorare in carcere per tessere relazioni di lavoro che è in parte recupero in parte riabilitazione anche professionale del reo, davanti ad una situazione fuori così complessa anche nel modo del Terzo Settore, spesso ricettivo e collaborativo con percorsi di reintegro lavorativo di ex detenuti?
Il lavoro svolge un compito fondamentale nel reintegro a pieno titolo in società di un ex detenuto. Il lavoro oggi ero non c’è, o non si trova, e se questo è problematico all’esterno figuriamoci all’interno. Il lavoro per le persone che escono da un percorso di detenzione dovrebbe richiedere uno sforzo collettivo ancora più grande affinché il lavoro educativo fatto dentro, non vada perso in poco tempo. Una barriera, però, su cui dobbiamo lavorare alacremente a prescindere dalla pandemia, è lo stigma che colpisce il detenuto anche dopo il suo percorso in carcere. Dobbiamo riuscire a far percepire la detenzione come uno degli ostacoli della vita personale in cui i soggetti si possono trovare. Questo è a prescindere dalla crisi del mondo del lavoro in corso, il primo punto su cui lavorare, culturalmente, socialmente e anche lavorativamente.
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