Rosa Laplena

I beni confiscati? Sono lo scatto culturale che toglie consenso alla mafia

di Gilda Sciortino

Da oltre ventitrè anni Rosa Laplena si occupa di beni confiscati sperimentando sul campo la difficoltà di attuare percorsi di governance che, attraverso la sinergia tra enti pubblici, terzo settore e comunità locali, possano spezzare le catene che impediscono lo sviluppo dei territori. Una vera e propria responsabilità morale, più che un impegno professionale

Le sue radici affondano nel cuore di quella Sicilia forgiata dallo splendore delle Madonie, il posto più ricco di biodiversità in Sicilia e in tutto il bacino del Mediterraneo, capaci di conferire la dolcezza tipica di vallate e colline dalle quali riesci a scorgere anche squarci di orizzonti marini. Un territorio che forgia quella determinazione e tenacia propria di chi deve fare i conti con l’alternarsi di estati gioiose e piene di calore con la rigidità di inverni che non lasciano altra scelta che lasciare le case in paese per svernare a valle. È a San Mauro Castelverde, piccola comunità delle Alte Madonie, che nasce e si forgia anche il carattere sociale e politico di Rosa Laplena. In questo territorio che custodisce anche la memoria dei suoi affetti, legati alle tante battaglie portate avanti per difendere i diritti dei più fragili, Rosa Laplena comincia a capire da che parte stare: un passo indietro, attenta osservatrice, ma anche pronta a scendere in campo nell’immediato momento in cui serve il pugno forte. È, infatti, giovanissima che inizia a interrogarsi sull’assetto sociale della sua terra, intuendo ben presto che la mafia è uno dei poteri forti presenti sul territorio. L’assassinio di Pio La Torre, nel 1982, la porterà a fare una scelta di campo netta nelle fila della sinistra, dove fino alla metà degli anni ‘90 riversa ogni sua energia, operando in tutte le Madonie nella battaglia contro i poteri forti e l’oppressione mafiosa. Nel 2000 entra a far parte della squadra del primo progetto pilota di riutilizzo dei terreni confiscati nel Corleonese, promosso dal prefetto di Palermo e Libera, organizzazione con la quale si impegna professionalmente fino a metà del 2006. Coordina l’Ufficio nazionale dei beni confiscati, cura la nascita del progetto “Libera Terra” e i primi progetti pilota per il recupero dei beni confiscati in Sicilia, Calabria e Campania. 

Decidere di occuparsi di beni confiscati significa fare una scelta di vita

– Rosa Laplena, esperta di beni confiscati alla criminalità mafiosa

La raccolta del grano a Verbumcaudo (foto di Gilda Sciortino)

Un tema, i beni confiscati, che oggi fa parlare in quanto vera e propria emergenza a causa del taglio di 300 milioni di euro dal Pnrr, che ha messo in serio pericolo tutti i progetti che nei tanti beni confiscati del nostro territorio stavano creando pratiche virtuose, dando grandi boccate di ossigeno al mondo cooperativistico. Uno su tutti “Verbumcaudo”, feudo confiscato a Michele Greco, il Papa di Cosa Nostra, in quel di Polizzi Generosa, oggi gestito da una cooperativa di giovani sulla quale ha scommesso tutta la comunità.

Lei ne parla nel suo libro “I beni confiscati alla criminalità mafiosa. Dalla legge Rognoni La Torre ad oggi. Storia, applicazione della normativa, incidenza nelle politiche pubbliche di coesione territoriale e di sviluppo locale” (Mediter Italia edizioni). Un testo nel quale i ventitré anni di sua esperienza in questo settore raccontano attraverso i numeri un mondo che, ancora sconosciuto da molti, viene visto come moda del momento.

Ma quale moda e moda – spiega Laplena, oggi vicepresidente vicaria di Confcooperative Palermo responsabile dei beni confiscati e presidente della Commissione Legalità in Sicilia, oltre che componente del consiglio nazionale -. I beni confiscati sono il frutto del mancato sviluppo del nostro territorio, il risultato dell’emigrazione continua dei giovani causata dalla mancanza di prospettiva di sviluppo reale accumulato in questi patrimoni confiscati. Quando ho scritto il libro ho salutato con gioia i 300 milioni di euro, poi depennati dal Pnrr, perché sembrava il segnale che lo Stato si era finalmente reso contro che i beni confiscati erano il valore aggiunto della nostra società. Ad aggravare la situazione anche la cancellazione di 6 milioni di euro per le aree interne. A parte una debole protesta dell’Anci, nessun sindaco mi sembra si sia strappato le vesti. Se fossi stata io, avrei indossato la fascia e non sarei andata via da Montecitorio prima di avere recuperato questi soldi. Per tornare a Verbumcaudo, il progetto di 5 milioni e 300mila euro che doveva essere finanziato attraverso il Pnrr prevedeva l’implementazione dell’attività agricola, ma anche e soprattutto la possibilità di dare lavoro a sessanta giovani. Se non è una tragica conseguenza questa, non so proprio cos’altro possa esserlo.

