Nel suo libro Le dieci parole. Il decalogo come non lo hai mai sentito raccontare (Garzanti), Haim Baharier, straordinario comunicatore studioso della Torah, ermeneuta, psicanalista, nato a Parigi nel 1947 da genitori sopravvissuti ad Auschwitz, guarda al testo dei dieci comandamenti da una prospettiva inedita: non più come prescrizioni dal sapore ormai arcaico, ma come promesse di un futuro migliore.
Baharier, lei ha percorso tutta la seconda parte del Novecento, testimone di tutte le svolte storiche che hanno interessato Israele. Cosa può dirci della situazione odierna?
Quando ho scritto Le dieci parole il mio intento era quello di far capire che l’ebraismo è un percorso identitario e che la sua meta è la strutturazione di un certo tipo di società, che ho chiamato la “società dell’economia di giustizia”: l’accoglienza dello straniero, il colmare il gap suscitato dalla claudicanza. Questo spiega anche perché la prima delle dieci parole presenta il Divino non come colui che è Dio o come colui che ha creato l’universo, bensì come colui che trae dalla schiavitù, e non solo, trae dalla casa della schiavitù. Quindi, da tutte le derivate della schiavitù. Perché contrariamente alla religione come istituzione, l’ebraismo non ha una vocazione universale, essendo un percorso identitario: la sua vocazione è scoprire i valori che verranno confrontati con i risultati di percorsi identitari altri. Ad esempio il coraggio. Ogni percorso identitario fa scoprire tale valore in un certo modo. Il confronto ne permette la condivisione e l’approfondimento. I saggi del Talmud hanno operato in questo modo con la filosofia e la scienza greca.
Il problema è che le religioni sono esattamente il contrario, la loro vocazione è ossessivamente universale e quindi la loro meta resta la conversione. Sappiamo bene cosa è successo quando una parte dell’ebraismo si è trasformato in religione. Questo per me è fondamentale per capire cosa è successo dalla creazione dello Stato di Israele in poi. Non bisogna confondere la questione rappresentata dai palestinesi e dalla loro terribile situazione con quello che è Hamas, che è letteralmente una deriva religiosa inaccettabile. Quando la religione diventa invasiva, sappiamo cosa succede, perché quello che è successo in Occidente è esemplare… Le guerre di religione e le persecuzioni antisemite violente e ricorrenti. Io temo che, parte del problema dell’attuale situazione, sia anche questo. Credo che chi sta pagando il prezzo di ciò è, da una parte, il popolo palestinese, dall’altra parte, il popolo d’Israele.
Anche alla luce dei suoi studi, come vede il futuro?
Si pensa che io sia un pessimista perché, quando c’è stata la celebrazione del Giorno della Memoria al Teatro Franco Parenti di Milano, ho affermato quanto ero contrario a questo tipo di approccio. Dissi che quello di cui abbiamo bisogno sono due cose. Per il popolo di Israele è necessaria una riflessione intima (lo chiamo popolo di Israele perché è sempre nel percorso identitario) e l’Occidente ha bisogno di una riflessione sull’Occidente, non di una condivisione del Giorno della Memoria. La mia riflessione fu (e non era affatto statistica) che l’antisemitismo in Occidente era sempre in agguato. Temo di aver avuto ragione…
Quindi vede il futuro con ottimismo o con pessimismo?
Io sono tutto tranne che un profeta. Mi sono sempre chiesto perché le profezie siano state scritte. La risposta che mi sono dato è perché vanno sempre interpretate, sono soggette ad ermeneutica. La Torah, i primi cinque libri della Bibbia ebraica, è oggi. Se io devo provare a immaginare il futuro lo leggo nella Torah. Vado a estrapolarlo dalle parole, dallo svolgimento della storiosofia proposta dalla Torah e allora non mi ritengo pessimista. Mi allineo molto con Sergio Della Pergola (statistico e saggista di origine italiana emigrato in Israele in gioventù, ndr), io credo che ne usciremo e sarà importante perché serviremo da paradigma. Quando si dice che Israele è la punta dell’Occidente non si intende il messaggio alterato dai mass media, che “gli ebrei devono sempre eccellere in qualsiasi campo”. Preferirei pensare che abbiamo preso coscienza della claudicanza dell’umano: è il bisogno di capire che siamo incompleti, che dobbiamo svilupparci e approfondire incessantemente il nostro percorso.
Anche queste tragedie possono servire a costruire la pace? Lei vede degli spiragli di pace?
Gli spiragli di pace, se non li vedo, li vorrei inventare. Solo visitando Israele si può sentire l’atmosfera di una società aperta, umana e conoscerne le preoccupazioni.
Si può ancora essere pacifisti?
