Ugo Cardinale

I dieci neologismi della pandemia e della guerra

di Luigi Alfonso

Il noto studioso racconta il nostro Paese attraverso i cambiamenti del linguaggio. Da lockdown a denazificazione, da no vax a danni collaterali: ecco spiegati gli ultimi due anni nello scritto e nel parlato. «Talvolta sono parole di ritorno che mutano il significato originale»

Distanziamento sociale, no vax, quarantena, lockdown, green pass. E ancora: denazificazione, armi intelligenti, danni collaterali, corridoi umanitari, demilitarizzazione. Sono alcune parole chiave degli ultimi due anni, vale a dire il periodo compreso tra l’inizio della pandemia e il conflitto in terra ucraina. Ne parliamo con Ugo Cardinale, uno dei più illustri linguisti italiani, che ieri sera ha presentato a Cagliari il suo ultimo libro “Storie di parole nuove – Neologia e neologismi nell’Italia che cambia” (Società editrice il Mulino).

Il professor Cardinale ha insegnato all’Università di Trieste e alla Lumsa di Roma. In questo saggio parla del linguaggio che cambia di continuo, ripercorrendo la storia degli ultimi 60 anni della nostra Repubblica attraverso i neologismi.

«In verità – sottolinea – di parole che caratterizzano questi due anni ce ne sarebbero molte di più. Penso a mascherina, zona rossa, geopolitica, foreign fighter. Il conflitto russo-ucraino ci ripropone anche bunker».

Molte di queste parole non sono esattamente neologismi.

«Sono parole che ritornano, a volte con un significato diverso rispetto all’originale. La lingua è fatta così. Alcuni termini si affermano, poi scompaiono, magari ricompaiono. Alcuni muoiono, altri ancora acquistano un significato differente. Una parola che è tornata prepotentemente alla ribalta, negli ultimi tempi, è finlandizzazione, che già era in auge nel periodo della Guerra fredda Usa-Urss: la Finlandia è un Paese che ispira alla neutralità. Oggi si vorrebbe finlandizzare l’Ucraina».

Lockdown è una parola importata dall’inglese, ma il suo significato originale è stato stravolto. Poca dimestichezza con le lingue straniere?

«Letteralmente, dovremmo tradurla con “arresti domiciliari”, un termine che non ci piacerebbe granché. Dirla in italiano, sarebbe stato un po’ complicato, così si è cercata una parola straniera e la si è adattata alla necessità del momento, nella logica della cautela per difendersi dal virus».

Per un linguista esistono neologismi o parole di ritorno difficili da digerire?

«Il linguista deve fare la parte del notaio e registrare quello che ascolta e che legge. Non deve essere un moralista, anche se il suo parere può essere importante. Certo, ci sono termini forti, come denazificazione, che ci coinvolgono anche emotivamente: pensavamo che si trattasse di parole che avevano fatto il loro tempo. Vederle tornare alla ribalta, francamente, fa un certo effetto».

Ci sono tante analogie nel linguaggio usato in periodo di pandemia e durante i conflitti armati.

«Non c’è dubbio. Il linguaggio della guerra viene utilizzato anche nello sport, soprattutto nel calcio. Il nesso è abbastanza evidente, solo che durante la pandemia si trattava di un nemico invisibile, il virus, mentre in Ucraina la situazione ha acquistato risvolti molto concreti e tangibili. Non sembra una guerra del 2022, ricorda più i conflitti del passato. C’è poi da dire che alcune parole vengono prese in italiano inizialmente nel loro significato proprio, ma successivamente si aggiungono significati differenti. Pensate al termine movida: dopo il franchismo, in Spagna venne utilizzata per definire un senso di liberazione, quasi festivo, mentre in Italia è stata associata a elementi di negatività: movida selvaggia, mala movida, eccetera».

In entrambi i casi ci sono stati elementi di propaganda.

«Sia nel periodo della pandemia che in queste ultime settimane, non è che la comunicazione pubblica e di certi media abbia invogliato ad aver fiducia. Bisogna sentire sempre le diverse campane e farsi un’idea più precisa. È tuttavia evidente che negli ultimi due anni ci sia stata una sorta di infodemia, e durante la guerra pullulano le fake news. E sono quasi incontrollabili. Dipende anche dal significato che ognuno, dal proprio punto di vista, vuole attribuire a quelle parole. Faccio un esempio semplice: da una parte si parla di guerra, dall’altra di operazione speciale».

C’è quasi un bisogno atavico di ricorrere alle parole da trincea, nelle situazioni di emergenza. Come si spiega?

«La comunicazione nei momenti difficili diventa stringente, quindi bisogna sintetizzare e far convergere tutto in un’espressione o addirittura in una sola parola. All’epoca dei social, la comunicazione funziona così: un discorso complesso non funziona, ma una parola semplice o comunque di uso quotidiano, inserita in un certo contesto, arriva immediatamente a destinazione e risulta più efficace. Accade anche in politica: i discorsi complicati non bucano, come si suole dire. Pensiamo a quando Salvini diceva “Prima gli italiani” o quando Trump affermava “American first”: colpisce subito l’immaginario collettivo, in un periodo in cui il pericolo è più immaginato che reale. Qui, invece, il pericolo è concreto. Poi, ovviamente, ci sono anche le situazioni limite, che alimentano certe polarizzazioni e arrivano a ferire delle persone, sfociano nell’hate speech, cioè il linguaggio dell’odio: se parlo di un avversario politico e dico che voglio rottamarlo o asfaltarlo, lo riduco a un nemico che non merita rispetto».

Credits: foto ufficio stampa Ugo Cardinale.

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