La pigiatura durante la vendemmia (foto gentilmente concessa dalla cooperativa Verbumcaudo)

Lei scrive che, da un’analisi dei dati sull’effettivo uso sociale dei beni da parte della cooperazione sociale e del terzo settore pubblicati in una ricerca effettuata dall’associazione Libera a luglio 2022, i soggetti del Terzo settore che a oggi gestiscono beni confiscati sono 947, a fronte di oltre 19.332 beni confiscati destinati alla data del 31 dicembre 2021.

Un particolare ruolo in questo ventennio è stato svolto dall’associazione Libera che si è impegnata nella promozione della 109/96 e il riuso sociale dei beni immobili, ha curato seminari, progetti per la formazione sulla legge finanziati con fondi del PON Sicurezza, oltre a tutta una serie di attività rivolte all’animazione dei bandi territoriali mirati alla nascita di nuove cooperative. Purtroppo questo modello, pur dimostrando la sua validità, è ben lontano dall’essere applicato automaticamente e le esperienze fino a oggi maturate risultano ancora di natura straordinaria, ben distanti dal rendere ordinaria e automatica l’applicazione della 109. Inoltre, nonostante le associazioni, in particolare Libera, si siano prodigate con tutte le loro forze per sostenere il riuso sociale dei beni e la nascita delle cooperative, promuovendo tavoli istituzionali e richiamando l’attenzione di tutti Enti preposti, questo modello non ha trovato applicazione nel riutilizzo dell’altra tipologia di beni immobili confiscati, cioè i fabbricati destinati ad attività sociali. Di fatto, l’assegnazione dei fabbricati per lo svolgimento di attività e servizi prettamente sociali non ha usufruito del modello di concertazione pubblico–privato perché la criticità esistente all’inizio dell’applicazione della legge 109/96 era la mancanza di regolamentazione di come affidare il bene. Per questa tipologia di bene, infatti, per molti anni, si è privilegiata la strada dell’affidamento diretto. Il bene, una volta trasferito al patrimonio indisponibile del Comune, veniva assegnato dallo stesso direttamente a cooperative sociali, associazioni o altri enti simili, come ad esempio le parrocchie.

Il rapporto era circoscritto tra il Comune, l’ente concedente e la struttura del Terzo settore, ente ricevente. Questo ha portato a una quantità di contratti stipulati con criteri completamente differenti fra di loro, a volte con clausole capestro per le cooperative, le associazioni, gli altri enti assegnatari, a partire dagli oneri a carico degli enti riceventi, al numero di anni concessi per l’utilizzo del bene, alla possibilità (verificatasi diverse volte) per il Comune di riprendersi il bene in qualsiasi momento, magari rimettendoloo a bando. Nella stragrande maggioranza dei casi alle cooperative sociali, associazioni, assegnatari dei beni, nonostante gli stessi fossero utilizzati per fornire prevalentemente servizi sociali alle comunità, è stato richiesto di sostenere le spese di ristrutturazione e l’adeguamento del bene.

Criticità previste nelle diverse tipologie di contratti, che hanno spesso comportato l’interruzione delle attività sociali esercitate dalle cooperative sociali, rivolte alle categorie di persone svantaggiate. Ad esempio, soggetti autistici, con disagio mentale e altro.

Molti di questi casi eclatanti si sono verificati a Palermo dove abbiamo il maggior numero di beni confiscati, circa il 30% del totale della Sicilia. C’è da dire che il Comune si è dotato, già dai primi anni dell’applicazione della 109/96, di un regolamento che prevede l’assegnazione del bene tramite bando pubblico e che, in nome di un principio di trasparenza e di rotazione, prescrive che allo scadere delle convenzioni il bene venga rimesso a bando. Parecchie cooperative che avevano destinato il bene assegnato ad attività socio-sanitarie rivolte a categorie specifiche di soggetti svantaggiate, nonostante la presenza di convenzioni con l’ASP e altri enti pubblici, al gong dell’orologio hanno subìto la sua sottrazione, vedendosi costrette a interrompere le proprie attività e causando gravi disagi sia ai soggetti svantaggiati sia alle loro famiglie e agli enti pubblici che non hanno più potuto assicurare il servizio.

Gli Orti del Mediterraneo, bene confiscato a Misterbianco (foto gentilmente concessa dall’ufficio stampa del bene)

Una delle cause delle difficoltà riscontrate dalle cooperative che gestiscono bene confiscati sicuramente è imputabile alla scarsa attenzione che le istituzioni hanno riservato alle esigenze di queste realtà del privato sociale.

