#montagnafelix

I montanari per forza e la nuova identità montana

di Sara De Carli

In montagna vi sono paesi in cui la percentuale di cittadini stranieri supera il 33%, contro il 19% di Milano. In montagna si stanno realizzando le più belle esperienze di accoglienza diffusa di richiedenti asilo. Cosa succede quando il territorio incontra questi nuovi abitanti? La montagna è un laboratorio sociale a cielo aperto, dove stanno nascendo nuove identità non solo processi di inclusione.

Le montagne non più terre di abbandono: il primo timido segnale di inversione di tendenza risale addirittura al 1996, benché l’immaginario comune ancora parli prevalentemente di spopolamento. Chi sono però i “nuovi montanari”? Hanno tantissimi volti: c’è il neo-ruralismo, c’è chi nella montagna cerca un immaginario di libertà, qualità di vita, autenticità di relazioni, ci sono i ri-tornanti, che percorrono al contrario le medesime strade percorse dai loro nonni… Accanto a tutti questi “montanari per scelta”, che già fra loro hanno motivazioni e aspettative diverse, ci sono anche – da diversi anni – quelli che sono stati definiti “montanari per forza”. Persone cioè che non hanno scelto di vivere nelle “terre alte” ma che qui hanno semplicemente trovato un lavoro e una casa (non necessariamente in quest’ordine), oppure perché che sono qui soltanto perché qualcuno ce li ha portati, scegliendo per loro: è il fenomeno più recente, nel complesso quadro della gestione dei richiedenti asilo e protezione internazionale.

Non si tratta però di piccoli numeri, tant’è che Dislivelli – un’associazione nata nel 2009 a Torino dall’incontro fra ricercatori universitari e giornalisti specializzati nel campo delle Alpi e della montagna, che studia il territorio alpino e i suoi abitanti, i vecchi e nuovi “montanari”, ma che si impegna anche direttamente per favorire una visione innovativa della montagna e delle sue risorse – quest’anno al tema ha già dedicato ben due numeri della sua rivista: Montanari per forza, nel febbraio 2016 e Non passa lo straniero, nel giugno 2016. Per questo abbiamo cercato Maurizio Dematteis, direttore della rivista, già autore della ricerca e del volume Mamma li turchi. Le comunità straniere delle alpi si raccontano e Andrea Membretti, docente di sociologia del terrtorio all’università di pavia, socio di Dislivelli e curatore della rubrica “Montanari per forza”.

Cominciamo con qualche numero. Ci sono piccoli paesi di montagna dove la popolazione di origine straniera arriva al 27, 29, il 33% della popolazione, contro il 19% di Milano. E non si tratta delle località altisonanti del turismo montano, dove si immagina ci possano essere più occasioni di lavoro…
Andrea Membretti: Sì, un comune con altissima presenza di cittadini di origine non italiana è Pargelato, nelle Valli Olimpiche: c’è una comunità rumena venuta per costruire gli impianti delle Olimpiadi invernali, che è rimasta. A Bagnolo Piemonte, nel cuneese, sono i cinesi che lavorano nella cave mentre in Val Tanaro, al confine tra Liguria e Piemonte ci sono tanti nordafricani nell’edilizia… Moltissime sono anche le donne che lavorano come badanti, in paesi con una presenza di anziani altissima. Hanno trovato ambienti favorevoli all’insediamento: disponibilità lavorative in settori abbandonati dagli italiani e disponibilità di alloggi a basso costo, che spesso è un fattore attrattivo che viene prima anche della disponibilità di lavoro. Ovviamente conta anche una certa rarefazione sociale: dove c’è poca popolazione e molto sparsa sul territorio è più facile che non ci siano resistenze contrarie all’insediamento di nuovi volti. Se parliamo di immigrazione economica in montagna, esiste da almeno vent’anni ed è una presenza che nessuno contesta e che anzi ha spesso aiutato le comunità a mantenere in vita servizi come la scuola, le poste…

Dematteis: Una decina di anni fa feci una ricerca sui migranti economici nelle Alpi piemontesi, Mamma li turchi. Era il periodo dei flussi, si erano creati fenomeni interessanti. La montagna ha una capacità maggiore di accoglienza e di ascolto, più della città. In città c’è il politically correct, mentre in montagna magari all’inizio la diffidenza è urlata ma poi è più facile che i muri cadano, perché c’è accettazione che in città c’è meno, perché qui ci si conosce fra persone, in città no e così il muro della diffidenza rimane. Qui c’è un bisogno concreto di persone fisiche, a partire dalle braccia, le buche devi metterle a posto qui, gli anziani che hanno bisogno di una assistente sono qui… quando vedi che queste persone arrivano, mettono radici, chiamano la loro famiglia, investono nel territorio… le barriere cadono. Certo è fenomeno estremamente diverso quello dei migranti non economici.