La Torah dice: “Come l’Adonai è misericordioso, tu devi essere misericordioso. Come l’Adonai è compassionevole, così tu devi essere compassionevole. Come l’Adonai è giusto, tu devi essere giusto. Come l’Adonai compie delle azioni che sembrano una vendetta, così tu devi compiere queste azioni”. Sembra una contraddizione e dunque di difficile comprensione. Quando succedono dei fenomeni naturali devastanti (per esempio il diluvio universale), è sempre a fin di bene. Racconta che una parte dell’umanità si salva e si chiama Noè. Salva una parte dell’umanità che non si sarebbe salvata senza questo fenomeno naturale. Dobbiamo andare a vedere qual è il messaggio celato. Altro esempio: se partiamo in guerra dobbiamo avere una meta giusta. Qual è la meta più giusta di una guerra? È la difesa, anche difesa preventiva. Io non sono pacifista. Sono un amante della pace, ma non sono pacifista. Il pacifismo non esiste in realtà. Esiste una pace che si merita di essere conquistata, è un’altra cosa. Una pace, con delle condizioni molto chiare, che deve coinvolgere tutti i componenti di questa pace. Penso che sia più realista del pacifismo.
Del suo libro Le dieci parole. Il decalogo come non lo hai mai sentito raccontare, Maurizio Meschia nell’introduzione scrive: “Contribuisce all’urgenza di riagganciarsi a Parole millenarie, a rilanciarne l’invito alla riflessione, a spremerne il senso, il valore”
Maurizio Meschia è uno dei più grandi poeti minori italiani, e spero si comprenda la mia idea di poeta “minore”. Per procedere con la lettura odierna, faccio un esempio. È assolutamente proibito consumare degli animali tutta la parte della carne che è innervata dal nervo sciatico perché il patriarca Giacobbe, prima di incontrare il fratello Esaù, ha avuto una lotta con un essere non ben definito che premendo sul nervo sciatico lo ha lasciato vistosamente claudicante. Il modo migliore offerto a Giacobbe per far capire a Esaù che siamo tutti claudicanti. Far vedere le proprie claudicanze ci permette di incontrare il prossimo, a livello sociale, psicologico, politico. L’opposto di ciò che avviene oggi, in cui ognuno vuole mostrare quanto è bravo. Invece bisognerebbe evidenziare la propria claudicanza, le proprie carenze. A mio padre, che mi rimproverava quando ero un disastro a scuola ed ero tra gli ultimi della classe, ribattei: “Eppure bisogna che qualcuno sia ultimo”. La sua risposta fu altrettanto pronta: “Non sta scritto da nessuna parte che debba essere tu”. Se potessi, oggi gli direi che essere penultimo mi è servito molto nella vita. Il problema del nervo sciatico è oggi. Non bisogna aver paura di mostrarci come siamo e, se fatto autenticamente, forse riusciremo ad incontrarci. Ogni parola della Torah parla oggi. Bisogna solo verificare che sia condivisibile.
Quando sento odor di antisemitismo c’è qualcosa che stona, siamo in pericolo, la mia cultura non mi protegge più
Haim Baharier
Lei ha affermato: “Rimanere sordi ai segnali di antisemitismo è una carenza etica”
Devo essere capace di dirmi sempre la verità. Quando sento odor di antisemitismo c’è qualcosa che stona, siamo in pericolo, la mia cultura non mi protegge più. Quando arrivai in Italia un grande personaggio della cultura mi accolse con affetto e calore. Poi, un giorno, nel mio studio, questa persona mi disse con naturalezza: «Certo che quando avete il coltello dalla parte del manico siete i peggio». Risposi mostrandogli la porta dalla quale poteva uscire. Questo si chiama antisemitismo.
Parliamo di una persecuzione che dura da 27-30 secoli, è incomprensibile e probabilmente ha a che vedere con l’odio e anche, in un certo qual modo, con l’odio di sé.
È importante insegnare a non rimanere sordi ai segnali di antisemitismo, sin da quando si è piccoli. Cosa si potrebbe fare per far diventare i bambini di oggi dei “costruttori di pace”, in modo che diventino degli adulti “costruttori di pace”?
Sono d’accordo con lei. Si insegna nelle scuole il latino e il greco e c’è chi propone di abolirlo perché lingue morte. Sarebbe un crimine. E si potrebbe insegnare anche l’ebraico, a mio senso la lingua dell’etica, lingua antica e ancora viva. L’apprendimento dell’etica sarebbe lo strumento per lottare contro l’istinto, la pulsione antisemita. Volentieri creerei un movimento su questo. Credo che sarebbe un ottimo inizio.
Il libro Le dieci parole. Il decalogo come non lo hai mai sentito raccontare (Garzanti) di Haim Baharier verrà presentato nell’ambito di Bookcity Milano, il 19 novembre alle ore 12.30, presso il Circolo Filologico, Sala Liberty, via Clerici 10.
La foto di Haim Baharier è del Centro Binah, la copertina del libro è dell’ufficio stampa Garzanti.
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