Vito e Costantino non si erano mai incontrati fino al giorno della strage. Eppure l’isola è piccola. I pescatori si conoscono tutti.
A largo di Lampedusa era la mattina del 3 ottobre 2013. Il barcone capovolto. I corpi nudi e le mani tese nel mare limpido della Tabaccara. Le urla che non erano il canto dei gabbiani. Centinaia le vite da salvare: 47 soccorse dal peschereccio Gamar di Vito Fiorino, 11 da Nica, la piccola imbarcazione da diporto di Costantino Baratta e Onder Vecchi, 18 e due cadaveri dalla barca di Domenico Colapinto e dei suoi fratelli.
Oggi Vito e Costantino raccontano quella strage dove sono morti 366 migranti, mentre percorrono il viale che porta dritto alla Foresta dei Giusti, al monte Stella, conosciuto dai milanesi come la Montagna de San Sir. Qui troveranno una targa dove sono stati scolpiti i loro nomi, insieme a quelli di tanti altri “giusti” che per l’associazione Gariwo hanno operato per il Bene, prevenendo crimini contro l’umanità e genocidi, con gli occhi rivolti alla Shoah.
Per Vito e Costantino è strano trovarsi qui in un momento solenne di riconoscimento. In passato solo qualche stretta di mano da parte delle autorità e un timido elogio durante una seduta del consiglio comunale. «Perché abbiamo fatto quello che avrebbe fatto chiunque e non siamo degli eroi», rispondono, con l’umiltà che contraddistingue chi nella vita di professione fa il falegname, Vito, o il muratore, Costantino.
La notte della strage del 3 ottobre 2013 Vito Fiorino è il primo ad avvicinarsi al luogo del naufragio, poche centinaia di metri dall’isola dei Conigli. «Dopo aver finito di cenare, come si fa con amici in barca, avevamo deciso di tornare in mare. In quel periodo si cercano i tonnetti e si pesca a traina. Ero sotto coperta, quando Alessandro mi dice che sente vuciare di gabbiani». Vito decide di avvicinarsi. Pochi minuti di navigazione verso il mare aperto e si trova davanti la tragedia che ha segnato per sempre la sua vita.
«Saranno state tra le 6,20, e le 6,25. Ho chiesto ai ragazzi del mio equipaggio di chiamare subito la Capitaneria, dalla radio di bordo abbiamo chiamato almeno sei, sette volte, ma nessuno arrivava. Non c’era tempo da perdere, mentre i miei amici chiamavano la Guardia Costiera, io lanciavo salvagenti, un altro si è tuffato, le mani e le braccia intrise di nafta che cercavano di aggrapparsi alle nostre», racconta Vito.
Sono passate le 7 del mattino quando Costantino e Omar si avvicinano a quel gruppetto di barche: «Ragazzi che urlavano, braccia alzate, volti che supplicavano aiuto, chi si aggrappava a una bottiglia o a qualsiasi pezzo di legno galleggiante. Li ho presi dalla cintura come se fossero sacchi di patate. Erano sconvolti e si vergognavano perché erano nudi», aggiunge Costantino che con Vito non si era mai incrociato nell’isola dove si conoscono tutti.
Le loro barche quel 3 ottobre 2013
«Non si poteva perdere tempo, ma con la coda dell’occhio l’ho visto mentre dava aiuto. Dal suo peschereccio, Grazia mi urlava di andare a prendere quelli più a largo. Domenico Colapinto e i suoi fratelli continuavano senza sosta a tirar su i corpi», dice Baratta.
Oggi quando Vito e Costantino si incontrano lungo la via Roma di Lampedusa, parlano del più e del meno, ma alla fine il discorso va a cadere sempre sui loro ragazzi. «Li hai sentiti?», chiede Costantino. «Andrò a trovarli in Svezia», risponde Vito.
Il 3 ottobre di ogni anno, i sopravvissuti della tragedia tornano nell’isola per ritrovarsi con i rispettivi “papà” che la vita gli ha assegnato. Insieme fanno un giro in barca, silenzioso, lontano dai riflettori. Dormono a casa dei genitori della strage, come hanno fatto nei giorni immediati al 3 ottobre. Durante l’anno restano sempre in contatto tra email e WhatsApp.
«Mi chiamano father, mi scrivono che mi amano», racconta commosso Vito. «Siamo soltanto una famiglia allargata», sorride Costantino che della sua casa ha fatto negli anni un Internet Point.
Perché il lampedusano – autoctono come Costantino, o acquisito come Vito che per sei mesi l’anno abita a Sesto San Giovanni –è così. Sa accogliere e quello che ha fatto lo rifarebbe altre mille volte.
«Abbiamo scelto Vito Fiorino e Costantino Baratta per le loro capacità di essersi assunti fino in fondo il carico di altri esseri umani», spiega Ulianova Radice, cofondatrice e direttrice di Gariwo, vicepresidente dell’associazione per il Giardino dei Giusti di Milano.
Per Vito e Costantino quel 3 ottobre del 2013 è stato il giorno più lungo della loro vita. Una strage viva nella memoria dove la testimonianza dei pescatori di uomini è uno schiaffo agli slogan del tipo stop all’invasione, prima gli italiani. Perché anche su questo Vito e Costantino hanno le idee chiare: «Siamo stanchi dei politici che hanno cavalcato l’onda dell’immigrazione per ottenere voti. Il problema dell’Italia non sono i migranti» gridano all’unisono.
Vito e Costantino alla Foresta dei Giusti di Milano
Il 3 ottobre 2018 sarà il quinto anniversario della strage di Lampedusa. Le bare dei migranti allineate nell’hangar dell’aeroporto non sono state dimenticate. É lì che Costantino e Vito si sono presentati per la prima volta. Quei morti oggi seppelliti nei vari cimiteri della Sicilia chiedono giustizia.
«Dopo dieci giorni dalla tragedia fui chiamato in Capitaneria per firmare un documento dove mi si chiedeva che la mia prima telefonata era delle 7,01. Mi sono rifiutato, per me quello rappresentava un documento falso, non potevo firmarlo», racconta Vito Fiorino, mentre aspetta di ricevere la pergamena dei giusti e pensa a quei fiori appassiti nel giardino della memoria di Lampedusa.
I giusti di Lampedusa
Testi a cura di Alessandro Puglia
Foto a cura di Alessandro Puglia e Ass. Gariwo
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