Per i migranti non economici cosa serve?
Membretti: I rifugiati oggi vengono in parte ricollocati in montagna, però serve che la politica accompagni questi trasferimenti, creando contesti di accoglienza e di inclusione. Se li lasci in un albergo in disuso, senza un programma di attivazione e di inclusione, senza rete, senza comunicazione, magari portandoli lì di notte senza che nessuno sappia nulla… è ovvio che se tutto viene lasciato ricadere sulla popolazione locale, crea contraddizioni.orrg

Dematteis: Anche con i richiedenti asilo ci sono belle esperienze. C’è il Coro Moro, sei ragazzi tra i 20 e i 40 anni accolti a Pessinetto che cantano a cappella in piemontese e ormai sono diventati famosi perché sono proprio bravi. A Pettinengo nel biellese è stato interessantissimo l’anno vedere la manifestazione dei cittadini ai dinieghi ricevuti da alcuni richiedenti asilo, perché “ormai fanno parte della comunità”. Pettinengo è un paese di 1.500 abitanti a 800 metri di altezza con problemi di disoccupazione dopo la chiusura della Liabel, l'industria tessile il cui marchio era famoso per la maglieria intima. Pettinengo è un paese montano come tanti gli altri, ma alla fine l'ospitalità ha prevalso sull'ostilità iniziale e oggi l'associazione Pacefuturo gestisce una settantina di richiedenti protezione internazionale nei Comuni di Pettinengo e Ronco Biellese.

Membretti: Quello che funziona non è “la montagna”, quello che sta funzionando è il sistema Sprar, che però quanto ai numeri è minoritario. Nei comuni alpini nel 2015 sono stati accolti meno di mille persone con lo Sprar.

Queste persone, che portano una cultura diversa, come cambiano il territorio e l’identità? Si pensa spesso alla montagna come luogo di identità e tradizione, come si rapporta invece nella realtà con questi elementi di diversità e novità?
Dematteis: Le rispondo citando l’antropologo Annibale Salsa: la tradizione non è altro che innovazione riuscita. Questo lo vedi nelle valli alpine, da sempre, sono sempre state un luogo di passaggio, trasformato dai flussi di popoli diversi. Se va in Val Varaita trova una rievocazione storica dell’arrivo dei saraceni. Certamente questa è una fase storica che sta lasciando i suoi segni nei territori montani. A Bussoleno, in Val di Susa, ci sono un centro culturale arabo e un piccolo negozio che vende spezie e quanto serve per la cucina magrebina, tutte cose che prima le famiglie andavano a prendere il sabato al mercato di Porta Palazzo a Torino e ora invece fanno la spesa qui. A Pietrabruna, nell’imperiese, c’è una comunità turca della Cappadocia, specializzata nei muretti a secco, ora lì il territorio è tutto terrazzato, questo ha trasformato il territorio.

Membretti: Noi veniamo da acluni anni di riflessione sui “montanari per scelta”, sui neomontanari, su chi va per aprire attività economica, cerca qualità della vita… Negli ultimi 15 anni c’è stata una riconcettualizzazione della montagna, non più come “la terra dei vinti”, residuale rispetto al mondo industriale. C’è una nuova centralità della montagna, c’è la vibratilità dei margini. Tutto questo è possibile perché il paradigma di sviluppo è cambiato, il modello industriale è superato. I nuovi montanari però numericamente parlando rischiano di essere una porzione esigua: sono una elite che va fortemente sostenuta perché porta innovazione e dà un immaginario nuovo, ma forse dobbiamo cominciare a porre attenzione anche ai movimenti migratori e ai cambiamenti climatici, a fare i conti con persone che al di à degli immaginari cercano banalmente un posto sicuro dove vivere in maniera dignitosa, che fanno ragionamenti di risorse materiali e le Alpi lo sono. Io credo che il nuovo sviluppo montagna debba considerarli entrambi, i montanari per scelta e in montanari per forza. Dobbiamo ragionare su come si passa da essere montanari per forza a essere montanari per scelta. I cinesi lo hanno fatto. Diverso il caso dei moldavi. Cosa faranno domani i senegalesi? Come possono interagire questi nuovi montanari con la comunità locale, e dare un apporto effettivo, senza che la montagna sia la discarica dove relegare i problemi sociali ed evitando la vulgata che tutto deve tornare come è sempre stato.

D’altronde, se la soglia minima antropica non c’è più, se la popolazione è talmente esigua, fino a che punto si può parlare di identità? L’identità è un guscio, se le persone non ci sono! Non se ne parla tanto, ma il tema oggi è la possibilità che si sviluppino nuove forme identitarie, che possono non avere a che fare né con i luoghi di origine delle persone né con il luogo. Perché è ovvio che chi vive un ambiente con una cultura diversa, va a risignificare materialmente i territori, non solo simbolicamente: nell’interazione con il contesto crea innovazione, e queste innovazioni verranno fuori. Pensare che rimangono i gusci è follia, tuttalpiù resta il folcore, che però non è l’identità. Nel documentario Piccola terra, si parla dei terrazzamenti di Valstagna (VI) che stanno crollando. Uno di essi è stato recuperato da un marocchino che ha una pizzeria in paese e che voleva voleva servire ai suoi clienti il vero te alla menta. Ha recuperato il terrazzamento, è andato in Marocco a prendere le piantine di menta, ha iniziato a coltivarla. Storicamente lì si coltivava tabacco, non menta. È un esempio piccolo ma molto interessante. Le possibilità di meticciato, di innovazione, di creatività, sono talmente alte… dobbiamo domandarci anche queste cose, non solo chiederci come possiamo includere nell’identità tradizionale la persona di origini marocchine o senegalesi.

Foto Paolo Siccardi e pagina Facebook del Coro Moro

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