I dati analizzati attraverso studi mirati rilevano che le cooperative che gestiscono beni confiscati generano ricchezza, valore e nuova occupazione. Uno studio a cui si è fatto riferimento è quello sviluppato e pubblicato a luglio 2022 da Confcooperative, prendendo in considerazione un panel di 153 cooperative su un totale di 198 cooperative che gestiscono beni confiscati. Non indifferente il fatto che le 153 di queste realtà realizzano un fatturato aggregato che si attesta oltre 414 milioni di euro, con un valore medio pari a 2,7 milioni di euro e uno di 751mila euro; danno, inoltre, lavoro stabile a oltre 11mila dipendenti, registrando un valore medio di 72 unità e uno mediano di 60 unità. Il valore aggiunto aggregato si attesta sui 230 milioni di euro (valore medio di 1,5 milioni di euro, valore mediano di 418 mila euro. Dati che ci consegnano un quadro molto significativo sull’altissimo potenziale che i beni confiscati hanno in termini di sviluppo di nuova occupazione, di servizi per la comunità, crescita della ricchezza economica se gli stessi vengono inseriti dentro un quadro di politiche pubbliche mirate allo sviluppo socio-economico dei territori dove questi beni sono allocati.

Bene confiscato a Trabona (CL), gestito dall’associazione “Tam Tam” (foto di Gilda Sciortino)

Un altro dato importante che si evince dalla relazione è la concentrazione di beni confiscati nei territori in rapporto agli abitanti.

Due Comuni saltano agli occhi: Roccella Valdemone, appena 556 abitanti in una zona strategica  vicino  a mete turistiche suggestive siciliane come Taormina, Messina, Giardini Naxos, l’ Etna, che oggi conta 284 beni destinati, pari a 2,5 per abitante. Senza considerare i 42 beni nel territorio comunale, ancora oggi gestiti dall’Agenzia. L’altro Comune è Albaretto della Torre, 216 abitanti in provincia di Cuneo, in Piemonte, con 98 beni ancora in gestione dell’agenzia (il dato è pari al 2,64 beni per abitante).

La distribuzione dei beni in circa 80 comuni su tutto il territorio nazionale, poi, evince una forbice che va da un bene ogni 10 abitanti a uno per non oltre 99 abitanti.

 Il tema delle aziende le sta molto a cuore. Se ne è occupata in tutta Italia, ovviamente in Sicilia e anche in Calabria per oltre 4 anni.

Un lavoro di squadra grazie al quale abbiamo recuperato 33 aziende e salvaguardato 720 posti di lavoro. Padri di famiglia che, a differenza di quel che molti pensano, non sono collusi con il gruppo dirigente, ma sono lì solo per portare a casa un pezzo di pane. Hanno improvvisamente scoperto che cos’era una tredicesima, non perdendo fiducia nello Stato. Ma se questo latita, se dimostra tutta la sua indifferenza, cosa si trova costretto a fare, a chi si deve rivolgere un lavoratore rimasto improvvisamente senza nulla?  

Quali, dunque, le risposte anche per superare tutte le criticità che i beni confiscati ci presentano?

Intanto dobbiamo parare di governace multilivello nazionale e territoriale che, sotto il coordinamento dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, possa studiare piani per attribuire una funzione ai beni da destinare e trasferire agli enti territoriali. Penso anche a una governance territoriale di secondo livello, sotto l’egida delle Prefetture, che veda collaborare enti territoriali e privato sociale per una progettazione pianificata. Se, poi, vogliamo che i beni vengano ridati alla comunità per il migliore loro utilizzo, dobbiamo pensare a quello che chiamo anche un po’ provocatoriamente “piano regolatore sociale” che consenta di affidare i beni nelle loro funzioni. Ciò vuol dire che, se in un quartiere manca l’asilo, il consultorio o qualunque altro servizio di utilità per la collettività, il bene che insiste in quel territorio deve essere destinato solo a svolgere quella funzione.

Un quadro complesso nel quale devono coesistere tante componenti.

Si parla di lotta alla mafia da scegliere giorno dopo giorno per responsabilità morale.  Ci vuole coerenza nei fatti, comportamenti che rifuggono l’apparenza. Poco tempo fa il vescovo di Cefalù, monsignor Giuseppe Marciante, disse che” “la prevenzione non basta se non c’è un vero cambio culturale che toglie consenso alla mafia”. Quella è la responsabilità che ognuno di noi deve avere e che non possiamo delegare a nessuno.

Nella foto di apertura Rosa Laplena durante la sua partecipazione a Trame, il Festival dei Libri sulle mafie (foto ufficio stampa di TRAME)

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