«Ho creato i ROC per gente che era stata rifiutata, abbandonata"», Phoolish, che ora ha 24 anni mi disse una sera gelida durante una conversazione online, «io stesso adesso sono homeless». Avevo parlato con lui moltissime volte, per mesi, prima di pormi la questione di dove abitasse. Fin dall’estate precedente avevo condiviso centinaia di foto con lui e i suoi amici su Facebook e all’udire quelle parole mi sentii un’ingenua perché mi mancava un’informazione fondamentale su qualcuno con cui parlavo regolarmente. E non finì là: «Tu vedi solo quello che vuoi vedere», aggiunse e in quel momento mi mancò la terra sotto i piedi: era legittimo fotografarli se non vedevo «il quadro completo», ma solo quello che i miei occhi volevano seguire?
Nel corso dei mesi molte persone misero in discussione il mio interesse nel documentare la vita del gruppo. Avevo dalla mia solamente la mia ispirazione e la vita autonoma che prendevano le immagini sui social media. Le foto venivano condivise e usate da questi performer ventenni che tutti si fermavano a fotografare e riprendere, ma con cui nessuno si fermava a parlare e a scambiare un indirizzo. «Quasi non riuscivamo a vedere noi stessi se tu non eri in giro», mi disse un giorno Boogiee, «sei l’unica che condivide subito le immagini con noi». Boogiee quell’estate aveva 20 anni ed era la leader della crew, o come direbbe lei, il leader.
A New York, dove lo street cred è cruciale per il successo di qualsiasi spettacolo di strada, i ROC sono conosciuti e attesi nel weekend in un certo angolo di Union Square. Il talento in mostra, la qualità del loro movimento, la musicalità, sono capaci di fermare il traffico in una città dove non ci si sofferma mai e non ci si stupisce di fronte a niente. Talento tanto più significativo se messo accanto agli eventi e alle situazioni di vita in cui si trovano questi giovani adulti.
Durante lo spettacolo non ci sono parole rivolte al pubblico. I corpi in movimento raccontano la storia di ogni persona: complessa, brutale, sofisticata, potente. Racconti di discriminazione e razzismo e di possibilità negate così come storie d'amore e amicizia e successi.
Lei l’avevo vista ballare tre anni prima la notte di Capodanno, eravamo da sole e aveva danzato solo per me. Quella notte non avevo chiesto il suo nome, mi aveva colpito il suo sguardo, di donna e di uomo, di bambina e di adulto – tanto da perdere tre treni per guardarla (per New York, un record). Durante il primo scambio online tre anni più tardi, Boogiee mi parlò in modo diretto, dritto come un fuso: «Che fai?» «Fotografo e scrivo», «Vuoi raccontare la mia storia?», «Che storia è?» «Chi sono e perché faccio quello che faccio».
Boogiee è ancora senza casa, vive con gli amici qua e là ( «La sfida più grande? Trovare i vestiti!»). Quando aveva 13 anni e viveva Upstate New York un’insegnante la vide baciare una ragazza e fu letteralmente sbattuta fuori dalla madre che non approvava il suo orientamento sessuale. A quell'età era una studentessa modello e aveva ballato a livello agonistico fino dai 5 anni: «Nella mia comunità di essere gay è fortemente condannato, come anche il fatto che mia mamma non sopportò che era stata una bianca a dirle qualcosa su sua figlia», dice. Boogiee venne ospitata in varie famiglie e istituti e a 17 anni finalmente approdò ad Harlem, da Green Chimneys, un centro antiviolenza per giovani LGBT. «Questo è il momento in cui ripresi a ballare, finalmente libera dalle potenti dosi di sedativi che mi somministravano per controllarmi. Persi il peso che avevo accumulato a causa dei farmaci, e inoltre mi venne ridato accesso a un pianoforte: per due anni non avevo potuto avere attorno a me nessun oggetto – avevano paura che lo scagliassi in un accesso d’ira – e quindi niente musica. Il contatto con l’arte mi salvò: adesso potevo esprimermi, ritornai a vivere. Le forme di danza che avevo studiato durante la mia infanzia le integrai con breaking, vogueing, capoeira, african. Su Youtube vidi i primi video autoprodotti di danza in metropolitana e decisi di andarci pure io. Ogni giorno scendevo dalla 149ma strada ad Harlem fino alla 14ma e mi esibivo sulla piattaforma del treno L, a Union Square – che è poi dove anche tu mi vedesti. Amo essere leader di un gruppo perché posso dare alla gente la possibilità di esprimersi al di là delle parole. Dò un esempio ai più giovani o più insicuri di me: se credi in quello che fai puoi ottenerlo in qualunque circostanza. Io sulla strada ho dovuto difendere sia la mia danza che la mia sessualità. Per fortuna non ho mai dovuto scendere a compromessi o vendere la mia anima o il mio corpo per sopravvivere. Sai perché i giovani gay sono un’altissima percentuale dei senzatetto minorenni? Le loro famiglie li buttano fuori. Io non ho mai avuto la chance di fare un “coming out”, sono stata “messa fuori”, sia perché altre persone hanno dichiarato la mia sessualità, sia perché mi hanno letteralmente estromesso dalla mia stanza, dalla mia casa, dal mio mondo. Di continuo nelle città americane ti viene ricordato che se sei nero sei una persona di serie B. Immagina essere donna, essere nera, essere gay, essere pure senza casa ed essere una danzatrice agli inizi!».
Durante la Pride Parade del 2015 Boogiee teneva in mano un cartello che diceva “intersezionalità”. Quel giorno mi disse: «Immagina poter camminare lungo la Quinta Strada e dire “Io ci sono, io conto”. Immagina essere vista».
Vedi solo quello che vuoi vedere.
Ho lavorato due anni seguendo il gruppo di Boogiee. L'anno scorso è stata invitata con il suo gruppo a ballare all'Aids Walk 2016 a Central Park. In quella lunga giornata i passanti che erano venuti a vedere la corsa e che assistevano allo spettacolo non trovarono il contenitore delle offerte: il secchio era girato al contrario. I ragazzi ballarono per ore, e alla fine si concessero una sudatissima fetta di pizza, la famosa “New York slice”; quel giorno erano in quattro: Boogiee, Phoolish, Andrew, Roya. Poche ore dopo lo spettacolo mi arrivò un messaggio: «Quando ripenso ad oggi, mi rendo conto che abbiamo fatto un bel gesto a tenere girato il secchio delle offerte: oggi siamo stati noi a dare».
Tale può essere l’animo di questi giovani artisti che rendono magica la strada.
Eppure alcuni giorni non mettono insieme abbastanza soldi per mangiare e entrare nella metropolitana, devono sceglierne una delle due.
La risposta dunque è venuta col tempo, e una citazione di James Baldwin: «Si dice che la macchina fotografica non può mentire, ma raramente le facciamo fare altro, dal momento che la macchina fotografica vede ciò verso cui la punti: la macchina vede ciò che tu vuoi che veda. Il linguaggio della macchina fotografica è lo stesso dei sogni».
I Raiders of Concrete si esibiranno il 21 maggio all’AIDS WALK 2017.
I Raiders of Concrete e la AIDS Walk
Testi a cura di Francesca Magnani
Foto a cura di Francesca Magnani
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